Black Mirror – 3×01 Nosedive

[…] io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo. Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi.
Pirandello – Uno, nessuno e centomila

Ci sono due piani del discorso di Black Mirror, infatti, che vanno presi in considerazione: da un lato c’è la costruzione di un mondo altro, di una realtà futuristica al limite dell’utopico o comunque talvolta volutamente esagerata per far passare il messaggio (o la metafora, come dovremmo dire in questo caso); dall’altro c’è la componente umana, che è poi il livello che permette con estrema efficacia e puntualità di creare forte empatia tra lo spettatore ed il protagonista o i protagonisti delle vicende rappresentate. Queste due sfere interagiscono tra di loro con uno scambio unico che, almeno fino a questo momento, non ha mai fallito nel lavorare a dovere. L’idea di fondo, d’altronde, può esprimere anche temi non necessariamente originalissimi – come accadrà per questo primo episodio, che gli spettatori di Community non troveranno nuovo –, ma trattato e portato avanti in maniera spesso molto fresca e con una realizzazione tecnica invidiabile.


In questo mondo assolutamente finto non stupisce – ma anzi ribadisce ancora una volta come questa serie non abbia perso alcuno smalto – che il modo di rappresentazione visiva sia l’esaltazione delle tonalità pastello, che rendono tutto idilliaco e sgradevolmente inquietante. Quando la protagonista irromperà al matrimonio spezzerà anche cromaticamente il tenue alone che sembra dominare la messa in scena: non resta altro che il fango e la “follia” (ma su questo ci arriveremo) a frantumare questa finzione e a portare qualche colore più acceso. Da segnalare, poi, che la regia è affidata a Joe Wright che sa muoversi con grande maestria nella creazione di questo panorama visivo.




Il ritorno di Black Mirror conferma dunque come la scrittura e la realizzazione tecnica siano rimaste di altissimo livello; anzi, a dirla tutta, c’è in questo primo episodio della terza stagione una tale grazia espressiva che gli si perdonano anche quelle poche stonature che si evidenziano di tanto in tanto. Se il resto della stagione si manterrà su questi livelli, che sono altissimi, allora Black Mirror avrà definitivamente superato il soffitto di vetro che è sembrato finora esser riuscito a contenere la sua grandezza.
Voto: 8½
Black Mirror – 3×02 Playtest

“All that we see or seem / Is but a dream within a dream” – Edgar Allan Poe

Ma nonostante la varietà dei temi trattati e la costante presenza della fantascienza distopica come fil rouge che univa tutti gli episodi, è sempre stato difficile ricondurli a specifici generi: più che esplorare i topic della fantascienza, infatti, Black Mirror ha sempre puntato su uno stile di freddo realismo che non si è mai agganciato davvero a riferimenti o citazioni che strizzassero l’occhio allo spettatore, ma anzi cercava di decontestualizzare ogni momento del racconto con una messa in scena originale e continuamente spiazzante.

“Playtest”, infatti, è una vera e propria storia horror che però si inserisce alla perfezione nella poetica di Charlie Brooker, dando origine ad un interessante e sperimentale incrocio dal mood assolutamente unico.
Il regista è Dan Trachtenberg, il cui nome sarà familiare a chi ha visto 10 Cloverfield Lane, meta-horror del 2016 che come questo episodio di Black Mirror ha la sua forza principale nel giocare abilmente con le aspettative e le conoscenze dello spettatore, per trascinarlo in un gioco psicologico che usa gli stereotipi più classici dell’orrore per illudere, sviare, terrorizzare e sorprendere.
Frightened, you get a scare, you jump. Afterwards, you feel good. You get a glow. Because you are still alive.

Cooper – interpretato da Wyatt Russell, talentuoso figlio di Goldie Hawn e Kurt Russell – si comporta fin dall’inizio come il protagonista consapevole e fiducioso che tutti saremmo, non mettendo mai in dubbio i pericoli dell’esperimento ma anzi affidandosi bovinamente alla responsabile del progetto e scaricando la tensione con continue battute.
Lo stereotipo dell’americano easygoing e un po’ tontolone qui si addice perfettamente non solo alla fisicità di Russell, ma anche a costruire un antefatto in cui la sua mancanza di dubbi e senso del rischio verso i pericoli cui sta andando incontro evocano le nostre stesse mancanze: quando scarichiamo l’aggiornamento di una app, quando diamo il consenso a un documento senza leggerlo, quando flagghiamo un’opzione permettendole di utilizzare i nostri dati, stiamo sempre e comunque prendendo decisioni basate su una fiducia acritica nel sistema e nelle sue regole, in parte basata sulla leggerezza, in parte sull’illusione di conoscenza del web, delle leggi e della natura umana che inevitabilmente prima o poi si rivelerà fallace.
– You’re qualified to do this, right?
– I haven’t killed anyone yet.

Il fatto che le paure del protagonista prendano la forma dei mostri e delle situazioni più stereotipate della tradizione horror, insieme alla consapevolezza di Cooper di poter uscire quando vuole dall’esperienza grazie a una safeword, non fanno altro che accentuare la sua identificazione con lo spettatore: è un giocatore che diventa personaggio di un videogioco, convinto di sapere sempre cosa aspettarsi e di essere sempre in grado di riconoscere e prevedere le situazioni, avendo vissuto questi stereotipi in mille avventure al cinema, in televisione o davanti a una consolle.
E, come nel più classico dei topic horror, la mancanza di sospetto e prudenza è la causa ultima delle sfortune dell’eroe (come Ash nel ciclo de La Casa, ad esempio), ma è anche lo spauracchio che Brooker ci mette di fronte in questo secondo capitolo del Black Mirror “americano”.
Sfruttando con consapevolezza le potenzialità di una storia di genere e discostandosi dal discorso sulla società per concentrarsi sul comportamento del singolo, “Playtest” mette il dito sulle nostre responsabilità personali nel gestire con leggerezza qualcosa che crediamo di conoscere bene, ma che in realtà è troppo complesso per essere davvero prevedibile.
He’s gonna be right behind this door when I close it, isn’t he?

Dai ragni giganti e dalle figure inquietanti con la faccia del bullo della scuola si passa quindi alla paura di non essere più capace di distinguere tra realtà e finzione, che non permette di percepire i reali confini del pericolo e induce Cooper a crollare sempre di più, fino al panico totale.
La casa in cui si svolge il gioco non è più la trappola da cui fuggire materialmente, perché la trappola sta nella manipolazione da parte di chi dirige il gioco, di cui la casa è solo un simulacro banale pensato per ingannarlo e convincerlo di saper gestire la situazione.
Il dubbio sulle proprie capacità diventa così vera impossibilità di capire cosa realmente sta accadendo, fino a diventare disorientamento totale: Cooper non sa più cosa sta avvenendo realmente e cosa nella sua mente, dove si ferma il gioco e dove inizia il lavoro del suo cervello.
In un gioco di finali che si incastrano l’uno nell’altro e illudono anche lo spettatore di essere arrivato alla conclusione, di aver finalmente capito cos’è successo, assistiamo alla manifestazione della paura più grande del protagonista e forse di tutti noi, la perdita della coscienza di sé e della realtà che ci viene dalla memoria e dall’identità.
Just to get away and make, you know, all the memories that I can…while I can.

Così come ironica e spietata, nonché assolutamente in tono, è la scelta di attribuire la morte di Cooper alla trasgressione dell’unica regola che gli era stata imposta (quella di spegnere lo smartphone): una violazione non tanto dovuta all’avidità ma a un atto di ribellione e spavalderia gratuito, nato dalla stessa presunzione che ci porta sempre a dare per scontato che alla fine “non succederà nulla” nello stesso modo in cui consideriamo scontate la nostra identità, la nostra memoria, ciò che ci rende essere umani unici e capaci di vivere nel mondo.
“Playtest” mette in discussione queste certezze in puro stile Black Mirror, e lo fa attraverso uno stile capace di disorientarci insieme al protagonista, facendoci costantemente credere di aver capito, di aver vinto il gioco dei riferimenti e dei finali ma sempre in realtà prendendosi gioco di noi e delle nostre convinzioni illusorie, che il genere horror è perfetto nel mettere a fuoco e smascherare.
Un episodio differente da quanto ci saremmo aspettati, che, pur al netto di alcuni difetti come l’eccessiva lunghezza, è capace di ampliare le possibilità della messa in scena di Black Mirror senza snaturarne il messaggio di fondo, soprattutto grazie alla scelta di un regista il cui stile si adatta alla perfezione agli obiettivi della sceneggiatura. Che sono quelli, come sempre, di raccontarci e raccontare il nostro presente in un viaggio al tempo stesso emozionale e pieno di tensione, che esplora le nostre debolezze e ce le ributta in faccia con l’aspetto terrorizzante dei mostri che popolano il nostro inconscio.
Voto: 7½
Black Mirror – 3×03 Shut Up and Dance

Come un vero Giano bifronte, lo schermo – del pc, dello smartphone – diviene uno specchio in grado di riflettere al contempo l’immagine perfetta che decidiamo di mostrare all’esterno e le pulsioni più inconfessabili che, nell’illusoria sicurezza dell’anonimato, possono trovare libero sfogo. Ed è proprio questo scarto identitario a costituire lo spazio di manovra del vigilante senza volto che tiene in mano le redini del gioco durante tutto l’episodio: la minaccia di distruggere la sottile linea di separazione tra questi due mondi è infatti più che sufficiente a convincere tutte le persone coinvolte a spingersi sempre più in là, fino alla rapina e all’omicidio, nella vana illusione di riuscire a mantenerla intatta.
My life’s over if this gets out. Fucking over.

How do we know when it’s over?


You can laugh. A spineless laugh

In definitiva, “Shut Up and Dance” non fa altro che portare alle estreme conseguenze certe dinamiche che sono già tipiche della rete, e lo fa senza il bisogno di immaginare futuri distopici o ipotetiche evoluzioni tecnologiche, ma semplicemente mettendo in scena una reale possibilità del presente in cui viviamo, dando così vita a un episodio che, pur non raggiungendo le vette a cui la serie ci ha abituato in passato, non può dirsi un esperimento fallito. Il coraggio con cui Brooker e Bridges utilizzano tematiche come il razzismo e la pedofilia per problematizzare le pratiche di controllo e giustizia dimostra che Black Mirror, nonostante qualche ripetizione, è ancora lontana dall’esaurire il suo potenziale.
Voto: 7+
Black Mirror – 3×04 San Junipero

“Baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo.
Che te ne pare?”
Carlo Collodi, “Le avventure di Pinocchio”
Se con i primi episodi di questa stagione Charlie Brooker ha restituito al pubblico, dopo lunga attesa, le atmosfere cupe e disturbanti tanto amate dai fan di Black Mirror, con “San Junipero” l’autore inglese ribalta le aspettative del pubblico e confeziona uno degli episodi più atipici ma, al tempo stesso, più affascinanti della serie, una storia che sotto la sua apparente semplicità pone allo spettatore un quesito morale di rilevanza cruciale.
Prima di entrare nel vivo della questione, la prima parte dell’episodio si concede una lunga riflessione, sempre in bilico tra la critica e l’omaggio, sull’estetica del cinema adolescenziale anni ’80. L’incontro tra Yorkie e Kelly e la loro travagliata storia d’amore seguono i canoni del racconto di formazione per teenager alla lettera, al punto da sembrare un film di John Hughes con trent’anni di ritardo. Yorkie è il prototipo della ragazza timida e impacciata, incapace di omologarsi alle mode e agli stili di vita imperanti e con una passione personale inusuale come i videogiochi, divertimento per ghettizzati che, con un colpo di genio, Charlie Brooker pone letteralmente in isolamento rispetto agli svaghi della massa.

La storia d’amore delle due ragazze viaggia su binari ben noti, passando dall’esplosione del desiderio in una casa sulla spiaggia all’allontanamento e ricongiungimento finale, ma la love story si fonde con il racconto fantascientifico e viene messa subito in questione la sua veridicità: in questo Paese dei Balocchi moderno è sempre sabato sera, il momento della settimana perfetto per abbandonare sentimenti o preoccupazioni e dedicarsi al divertimento più sfrenato. Può addirittura cambiare l’epoca storica, ma il sabato sera e le ore che lo scandiscono fino alla mezzanotte rimangono l’unica realtà vivibile possibile, ed è in questo breve ma infinito lasso di tempo che Yorkie e Kelly mettono a nudo le reciproche insicurezze e paure.

È qui che Brooker sferra il colpo più duro, mostrandoci uno scenario futuro in cui la tecnologia soppianta la religione: il paradiso si è trasformato letteralmente in un Cloud di dati che trasforma l’anima in gruppi di bit, ologrammi della nostra vita passata creati per evitare il dolore del lutto. Ma fino a che punto si è disposti a rinunciare al dolore della perdita pur di avere la certezza della beatitudine eterna? Su queste basi si poggia lo scontro morale tra le due protagoniste: Yorkie vuole scappare dalla prigione, mentale e fisica, del suo passato e vede nel trasferimento a San Junipero l’unico modo per esaudire il suo sogno d’amore, ma Kelly non è disposta a rinunciare al ricordo della sua famiglia defunta, a quel passato che per quanto doloroso è ciò che la definisce, per ottenere un’eterna illusione, una scappatoia dal naturale ciclo della vita.

L’assenza di inattesi colpi di scena o di pugni allo stomaco visivi potrebbe far pensare, di primo acchito, a una caduta di livello rispetto agli standard a cui la serie ci ha abituato, ma la potenza di “San Junipero” risiede proprio nella sua schietta semplicità che gli consente di portare un passo più avanti il discorso sul lutto già elaborato in “Be right back”. La storia d’amore di Yorkie e Kelly ci colpisce perché parla di emozioni e legami a cui nessuno può considerarsi indifferente e si tramuta in una toccante metafora sulla perdita come fattore di umanità, sulla difficoltà nell’accettare i limiti della vecchiaia e sugli effetti nefasti della nostalgia portata alle estreme conseguenze.
Black Mirror mette dunque da parte la durezza impietosa che l’ha sempre contraddistinta e punta a un racconto conciso ma, al tempo stesso, di grande complessità, capace di emozionare lo spettatore e di costringerlo a fare i conti con la propria coscienza.
Voto: 8
Black Mirror – 3×05 Men Against Fire

Tuttavia, la qualità della serie non si ferma certo qui: gli spunti devono essere sviluppati ed approfonditi, devono costruire delle storie che riescano ad analizzarli nella maniera più intelligente possibile, senza sacrificare nel processo la messa in scena. È lì, in fondo, che si traccia la linea tra gli episodi migliori e quelli meno riusciti della serie, tra quelli che hanno saputo fare il passo in più e quelli che rimangono dei semplici esperimenti; “Men Against Fire” si pone esattamente nel mezzo, riuscendo a dire tanto ma lasciando la sensazione che si sarebbe potuto fare ancora qualcosa di più.
It’s a lot easier to pull the trigger when you’re looking at the boogeyman, hmm?

La premessa, come si diceva, è come al solito interessantissima e ricca di spunti, mettendo sul tavolo una narrazione che tanto si avvicina a “La Sentinella” di Fredric Brown: anche in questo caso si parla di spersonalizzazione del nemico, della cultura dell’orrore e del disgusto per giustificare ulteriori orrori nei confronti dei propri avversari. È un tema che, forse in questo episodio più che mai, si lega tanto ad un possibile futuro quanto al nostro passato, mettendo le proprie radici esplicitamente nei conflitti del Novecento ed in particolare sulla guerra in Vietnam, in cui Charlie era visto appunto come una “razza” straniera, fatta di alieni, di roaches. Black Mirror è sempre stata una serie sull’essere umano più che sullo schermo nero che ne riflette (senza inventarsi nulla) la natura, e “Men Against Fire” porta agli estremi un certo tipo di visione del nemico (ma, se vogliamo, anche dello straniero) che non può che risultare tristemente attuale. Dopotutto, la parte più terrificante della distopia presentata non sta tanto nell’impianto Mass, che “acceca” i soldati manipolandone l’intero sistema percettivo, quanto nello scoprire che la gente sia perfettamente a proprio agio con il dispositivo – e, quindi, con le atrocità che tale sistema permette di compiere. Perché la consapevolezza che esista un comando dell’esercito senza scrupoli che ordina atti del genere non è certo rassicurante, ma lo è ancora meno il fatto che la maggioranza della popolazione appoggi senza alcun problema questo tipo di strumenti.


Si tratta di un particolare di fondamentale importanza perché svincola l’episodio dal solito e banale complottismo e trasforma l’azione dell’esercito in un dilemma morale di grandissima risonanza, oltre che nell’espressione di un parere comune apparentemente condiviso. In questo modo, la colpa non è solo dei “piani alti” che mettono in atto l’inganno ai danni dei roaches e dei soldati, ma della cultura di massa che ha incentivato e fatto crescere un tale bisogno, dell’evoluzione esponenziale del pensiero secondo cui è giusto far progredire solo gli individui che, per ragioni puramente genetiche, meritano di portare avanti il genere umano – ed ecco ancora che si ritorna al passato, all’eugenetica che tanto ha segnato la storia del Ventesimo secolo.

Si tratta infatti di scelte troppo derivative, dalla famiglia “nemica” che accoglie il protagonista per essere brutalmente eliminata poco dopo alla rivalità con la compagna di squadra, fino ad arrivare ad un finale che sarebbe potuto essere d’impatto nella prima annata della serie, ma che a questo punto perde di potenza espressiva a causa dei legami troppo forti con gli altri episodi (il primo che viene in mente è di sicuro “Fifteen Million Merits”). È come se l’indiscussa qualità dei temi venisse in parte annacquata da un comparto narrativo meno ispirato e un po’ trascurato, contrariamente a quanto accade con successi indiscussi come il precedente “San Junipero”.
“Men Against Fire” è un episodio interessantissimo, il contenitore di idee e spunti per dibattiti che ci si aspetta avvicinandosi ad un episodio scritto da Charlie Brooker; rimane un po’ di amarezza, tuttavia, per un’esecuzione che non riesce a stare al passo con l’imponenza degli argomenti di cui si parla, trasformando un’ora di televisione potenzialmente grandiosa in un semplice racconto ben pensato.
Voto: 7½
Black Mirror – 3×06 Hated in the Nation

Dopo “Nosedive”, anche quest’ultimo episodio si concentra sugli effetti di quell’impopolarità mediatica che ha il potere di rovinare un’esistenza, ma qui il discorso si stratifica, toccando molti altri fattori scatenati dall’asservimento tecnologico di una società. Inoltre, a rendere il tutto ancora più incisivo e inquietante, la storia si colloca in un contesto sociale estremamente vicino al nostro: “Hated in the Nation” è ambientato in una Londra non dissimile da quella odierna, con innovazioni tecnologiche facilmente immaginabili da qui a qualche decennio (o addirittura qualche anno).

Siamo ancora lontani dall’avere i nostri fiori impollinati da un Drone Insetto Autonomo, ma di certo viviamo in un’era in cui i tweet hanno il potere di ferire come spade e i governi nazionali utilizzano ogni mezzo a propria disposizione per controllare la popolazione a fini preventivi. Come fare a non chiedersi quando – e non se – questo meccanismo esploderà?
Jesus, I didn’t expect to find myself living in the future but here I fucking well am.


I was just using my freedom of speech.

#DeathTo

The Game of Consequences

L’azione di Garrett rappresenta inoltre l’estrema evoluzione di un’altra tragica pratica che fa parte del passato del mondo: la radicalizzazione dei buoni propositi. Dal più grande esperimento fallito della Storia, ovvero il comunismo, passando per le brigate rosse o per il movimento no-global, il nostro passato è zeppo di momenti tragici in cui le rivendicazioni di un diritto si sono frantumate nell’estremismo. L’odio di Garrett è lo stesso odio che percorre ogni era, ma la semplicità con cui riesce a portare a termine il suo obiettivo senza sporcarsi le mani induce l’inquietante dubbio che l’evoluzione del mondo non sia altro che un mezzo per perpetrare ancora più agilmente i più biechi comportamenti del passato dell’uomo.
Well, that’s great, save the planet, hallelujah!

Se le api si estinguessero davvero, fino a che punto l’uomo potrebbe intervenire sulla natura creando un drone autonomo capace di impollinare i fiori? E i governi sono davvero interessati all’impatto ambientale o finanzieranno esperimenti del genere solo se riescono a trovarvi un tornaconto? Spiare la popolazione è veramente l’unico modo per proteggerla? Ogni volta che il progresso si spinge oltre l’immaginabile si valutano a dovere gli effetti collaterali, oppure in nome dell’evoluzione occorre accettare anche le più atroci conseguenze?
Non è facile rispondere a queste domande, così come non è facile accostarsi a questo episodio non pensando agli ultimi eventi della nostra contemporaneità, in cui l’odio da tastiera ha fatto più e più vittime. La forza maggiore della puntata sta proprio in questa eco pesante che lancia sul nostro presente, ancora senza DIA ma pieno di odio e di giudici da touch screen.
“Hated in the Nation” chiude perfettamente questa terza stagione fungendo quasi da summa di tutti quegli elementi cardine dello show, sia nelle annate precedenti che, soprattutto, in quest’ultima.

Voto episodio: 8½
Voto Stagione: 8
Black Mirror – 4×01 USS Callister

Exploring the furthest reaches of the known universe and beyond.
Nell’agosto 2016, in un clima di trepida attesa, è stato messo in vendita No Man’s Sky, un videogioco di ambientazione fantascientifica potenzialmente rivoluzionario. La novità del prodotto consisteva nel mettere a disposizione dei giocatori un universo sterminato generato proceduralmente, lasciando agli utenti l’assoluta libertà di esplorarlo e definire le modalità di gioco, liberi da qualsiasi vincolo di storyline. Infinity, il multiplayer protagonista dell’episodio, condivide molte caratteristiche con No Man’s Sky, rendendo ancora più inquietante l’affinità tra il mondo raccontato dallo show e l’universo reale: “Uss Callister” tratteggia un futuro possibile, le cui radici sono profondamente intrecciate con il presente.
Am I dreaming?
L’evidente estetica fantascientifica (in particolare Star Trek) aveva dato vita a numerosi interrogativi al momento della messa a disposizione dei trailer. Il nuovo corso e l’impronta di Netflix avevano già dimostrato di saper sperimentare, discostandosi almeno in parte dalla natura puramente distopica dello show. Nonostante ciò risultava difficile conciliare i costumi di un cast che sembrava di ritorno da una convention su Star Trek e l’essenza tragica e pessimistica di Black Mirror.
Il risultato finale, per quanto non brillante a livello creativo – sono evidenti una serie di scelte opinabili nello svolgimento del plot su cui ritorneremo – , è soddisfacente. A partire dalle ottime interpretazioni di Jesse Plemons (Breaking Bad, Fargo), Michaela Coel (Chewing Gum), Jimmy Simpson (Westworld) e soprattutto Cristin Milioti (How I Met Your Mother, Fargo), “USS Callister” traspone su schermo una delle risposte possibili ad un’importante domanda del nostro presente: è possibile tracciare una linea di confine definita tra il videogioco e il cosiddetto “mondo reale”?

Subito dopo una sequenza introduttiva in bassa qualità atta soprattutto a strizzare l’occhio ai fan più entusiasti della fantascienza televisiva, il racconto vero e proprio sembra seguire i binari di una narrazione classica e leggermente stereotipata: un uomo sottostimato ma di intelligenza visionaria si imbatte in una donna che ne apprezza la genialità e sembra in grado di andare oltre le apparenze. L’andamento tipico della commedia romantico-natalizia subisce un brusco contraccolpo nel momento in cui viene resa evidente la vera natura di Robert Daley: in contrasto con lo stilema Disney de Il Gobbo di Notre Dame e La Bella e la Bestia, ad una pessima impressione non corrisponde un animo buono e generoso ma un’altrettanto pessima interiorità.
Stealing my pussy is a red fucking line.
Infinity diventa quindi la valvola di sfogo del personaggio interpretato da Jesse Plemons, un universo di sua proprietà in cui è un “asshole god”. Al piano di lettura tecnologico e sociale si aggiunge una chiave più emotiva e personale; Infinity è l’antidoto all’oceano di solitudine e disprezzo in cui sguazza Daley, un luogo in cui può obbligare gli altri ad apprezzarlo attraverso il suo potere.
Scritta ben prima del caso Weinstein “USS Callister” gode di una “fortunata” coincidenza temporale: è impossibile non notare il parallelismo raccontato dall’episodio tra lo scandalo che ha coinvolto Hollywood, lo show business e non solo, e il malsano esercizio della supremazia e dell’autorità frutto di una concezione errata della mascolinità.
Oltre la retorica sui rischi della tecnologia, viene spontaneo interrogarsi sul rapporto con la realtà virtuale, anche quella declinata ludicamente. Non siamo neppure vicini alla clonazione digitale ma la possibilità di creare avatar somiglianti a sé stessi e, più in generale, di inserire particolari del nostro mondo in un universo fittizio rende necessario porsi delle domande sulle motivazioni alla base della passione per i videogiochi: è un modo di esercitare il potere? È un’alternativa ad una realtà su cui non abbiamo controllo? O è semplice svago?
You gotta believe me.

Per concludere Black Mirror confeziona un episodio in cui convivono parti ben riuscite, come l’impronta parodica sul materiale fantascientifico, l’agilità nel gestire le scene comiche e un’idea di partenza fertile e coesa, e momenti più zoppicanti soprattutto a livello narrativo e di trattazione dei temi introdotti. Allo stesso tempo lo show dimostra ancora una volta di sapersi reinventare e di poter esistere anche al di là di un’estetica fosca e inquietante; non faccia ingannare l’apparente risoluzione positiva: è vero, il villain è sconfitto, probabilmente morto, e i protagonisti sono vivi e liberi, ma sono pur sempre intrappolati in un videogioco.
Voto: 7
Black Mirror – 4×02 Arkangel

Soprattutto agli inizi, questo discorso è sempre rimasto interessante grazie alla sua capacità di esplorare il legame stesso che sussiste tra le due cose: c’era un vizio o un elemento umano di fondo e un dispositivo che lo metteva drasticamente a nudo, ma la parte più interessante stava proprio in come questa messa a nudo avveniva. Si creava così una sorta di equilibrio, che riusciva a bilanciare l’elemento personale di storie spesso ammiccanti a strutture ben note e quello della riflessione sul progresso e i rischi (o, in qualche raro caso, i benefici) che ne derivano; era fondamentale, soprattutto, la coesione del quadro generale, che riusciva a valorizzare entrambe le dimensioni senza sbilanciarsi troppo verso un lato o l’altro.
Questo tipo di struttura è stato ripreso nei migliori episodi della scorsa stagione (“Nosedive” e “San Junipero”) ma volontariamente abbandonato in altri, scegliendo di concentrarsi sul racconto umano in sé e lasciando l’elemento tecnologico a rivestire un ruolo quasi marginale nella storia (si pensi a “Hated in the Nation” o “Shut Up and Dance”). “Arkangel” è radicalmente diverso da questi ultimi, in quanto l’obiettivo è chiaramente quello di creare un episodio sul modello delle prime stagioni, in cui la tecnologia torna ad assumere un ruolo essenziale: manca, tuttavia, quel fondamentale elemento di coesione di cui si parlava prima, e la qualità del racconto ne risente sensibilmente.

Il messaggio di fondo non è particolarmente illuminante, ma nella prima parte funziona piuttosto bene: la caratterizzazione della figlia rimane comunque subordinata alla dimensione della madre, la cui mania di controllo è efficacemente veicolata dall’utilizzo del dispositivo Arkangel. La madre è la protagonista della prima parte, e si crea una potenzialmente interessante riflessione sulla necessità di venire a patti con la crescita e l’allontanamento della figlia: come si diceva, il racconto mima una costruzione già vista, ma parla dell’argomento attraverso uno strumento che ne scopre delle nuove sfumature.
La seconda metà è quella che scopre i difetti dell’episodio: l’attenzione si sposta prevalentemente sull’evoluzione della figlia, ma la madre rimane il personaggio in cui identificarsi per la riflessione sulla tecnologia. Si creano quindi due dimensioni poco equilibrate, che cozzano costantemente tra di loro: da un lato c’è la crescita della figlia, gestita un po’ troppo scolasticamente secondo i topoi da film indie a cui si ispira; dall’altro veniamo saltuariamente rimandati all’ossessione per il controllo della madre, che, non ricevendo l’attenzione necessaria, fatica a far evolvere il tema dell’episodio. Il discorso sulle varie implicazioni del dispositivo si ferma, e la seconda parte sviluppa senza particolari guizzi la storia lanciata dalla prima: la conclusione rimane quindi scontata e un po’ forzata, soprattutto se si considera il grandissimo potenziale mai sfruttato che a tratti punteggia l’episodio.

In sostanza, “Arkangel” soffre di un problema di equilibrio: è un episodio che a tratti assume i contorni del racconto di formazione di ampio respiro, mentre in altri momenti ci riporta nel pessimismo e nel fatalismo che caratterizzano la scrittura di Charlie Brooker, passando da un registro all’altro senza intrecciare in maniera coesa le due dimensioni. Il risultato è una puntata dagli spunti e dalle idee molto interessanti, costellata da ottime performance e un ritmo ben gestito, ma che perde nel quadro generale, riuscendo a sviluppare un racconto riuscito nel suo ritorno alle origini della serie solo per metà.
Voto: 6½
Black Mirror – 4×03 Crocodile

Negli anni sessanta Paul McLean sviluppò la teoria del “triune brain” nell’ambito dello studio del funzionamento del cervello umano. Una delle tre parti in cui lo divise, il “reptilian brain”, si occupa di controllare le nostre funzioni vitali primarie: temperatura corporea, battito cardiaco, respirazione, insomma garantisce la sopravvivenza dell’organismo. Il nome così caratteristico è legato proprio al mondo dei rettili che fanno uso principalmente di questa zona del cervello – sempre secondo McLean. Ecco spiegato il collegamento tra il coccodrillo del titolo e Mia Nolan, la protagonista di questo episodio: esattamente come un rettile la donna si trova di fronte a scelte critiche che la portano a decidere sempre per l’autoconservazione e la protezione della sua persona e del suo status sociale. Si innesca nel suo cervello un istinto naturale a difendere se stessa e la vita familiare, seppellendo nel passato il senso di colpa prima per la morte accidentale di un ciclista, poi per l’uccisione dolosa di Rob, che invece avrebbe voluto uscire allo scoperto sugli avvenimenti terribili di cui è stato concorrente.



In definitiva non ci troviamo di certo di fronte al miglior Charlie Brooker, sebbene non si possa non confermare il fascino e l’attrattiva che anche un episodio un po’ più debole di Black Mirror riesce comunque ad esercitare in chi lo guarda grazie alle location suggestive – siamo in Islanda stavolta – e al comparto tecnico sempre di ottimo livello. “Crocodile” ha tanti difetti e qualche pregio, non è eccellente ma se considerato nell’insieme della stagione e paragonato alla scorsa è perfettamente in linea con il livello medio di questa nuova era “americana” dello show.
Voto: 6½
Curiosità:
– In origine Brooker aveva previsto un protagonista maschile per l’episodio ma, su suggerimento di Andrea Riseborough, ha riscritto la parte per lei.
Black Mirror – 4×04 Hang the DJ

È da un assunto del genere che parte Charlie Brooker nella scrittura di questo quarto episodio. In un mondo che non viene mai descritto se non per vaghi accenni – ma che si può spiegare solo in virtù della rivelazione finale –, un programma senza nome determina le relazioni sentimentali a cui si sottopongono uomini e donne alla ricerca dell’anima gemella. Guardato dall’esterno, il programma non fa altro che meccanicizzare quello che accade nelle nostre vite continuamente: ci diamo a relazioni di maggiore o minore durata, impariamo noi stessi e la vita di coppia attraverso l’esperienza accumulata (con le dovute differenze tra coloro che hanno bisogno di più storie a breve termine e quelli che invece si muovono attraverso relazioni di lunga durata).
Questo programma non fa altro che simulare una normale evoluzione sentimentale, restringendo tutto nelle strette maglie della programmazione e togliendo, così, quella spontaneità – più o meno reale – che risulta essere la chiave di volta nel ritrovamento della vera storia d’amore. Eccoci dunque a questo “Hang the DJ” che riporta in campo, per la seconda volta, un lato diverso di Black Mirror: se, infatti, la serie è conosciuta per il suo sguardo distopico ed impietoso sugli influssi che la tecnologia può avere sulle nostre vite e sui mille modi in cui può decisamente peggiorarla, questo quarto episodio ci conduce in un mondo sì freddo e preoccupante, ma in cui è comunque ancora possibile trovare una scintilla di ottimismo. D’altronde, non è un caso che questo episodio richiami alla memoria il quarto della stagione precedente, quel “San Junipero” che per primo, e con grande successo, aveva introdotto questa novità nella serie. Brooker conferma la volontà di creare almeno un episodio in cui il futuro, per quanto spaventoso, non sia in grado di spezzare l’essere umano finché esso sa tenersi con decisione ai sentimenti più forti che gli pertengono, primo fra tutti quello dell’amore.

È chiaro che questo episodio può reggersi in piedi solo se i protagonisti riescono a realizzare una relazione sentimentale che sappia sfidare questi elementi: la storia di Amy e Frank funziona perché la sceneggiatura funziona, perché riesce a costruire efficacemente un doppio specchio in cui mostrare il lento ma inevitabile innamoramento di due persone che si ritrovano indiscutibilmente attratti l’uno dall’altra. E questo può accadere perché Georgina Campbell e Joe Cole hanno tra loro una chimica pazzesca che riesce a trasparire in ogni scena insieme. Questa loro forza fa sì che la serie non abbia bisogno di nessun altro tipo di comprimario e gli attori secondari scompaiono in pochi attimi davanti alla loro interpretazione. L’epilogo finale, poi, che vede la ribellione al programma come sommo emblema del loro amore e di conseguenza la chiave per sovvertire il sistema stesso non poteva che essere il perfetto compimento di questo percorso.

La regia in forma, la scrittura ispirata e la recitazione perfetta rendono dunque questo episodio davvero godibile soprattutto nei suoi aspetti più commoventi, capace di coinvolgere in prima istanza lo spettatore che vorrà lasciarsi andare al flusso delle emozioni. Si tratta di una pausa a metà stagione, come già accaduto lo scorso anno, dal turbinio di distopica angoscia che Black Mirror ha sempre saputo creare (sebbene con meno violenza che in passato). E dunque questo episodio porta avanti con successo la quarta stagione di Black Mirror con la consapevolezza che, almeno per un attimo, possiamo continuare a sperare per il futuro.
Voto: 7½
Black Mirror – 4×05 Metalhead

D’altro canto, questo tipo di formato è anche ciò che ha fatto la forza di Black Mirror, conferendo alla scrittura un’invidiabile libertà di sperimentazione per il semplice fatto che qualsiasi nuova direzione si voglia intraprendere verrebbe, alla peggio, circoscritta ad un singolo episodio.
Con “Metalhead” ci troviamo, in effetti, di fronte ad un episodio del tutto particolare, coraggioso, di quelli che tendono a dividere il pubblico in due fazioni opposte. Lo è per diversi motivi, prima di tutto per un ritorno ad un cast e ad una regia completamente britannici (sceneggiato dallo stesso Brooker, il regista è David Slade, e l’attrice protagonista Maxine Peake) che fanno tornare alla memoria i toni delle prime due stagioni. In secondo luogo, per alcune scelte tematiche e stilistiche, quali l’uso del bianco e nero, lo scenario post-apocalittico che si accompagna ad una riduzione all’osso di dialoghi, personaggi, trama e backstory.
L’episodio potrebbe ricordare il “White Bear” della seconda stagione per l’impostazione minimale dove la sensazione di angoscia è creata dallo stato di fuga costante della sola protagonista femminile. La puntata sfruttava uno schema tanto caro a Brooker che introduceva lo spettatore in medias res senza dargli, da subito, gli elementi necessari a comprendere il contesto, aumentando così confusione e possibilità di fraintendimento, facendo scoprire la verità all’avanzare dell’episodio fino all’agnizione finale. In questo caso, però, il finale dell’episodio non ci fa sapere molto più di quello che abbiamo intuito fin dall’inizio sul mondo dove Bella vive o sulle ragioni che l’hanno spinta a partecipare alla spedizione. Questo perché l’intento di “Metalhead” è chiaramente un altro: la riduzione all’essenziale degli aspetti legati a scenografia e sceneggiatura permette di concentrarsi meglio su questioni di stile e di genere.

Quello a cui assistiamo è pura azione e la paura, la tensione, l’angoscia sono prodotte in modo puramente “situazionale”, esterno, pratico. L’aspetto, forse, più interessante di quest’operazione è il fatto che al centro della rappresentazione si trovi quella paura viscerale e semplicissima verso “il robot”, verso il tecnologico con così tanta cura problematizzata e sfaccettata nel corso di tutta l’antologia di Black Mirror. Quasi come se lo scenario post-apocalittico avesse spazzato via anche tutto il processo di integrazione e assimilazione del tecnologico da parte dell’umano, “Metalhead” riporta la tecnologia al suo ruolo primigenio di “Altro”, di nemico, di macchina da fuggire e/o distruggere. Ri-creando un “cattivo” che non ha psicologia, non ha obiettivi, non ha risentimenti, una fredda macchina programmata per uccidere l’umano, l’episodio rievoca al contempo la rappresentazione della più grande distanza fra macchine e uomo, restituendo la purezza e le antiche estremità del conflitto.
Pur quasi senza dialoghi o grandi momenti più propriamente riflessivi, scrittura e regia (e performance attoriale) riescono comunque a rappresentare egregiamente questo antagonismo fra macchina e umano: Bella soffre, piange, dubita, riflette, si sforza, gioisce, rimpiange, sbaglia, fa rumore, chiama aiuto, si rassegna, spera, riprende le forze, si riorganizza, si cura, si nasconde mentre “the dog” agisce automaticamente ed efficacemente, insofferente alla situazione, ma si trova bloccato nel momento in cui necessita di trovare una soluzione capace di raggirare i suoi limiti fisici. Per questo il fatto che la dinamica secondo cui proprio sfruttando i limiti della macchina la protagonista riuscirà a distruggerla non suona assolutamente come un ex machina ma, anzi, come un susseguirsi perfettamente credibile.

“Metalhead” è insomma, probabilmente, l’episodio di Black Mirror che più guarda al passato nel senso di una riflessione sui canoni del genere dell’orrore che possono ancora funzionare ed essere messi al lavoro. Brooker risveglia e re-interroga un orrore antico e lo fa attraverso la rielaborazione dei meccanismi più classici di rappresentazione: la paura, la fuga, l’attesa, l’errore, il buono, il cattivo, la vittima, il carnefice. La scommessa vinta di questo episodio è che i racconti di riferimento vengono fatti funzionare ancora e in modo interessante: anche il bianconero che vediamo non ha l’aria retro ma quella asettica e fredda dello sci-fi alla Black Mirror.
Voto: 8
Black Mirror – 4×06 Black Museum

“Black Museum” è un episodio anomalo, con una struttura drammaturgica a scatole cinesi che ricorda vagamente “White Christmas”; qui però l’elemento metanarrativo è più esplicito e lineare: il presente si confronta con il passato raccontato attraverso gli oggetti presenti nel Black Museum, che sono dei veri e propri cimeli che rimandano alla ‘storia’ di Black Mirror – dal lecca lecca di Tommy di “USS Callister” o l’ipad di e “Arkangel” fino al fucile di “White Bear”. Ciò dà avvio a una sorta di autocelebrazione che se da un lato sembra chiudere un cerchio dall’altro apre il vaso di Pandora, lasciando presupporre quanto altro ancora ci sia da raccontare. Inoltre, uno sviluppo narrativo di questo tipo, scandito dal dialogo tra Nish e Rolo, dà al discorso un interessante approfondimento diacronico, cosa che Black Mirror ha quasi sempre fatto di sfuggita: la maggior parte degli episodi è ancorata a un determinato presente, raccontandoci di innovazioni vissute come consuetudini, ovvero parti integranti di una precisa quotidianità, invece la tripartizione del racconto di “Black Museum” – scandita temporalmente dalla storia di Clayton Leigh, protagonista del terzo frammento – ci mostra il livello ascendente dell’innovazione che si lega a doppio filo alla sua degenerazione, lasciandoci addosso un pressante dubbio: quanto della volontà di perfezionamento di una scoperta è strettamente connesso allo scopo di ridurre ai minimi termini eventuali ‘effetti collaterali’?
Un’altra cosa particolarmente interessante dal punto di vista della temporalità dell’evoluzione tecnologica è il nome dell’ospedale in cui lavorava Haynes, il San Junipero, che ricollegandosi all’episodio omonimo della terza stagione lascia intendere quali siano state le basi da cui è partita la sperimentazione oggetto del quarto episodio della scorsa annata.

In pratica, “Black Museum” ci mostra tre storie la cui costruzione drammaturgica ricalca ed esalta la struttura dell’intera serie rendendola esplicita mediante una netta cesura – gli stacchi nel presente con i commenti del narratore – tra le due fasi antitetiche del racconto.
Tenendo fede alla tendenza generale dello show, anche qui si pone l’accento su come il lato oscuro della medaglia sia in grado di fagocitare ogni elemento positivo della conquista, tuttavia il discorso sembra ampliarsi su un altro aspetto, ovvero sull’irreversibilità della deriva tecnologica: il medium non è solo in grado di cambiare l’andamento degli eventi, o investire una singola fase della vita, ma spesso si insinua dentro l’animo umano scalfendo in maniera irreparabile il naturale continuum della vita (e della morte) di ogni uomo.
C’è vita dopo la morte? Sono millenni che l’uomo tenta di rispondere a questa domanda, senza esser ancora riuscito a darsi una risposta certa. Lasciando ai cristiani la speranza del regno dei cieli e a induisti, buddisti etc… la certezza della reincarnazione, le tre storie narrate da Rolo Haynes non fanno altro che raccontare come l’uomo possa tramutarsi in Dio e riuscire a ‘creare’ la vita dopo la morte: come redivivo dopo averne assaporato l’abisso, o voce insistente prigioniera di un corpo ‘ospite’ o di un bizzarro peluche, oppure sotto forma di un moderno fantasma dotato di coscienza e recezione del dolore. Ogni storia si raccartoccia su se stessa, riportando l’apice dell’idea verso il grado zero della sua degenerazione, ma è nel plot twist finale che l’involucro apparentemente vuoto della cornice svela la sua sostanza, ponendosi come ago della bilancia dell’intero racconto. Al concetto di ‘vendetta’ si associa una strana accezione di ‘espiazione’, una sorta di contrappasso dall’ancestrale sapore di legge del taglione: Rolo Haynes, che ha usato la tecnologia senza curarsi troppo delle conseguenze per la vita delle persone coinvolte, resta prigioniero delle sue stesse creazioni. La degenerazione dell’innovazione tecnologica non punisce solo chi vi si getta con piena e cieca fiducia, ma anche chi è responsabile dell’idea e della sua diffusione, a scapito del rispetto per la vita, per la morte.
If it did something bad, chances are it’s in here.

Monkey needs a hug.

Può davvero una voce rinserrata dentro la testa sopperire a una mancanza? Rinchiudere una coscienza dentro un involucro ad essa estraneo riesce a preservarne la qualità? Oppure è proprio questa situazione innaturale a mutare l’affetto in senso del dovere?
La morte è parte della vita allo stesso modo della felicità e del dolore, creare un’apparente eternità eliminerebbe la possibilità di sviluppare una particolare condizione emozionale, che nel bene o nel male è parte del meraviglioso bagaglio sensoriale dell’essere umano. Come ci mostra la storia di Jack e Carrie, rimanere ancorati al passato, vivendo l’ombra sbiadita di un amore, crea una sorta di stasi temporale che proietta anche la propria essenza in una sterile atemporalità, da cui prima o poi verrà il desiderio di uscire, come è accaduto a Jack e come molto probabilmente accadrà a Nish, ora che ha compiuto la sua vendetta.
L’annosa riflessione proposta dal secondo frammento narrativo di questo episodio spiana la strada alla terza parte del racconto quella che svuota la cornice narrativa dalla funzione di mero contenitore per divenire summa di un discorso molto più ampio: dalla riflessione sull’eticità della simulazione digitale della coscienza umana – uno degli elementi più astratti e complessi dell’uomo nella sua interezza psicofisica – ci si spinge verso la deriva dell’utilizzo di tale procedura.
“I was born to love you, and I will never be free. You’ll always be a part of me” –
da “There’s Always Something There To Remind Me” di Sandie Shaw

“Black Museum” è la chiusura perfetta per una stagione non priva di difetti, ma ancora una volta ricca di spunti per guardare attraverso uno specchio deformante la realtà che ci circonda.
Le tematiche mostrate da questa ultima stagione amplificano la tendenza già ampiamente introdotta nella scorsa annata: inserire la deriva in un contesto apparentemente identico a quello in cui viviamo oggi, dove anche la tragica naturalezza della violenza più nera è minata dalla perdita di un arbitrio libero dalla morsa tecnologica. L’unica puntata che un po’ si discosta da ciò è “Metalhead”, non a torto l’episodio più singolare e discusso della stagione. Tuttavia, anche all’interno dello scenario post-apocalittico descritto, l’insieme dei sentimenti umani messi in campo dalla protagonista amplifica la sensazione che la lotta tra l’uomo e la macchina sia uno scontro impari che necessita di una totale riconsiderazione della ‘libertà’ di azione.
In definitiva, “Black Museum” non è solo un’ottima conclusione, ma si pone anche come ideale punto di chiusura di una fase dello show, che riflette su se stesso indicandoci che Black Mirror non è più quello di una volta, e non solo perché si è passati dall’Inghilterra all’America, ma anche perché dal 2011 al 2017 il mondo è cambiato, e la distopica apocalisse raccontata dalle prime stagioni dello show non è più così inverosimile.
Voto Episodio: 8½
Voto Stagione: 8
Black Mirror – 5×01 Striking Vipers

“Striking Vipers” si assume questo onere, come primo episodio della nuova annata della serie antologica Black Mirror.
La quinta stagione, apparsa il 5 giugno su Netflix, era stata largamente anticipata dal suo rinnovo il 5 Marzo 2018 e poco più tardi annunciate le riprese da Charlie Brooker stesso presso i Royal Television Society Awards. Nel maggio dell’anno successivo, il teaser ha rivelato che la nuova stagione avrebbe contenuto tre episodi, similmente alla prima e alla seconda.
Come a seguire un fil rouge dall’audace e inventivo “Bandersnatch”, il videogioco è parte integrante di “Striking Vipers”. A differenza dell’episodio interattivo, il mondo videoludico non è il fulcro della sua narrazione, ma il motore di un racconto che approderà verso tutt’altro, mantenendo solo un sottile legame nel rapporto con la tecnologia, leitmotiv che ha da sempre accompagnato lo show targato Netflix. La scrittura sembra distanziarsi dalla topica dicotomia uomo-macchina, tentare lidi più personali, che coinvolgano meno gli apparati di un futuro distopico e più le dinamiche che legano i personaggi. Questo approccio non è inedito, ma porta con sé il rischio di perdere lo spirito che aveva reso grande questa serie, oppure l’opportunità di scoprire nuovi modi di raccontare il medesimo concetto.
“Striking Vipers” è la storia di un gioco di ruolo fra Danny e Klaus, due amici di lunga data oramai sulla soglia della quarantina. Il giorno del compleanno di Danny, Klaus giunge a sorpresa con un regalo: il nuovo capitolo del picchiaduro della loro adolescenza, Striking Vipers X, e un visore per la realtà virtuale. La notte stessa proveranno il gioco, impersonando i loro due combattenti preferiti dai tempi del college: Lance e Roxette. Nella vivida realtà virtuale, accade però che l’avatar di Klaus baci l’avatar di Danny. Dopo un primo momento di imbarazzo, coperto dall’alibi dell’alcool, nasce una relazione in quel mondo virtuale e gradualmente Danny si allontanerà dalla realtà e dalla sua famiglia, in una sorta di dipendenza da quel loro gioco di ruolo che si rivelerà insostenibile per lui e per sua moglie Theo, riavvicinandolo parallelamente all’amico ritrovato.

La combinazione fra Owen Harris alla regia e Charlie Brooker alla scrittura dona un tocco particolare a questo racconto: le scene sono significative anche se nel silenzio, come nel risalto dei momenti di dubbio di Danny e soprattutto di Theo. Il mondo che ruota attorno i protagonisti non è indefesso e passivo: Theo, da moglie a poco più che estranea, è il centro di alcune delle scene più forti dell’episodio, che nulla hanno a che vedere con Striking Vipers X, ma con gli effetti diretti e indiretti del gioco segreto sulla sua vita e sul suo matrimonio. Parlando del gioco, gli ambienti di Striking Vipers X strizzano l’occhio agli appassionati dei picchiaduro, che non faticheranno a trovare simpatici riferimenti ai loro videogiochi preferiti. Anche i personaggi sono chiari collegamenti al mondo videoludico, basti comparare Lance, il personaggio prediletto di Danny, al Ryu di Street Fighter, Roxette a Mai Shiranui di King of Fighters, o l’orso polare Tundra al Kuma di Tekken.
Le interpretazioni sono impeccabili: Anthony MacKie (Altered Carbon), Yahya Abdul-Mateen II (The Get Down) e Nicole Beharie (Sleepy Hollow) da un lato e Pom Klementieff e Ludi Lin (Marco Polo) dall’altro. Gli ultimi due sono chiamati al non facile compito di calcare non solo due personaggi nel medesimo istante, attante e giocatore, uomo e donna, etnie differenti, ma anche al calco di una recitazione che appartenga loro senza farli risultare caricaturali, compito che svolgono in maniera eccellente.
Questo paratesto si innesta perfettamente nella macchina narrativa di Black Mirror, presso cui riacquista una certa importanza il sottotesto, il non-detto, che alle volte mal si lega con gli eventi di “Striking Vipers”, ma offre interessantissimi spunti usando quel concetto tentacolare che è il gioco di ruolo.
Cos’è il gioco di ruolo in “Striking Vipers”? Come si connette all’idea della tecnologia che invade il mondo che conosciamo? Come accade che due individui, prima presentati come il tipico family guy intento a cucinare hamburger alla grigliata di famiglia e il suo amico tombeur de femmes e viveur, la sera stessa della loro riunione finiscano per avvinghiare dei corpi virtuali in una sensualità fatta di pixel, che non nasce dalla loro esperienza sensibile, ma virtuale?
Il diavolo è nei dettagli.

Un’altra scena significativa dell’episodio mostra la passione tra Lance e Roxette mutarsi in un goffo bacio a stampo tra i due protagonisti e le spettacolari mosse acrobatiche in una rissa ridicola, quasi comica per sfogare l’infrangersi di una certezza aleatoria e illusoria, nata dalla stessa valvola della loro frustrazione. Le realtà si ribalta, ma non c’è una continuazione, non c’è uno specchio, solo la delusione e la consapevolezza di una fantasia che tale è rimasta.
Potrebbe venire naturale la comparazione fra “San Junipero” e “Striking Vipers”, ma sarebbe quantomeno difficile trovare delle somiglianze oltre un nucleo concettuale. L’episodio più recente affronta con meno costanza i sentimenti fra i suoi personaggi, così come, anche se in maniera molto sottile, tratta la tecnologia in maniera trasversale e non parallela alla sua trama. “San Junipero” racchiudeva la sua storia nella tecnologia, mentre in “Striking Vipers” la tecnologia è quella vipera che colpisce quando meno ce lo si aspetta, questionando gli attanti e sfidandoli apertamente nelle loro convinzioni, rivelando loro che in quella realtà virtuale una nuova identità viene costruita da una volontà e sembra quasi voler suggerire la codardia di Danny e Klaus in un momento, per poi lasciar intendere che forse il loro era solo e soltanto un gioco. Purtroppo, si assiste al sopraggiungere di un nuovo equilibrio; il finale “di comodo” risulta molle se confrontato all’enormità del tema appena scalfito sulla superficie.

Voto: 7–
Black Mirror – 5×02 Smithereens

Chris e Jaden, i due protagonisti di questa puntata, sono lo specchio di una parte della nostra società moderna. Il primo, poco più che trentenne, vede nell’altro ragazzo – che scopriremo poi avere dieci anni in meno – un impiegato altolocato della Smithereens: valigetta, valigia e pronto a partire per San Francisco, chiamata di lavoro in corso, vestito elegante. Questo è il primo punto che ci suggerisce come l’annata di Black Mirror sia virata più sulle persone e il loro rapporto con la tecnologia che sugli effetti devastanti che un certo tipo di tecnologia può avere sulla società: l’apparenza è ormai la moneta sonante con cui si sopravvive, perché Jaden è uno stagista che ha cominciato da pochi giorni a lavorare, sta facendo il galoppino per il suo capo e conosce solo la responsabile delle risorse umane.
La crisi di nervi che ha Chris quando lo scopre è tremendamente realistica, perché in un mondo dominato dal digitale – e non dal reale – vivere in maniera “normale” e logica non è più possibile, bisogna sempre leggere in maniera “altra” quello che abbiamo davanti.

Tutto il resto dello svolgimento dell’episodio risulta però un po’ troppo lento e meccanico, il segmento in cui Chris aspetta di poter parlare con il fondatore del social network ha pochissimo a che vedere con tutto quello a cui ci ha abituati Black Mirror. Non che sia per forza un male in generale, ma risulta anche un po’ ridicola la figura di Billy Bauer, un santone in ritiro spirituale per disintossicarsi dalla creatura che lui stesso ha creato, quasi come a voler sottolineare la fastidiosa e pericolosa dipendenza che i social possono provocare. È tutto quindi un po’ troppo didascalico e, anche se il racconto si focalizza molto più sulle persone che sulla tecnologia, ha una risoluzione piuttosto banale. Anche la spiegazione del dramma di Chris è telefonata: l’unico punto di forza di tutto questo è forse la contemporaneità del messaggio che ci lascia la puntata.
Se infatti in precedenza Black Mirror ci aveva abituati a un uso della tecnologia “deviato” e tendente praticamente sempre al male, qui la realtà supera la fantasia. La storia di Chris, calata in un contesto odierno, sarebbe del tutto plausibile; anzi, non escludiamo che alcune volte, in qualche parte del mondo, degli incidenti stradali siano avvenuti proprio così.

Sostanzialmente, “Smithereens” non è un brutta puntata, è un episodio che ci cala nel presente e non in un immediato futuro, con una tecnologia ormai quasi obsoleta (se paragonata allo standard della serie) come protagonista. È un episodio lineare che, come detto, potrebbe essere davvero una news di cronaca che potremmo leggere domani sui giornali, ed è per questo che lascia un po’ spiazzati: non sembra affatto una puntata di Black Mirror.
C’è comunque un’interessante chiusura, ovvero tutte quelle persone che hanno seguito il caso sui social e che vengono a sapere della morte (o almeno, è quello che intuiamo) del suo protagonista, perdono immediatamente interesse per la storia, come se tutto il dolore e la sofferenza che hanno letto e di cui hanno discusso non fossero stati altro che una serie di parole e frasi che oggi chiamiamo “status”.
Questo sì che è un finale alla Black Mirror: al giorno d’oggi, siamo nient’altro che notifiche.
Voto: 6
Black Mirror – 5×03 Rachel, Jack and Ashley Too

Scritto dal creatore dello show, Charlie Brooker, e diretto da Anne Sewitsky, “Rachel, Jack and Ashley Too”, presenta diversi spunti interessanti, sia dal punto di vista tematico che del registro narrativo, che però non riescono a mescolarsi tra loro in maniera efficace, fallendo così nel dar vita a un capitolo del tutto soddisfacente.
Il maggiore punto di forza del racconto risiede indubbiamente nella scelta del tono e dei genere di riferimento operata dall’autore: Brooker, come già in alcuni dei rivoli narrativi di “Bandersnatch”, decide infatti di abbandonare la cupezza tipica dello show per favorire una narrazione a tratti scanzonata, sopra le righe e autoironica. Se la prima parte dell’episodio presenta molti aspetti in comune con il dramma adolescenziale, concentrandosi sulle fatiche emotive di Rachel, Ashley e Jack, mentre sullo sfondo si affacciano elementi inquietanti (la bambola, le medicine), la seconda vira invece consapevolmente verso la commedia e l’avventura, con la missione di salvataggio di Ashley da parte delle due sorelle e del doppio della pop star.
È chiaro quindi come il fulcro dell’interesse di Brooker in questo caso non risieda tanto nella credibilità della tecnologia rappresentata: la bambola in cui è stata caricata l’intera personalità di Ashley, oppure l’estrazione dei brani dalla mente di Ashley durante il coma farmacologico, sono due esempi emblematici di questo approccio, che avvicinano il racconto più a una satira dell’industria musicale che a una vera e propria riflessione sulla sostituzione dell’umano da parte della tecnologia.
A ben vedere infatti, il cuore dell’episodio è rappresentato dai rapporti che vengono a instaurarsi tra le tre ragazze, i quali, almeno teoricamente, dovrebbero fare da contraltare ai vuoti slogan di empowerment professati dalla pop star. È quindi soprattutto sotto questo punto di vista che l’episodio in fin dei conti risulta un’occasione mancata: dopo aver delineato in maniera convenzionale ma comunque efficace il rapporto conflittuale tra le due sorelle, le difficoltà relazionali di Rachel e la frustrazione di Ashley, la collaborazione tra le tre ragazze – empowering forse più negli intenti che nella pratica, ma certamente godibile –, conduce purtroppo a un finale semplicistico, che fallisce nel rendere fino in fondo giustizia ai personaggi (Rachel in particolare), mostrando tutta la fragilità del sostrato tematico della puntata.

Da un lato abbiamo infatti il rapporto tra Rachel e la bambola Ashley Too, esemplato su un classico topos fantascientifico del rapporto tra uomo e macchina (Her, ma anche il bellissimo “Be Right Back”), dall’altro quello della progressiva sostituzione della Ashley in carne e ossa con vari surrogati tecnologici.
Se il primo si rivela una sorta di red herring, dal momento che il “risveglio” della bambola conduce definitivamente il racconto verso un’altra direzione, lasciando Rachel sullo sfondo, il secondo acquista invece sempre più spazio narrativo, senza mai riuscire però a deviare dagli stereotipi su cui si basa. Gli abusati motivi della star sofferente e della creatività repressa e messa al servizio dell’industria vengono sì amplificati dalle invenzioni di Brooker e dai continui rimandi alla realtà dati dalla performance di Miley Cyrus, ma non riescono a guadagnare incisività, finendo appiattiti su una manichea e a dir poco datata opposizione tra pop commerciale e rock autentico – emblematiche a questo proposito sono le cover dei Nine Inch Nails che aprono e chiudono l’episodio.
A metà tra satira e favola, “Rachel, Jack and Ashley Too” si presenta in definitiva come una godibile aggiunta allo show di Brooker: le interazioni tra le due sorelle e Ashley Too durante il salvataggio regalano la giusta dose di intrattenimento, ed è bello vedere come le tre ragazze si salvino da sole aiutandosi a vicenda, confermando come il lieto fine sia ormai entrato di diritto tra le opzioni contemplate dalla serie. Al tempo stesso però è innegabile come il potenziale di questa variazione teen del racconto distopico non riesca a concretizzarsi in un episodio all’altezza dei picchi qualitativi a cui lo show ci ha abituato negli anni passati, complice una costruzione un po’ approssimativa della cornice fantascientifica e dei personaggi che la abitano.
L’impressione è che Brooker stia cercando di iniettare nuova linfa ai topos più consolidati della sua creatura, uno sforzo senza dubbio apprezzabile vista la concorrenza sempre più spietata nel mondo della serialità e il rischio di ripetitività di un concept come quello alla base di Black Mirror, ma che non sia ancora riuscito a trovare la giusta formula per operare questa trasformazione senza depotenziare gli elementi che l’hanno resa una serie cult.
Voto: 6+
Black Mirror – Stagione 6

Visto e considerato questo tema, unito al lungo periodo di pausa che si è presa la produzione prima di far uscire dei nuovi episodi, il dubbio e la curiosità sorti prima dell’uscita della sesta stagione erano relativi a come Brooker (creatore e sceneggiatore di tutti gli episodi) avrebbe interpretato attraverso le nuove storie il presente – un presente molto diverso e profondamente cambiato rispetto a quello che faceva da sfondo alle prime annate dello show. Il risultato è presto detto: la sesta stagione di Black Mirror è, quasi per definizione esplicita dello stesso autore, un modo per lanciare una nuova tipologia di storie che rompano la tradizione con il passato della serie. Almeno due episodi su tre, infatti, erano stati pensati in origine per essere lanciati sotto una nuova etichetta chiamata “Red Mirror” che dovrebbe contenere storie e racconti ispirati alla tradizione horror e fantasy piuttosto che a quella fantascientifica o distopica.

Come per tutte le stagioni di Black Mirror – e per tutte le serie antologiche per episodi in generale – al fine di analizzarne al meglio la riuscita o meno è necessario visualizzare singolarmente gli episodi, considerandoli non un’unica installazione ma come storie a sé stanti che sono messe in ordine solo per esigenze produttive e non narrative. Come si diceva, infatti, gli episodi non sono stati scritti e girati necessariamente nell’ordine in cui li si guarda e questo non è per nulla rilevante rispetto al prodotto in generale né rispetto alle singole puntate. Per convenienza e praticità qui procederemo a parlare degli episodi nell’ordine in cui li propone Netflix.

L’episodio, infatti, è imperniato – volutamente – di ironia e momenti molto weird che gettano alle ortiche tutta la credibilità e il reale pericolo caratterizzato da un super computer in grado di creare autonomamente e digitalmente un prodotto audiovisivo senza aver bisogno di attori, registi, sceneggiatori o in generale di esseri umani al lavoro e, soprattutto, di poterlo fare in modo selettivo rispetto alle preferenze di ognuno e ai desideri del pubblico. Intendiamoci, non si sta dicendo che l’ironia sia un fattore che non può essere utilizzato in un episodio di Black Mirror o che, più in generale, non possa essere un ottimo veicolo per lanciare dei messaggi o trattare in modo efficace un certo argomento, anzi: il dubbio è la sua efficacia in questo specifico caso, in un episodio che guardiamo sulla stessa piattaforma dalla quale vorrebbe metterci in guardia. A rinforzare l’idea di occasione sprecata c’è poi la soluzione “a matrioska” con la quale si conclude la storia di Joan/Annie Murphy/Salma Hayek, una svolta di sceneggiatura che non colpisce come vorrebbe e che sa di poco originale rispetto a quelle viste in altri episodi dello show, unita alla scelta di concludere la vicenda con una sorta di lieto fine. Quest’ultimo elemento rafforza l’idea di un episodio che vuole essere venduto idealmente come una “distopia rassicurante”, ovvero uno scenario possibile – forse imminente – ma del quale non dobbiamo preoccuparci perché tanto l’uomo sconfiggerà sempre la macchina, l’individuo prevarrà sempre sull’intelligenza artificiale, la mente umana sconfiggerà l’algoritmo.

Anche il secondo episodio, “Loch Henry”, ragiona sul tema dello spettacolo e su quello che il pubblico vuole, ma lo fa attraverso il genere del true crime. Non si tratta di un episodio sperimentale girato come se fosse un vero e proprio documentario – sarebbe stato forse ancora più efficace – ma della storia di un aspirante regista che viene convinto a raccontare una torbida storia di omicidi e perversioni nella quale si scopre essere coinvolta la sua stessa famiglia. Il tema a cui si faceva accenno viene sviscerato per tutto l’episodio e trova compimento in modo abbastanza lineare nel finale: il paesino scozzese che era stato abbandonato dai turisti dopo lo scandalo del serial killer viene nuovamente preso d’assalto e diventa una meta agognata dopo l’uscita del film. Brooker qui vuole rappresentare la morbosità degli spettatori nei confronti di queste storie tragiche, di come il pubblico contemporaneo sia attirato dal successo di una produzione a discapito di quello che racconta e, anzi, più la storia è drammatica e perversa e più attira l’attenzione. Fa un po’ il verso a quando nell’episodio precedente viene spiegato il motivo per il quale le serie TV create dall’algoritmo abbiano sempre una connotazione negativa (“Joan Is Awful” ovvero “Joan è orribile”): il motivo è sempre quello di soddisfare i desideri del pubblico.

Se “Loch Henry” era un episodio dallo stile molto lontano da quello a cui ci ha abituato la serie, “Beyond The Sea” è esattamente l’opposto; l’ambientazione, tuttavia, è una novità, in quanto la storia si svolge nel passato, in un 1969 ucronico nel quale due astronauti in missione nello spazio profondo hanno la possibilità di vivere la maggior parte delle loro vite sulla Terra collegandosi a distanza con delle loro copie robotiche. Nessun futuro alternativo, quindi, bensì un passato fantascientifico, sebbene questa scelta temporale non trovi una vera giustificazione nella trama dell’episodio se non per poter citare l’omicidio di Sharon Tate ad opera della setta di Charles Manson in quello stesso anno. Per il resto la sceneggiatura ci parla della nascita di una sorta di triangolo amoroso a migliaia di chilometri di distanza, nel quale ha un ruolo importante il sentimento della gelosia.

Sul quarto, intitolato “Mazey Day”, si passerà più rapidamente: l’episodio più breve della storia dello show – solo quarantadue minuti – si iscrive in quel cambio di passo voluto da Brooker che, come si diceva, si vuole allontanare dai temi legati alla tecnologia e alla fantascienza in virtù dell’esplorazione di altri generi, soprattutto l’horror e il soprannaturale sotto il nome della nuova etichetta Red Mirror. Anche in questo caso l’ambientazione è il passato, nello specifico i primi anni 2000, e racconta la storia di una paparazza – interpretata da Zazie Beetz – alla ricerca di una diva che si nasconde dopo aver commesso un omicidio. La trama è piuttosto debole e non ci sono grandi sussulti fino al colpo di scena della trasformazione della donna in licantropo, una svolta piuttosto casuale e la cui allegoria – i fotografi si gettano come un branco di lupi sul debole corpo della donna, lei diventa un lupo mannaro e li uccide tutti – è decisamente poco appagante. Inutile dire che è l’episodio meno riuscito di questa stagione e forse dell’intera storia di Black Mirror finora.

Questo mix di generi e di toni del racconto si amalgamano bene e trovano nella paura e nella rabbia della protagonista Nida (Anjana Vasan) un ottimo catalizzatore; la condizione della ragazza, infatti, è quella di un’immigrata nel nord dell’Inghilterra durante una feroce campagna del partito conservatore nel 1979. Il senso di oppressione sociale e di emarginazione rispetto al contesto rendono sempre più realistica la sua discesa verso l’oscurità, propiziata dai consigli del demone ma anche e soprattutto da un’umanità dipinta al suo peggio. La storia narrata è coinvolgente e lo sviluppo procede a un ritmo sostenuto fino al catastrofico finale – anche in questo caso la lunghezza eccessiva dell’episodio si fa sentire, sebbene si adatti meglio al tipo di racconto rispetto a “Beyond The Sea”.

Quel che è certo, al di là di tutto, è che ancora una volta Charlie Brooker è riuscito a creare un oggetto audiovisivo in grado di far parlare di sé e creare disparità di giudizio enormi. Le valutazioni che si trovano sulle riviste specializzate e nei discorsi del pubblico, infatti, sono tra le più polarizzate degli ultimi tempi, da chi ha apprezzato tantissimo questi episodi a chi li ha odiati profondamente, e la cosa bella è che nessuno può permettersi di dire che qualcuno abbia ragione e qualcun altro torto.
Voto 6×01: 6
Voto 6×02: 7½
Voto 6×03: 5½
Voto 6×04: 4
Voto 6×05: 8
Voto Stagione: 6
Black Mirror: Bandersnatch

L’esperimento di Netflix ambisce a utilizzare una nuova tecnologia come quella dell’Interactive Film (precedentemente usato sulla piattaforma solo per un contenuto diretto ai bambini, Puss in Boots: Trapped in an Epic Tale) al servizio di una versione audiovisiva dei racconti “Choose Your Own Adventure” – che prendono il nome da una collana editoriale per ragazzi molto popolare negli USA tra gli anni ’80 e ’90 – integrandola con il racconto distopico della serie di Charlie Brooker, che racconta ormai dal 2011 le conseguenze ipotetiche sulla società proprio dei device e delle nuove invenzioni tecnologiche. Controsenso? Non proprio, anzi alla luce della riuscita finale dell’episodio si può dire che piuttosto si tratta di una scelta perfettamente coerente con lo spirito di Black Mirror.
La forma narrativa “Choose Your Own Adventure” è stata molto popolare negli anni Ottanta anche in Italia con il nome generico di librogame: racconti che permettevano al lettore di scegliere – attraverso l’utilizzo di domande, lancio di dadi o altro – la continuazione della narrazione stessa all’interno di un set di possibili sviluppi, generando quindi molte narrazioni differenti all’interno dello stesso libro che permettevano non solo di ottenere molti possibili finali ma anche (nelle incarnazioni migliori, come quelle della serie Dimensione Avventura, edizione parziale italiana della collana Fighting Fantasy, ideata da Steve Jackson e Ian Livingstone) di dare alla storia una forma personale. Certo, specie nella serie di Jackson e Livingstone era comunque previsto uno sviluppo “ideale” in cui il lettore arrivava alla fine del libro con il finale previsto dagli autori, ma le sezioni che arrivavano fino a tre-quattrocento permettevano non infiniti, ma davvero numerosissimi sviluppi possibili alla vicenda.

Sicuramente Bandersnatch si situa su quel territorio di confine in cui si situano tutti gli esperimenti, in cui da una parte ci si prende il merito di sperimentare un update alla tradizionale forma narrativa seriale e dall’altro ci si espone alle critiche di ogni tipo. Nelle ore successive alla messa in onda queste critiche hanno preso le forme più diverse, dall’inconsistenza narrativa alla scarsa riuscita dell’ibrido stilistico: tutte critiche perfettamente condivisibili, se si tiene conto che in effetti alla fine dell’episodio ci si trova di fronte al fatto che non è un game sviluppato in modo soddisfacente, e neppure un episodio dalla grande solidità narrativa, essendo tutta la scrittura pensata in funzione delle scelte multiple e non di una fruizione passiva come d’abitudine. Ma Bandersnatch si situa appunto in una terra di confine e sperimentazione che non mette necessariamente al centro la godibilità del prodotto per ogni tipo di spettatore, ma ha l’obiettivo di sorprenderlo e interessarlo al di là della mera fruizione televisiva. Di conseguenza ci si trova ad essere insoddisfatti sia del game sia dell’episodio (soprattutto se si parte da aspettative molto alte), ma al tempo stesso si è consapevoli di aver fruito un prodotto che con tutta probabilità non aspira ad essere nessuna di queste due cose.


Certo, in mano a una writers’ room meno focalizzata su questi obiettivi l’Interactive Film potrebbe generare ibridi narrativamente molto più interessanti: la volontà di Brooker di farci proseguire su una strada ben definita e di facile lettura metatestuale finisce infatti per privare lo spettatore delle scelte fondamentali in termini narrativi (il ricordo della madre e il trip con l’LSD) finendo per premiare in fin dei conti la forma seriale classica rispetto all’ibridazione, e questo toglie sicuramente all’episodio parte della sua carica rivoluzionaria. Ma d’altronde, ci troviamo appunto di fronte a un episodio che si inscrive in un discorso autoriale più ampio e riesce a mantenere la coerenza col progetto in maniera egregia ed estremamente efficace, e che dichiara in maniera più che esplicita i propri obiettivi, stabilendo quindi fin dall’inizio un rapporto più che onesto con la sua audience.
D’altra parte, si può senz’altro dire che moltissimi momenti di Bandersnatch, guardati da un punto di vista specificamente seriale, risultano ingenui e prevedibili (specialmente i momenti in cui l’episodio decide di strafare, come nella sequenza action), ma questo accade a fronte di altri momenti in cui il coinvolgimento dello spettatore è altissimo e reale, come nella sequenza del salto dal balcone.
Probabilmente Bandersnatch coglie quindi lo spirito dei tempi in modo molto più brillante di tantissimi altri prodotti usciti quest’anno, perché cosa c’è di più rappresentativo della nostra epoca di alternative reality e polarizzazione delle opinioni di un episodio che carica la scelta narrativa sulle spalle dello spettatore? Un prodotto che oltretutto, per la sua natura intrinsecamente ibrida, è in grado di generare una serie (questa sì) pressoché infinita di differenti punti di vista.
Nei prossimi anni l’ultima creazione di Charlie Brooker potrebbe diventare il capolavoro metatestuale dei nostri tempi o finire presto nel dimenticatoio come i librogame stessi.
E che l’abbiate amato oppure o no, in fin dei conti, la scelta è vostra.
Voto: 7½
Nota: se volete esplorare tutto l’universo di Bandersnatch senza perdere nemmeno uno dei possibili finali e sviluppi, un utente di Reddit ha fatto il lavoro sporco per voi: eccolo qui.
ARCHIVIO RECENSIONI