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Black Mirror – 2×01 Be Right Back
Si sa, quando si parla di serie tv o di cinema in generale a tutti viene in mente la bandiera a stelle a strisce degli Stati Uniti; ma forse la maggior parte del pubblico non sa che anche in Inghilterra, negli ultimi anni, la cinematografia (soprattutto quella del piccolo schermo) ha fatto passi da gigante. E Black Mirror ne è forse il segno più evidente.

Questa prima puntata della seconda stagione riprende un po’ il modus narrandi del finale della scorsa stagione, ovvero concentrare l’attenzione sui sentimenti umani filtrati attraverso la lente distorta della tecnologia futuristica (ma mica tanto).
La prima cosa che balza all’occhio è la totale assenza di attenzione di Ash nei confronti della fidanzata mentre è concentrato a seguire gli ultimi update di un social network non meglio specificato: la scelta è quindi di farci notare come tutti noi siamo ormai talmente rapiti dalla vita virtuale da non accorgerci nemmeno quando una persona cara ci parla a meno di un metro di distanza.

È chiara l’intenzione di criticare questa maniera di vivere, soprattutto all’interno di una coppia affiatata che ha deciso di passare i momenti assieme immersi nella campagna: ovvio quindi che la presenza di tutta quella tecnologia (oltre allo smartphone, lo strumento di lavoro di Martha) in un ambiente ancora incontaminato dagli oggetti futuristici stride in maniera tale che capiamo subito quanto si rivelerrano importanti tutti quegli strumenti tanto comodi quanto diabolici.
Ed è proprio quando Ash muore – finito fuori strada distratto da qualcosa sul cellulare – che Martha capisce quanto fosse legata al suo uomo, ed è qui che noi capiamo che sarà disposta a tutto pur di ritrovare un po’ di quella felicità che le riempiva la vita.

Come un diavolo tentatore l’amica la iscrive quindi a questo servizio online che, prendendo la vita “finta” di Ash sui social network, riprende il suo modo di essere e di pensare, riproducendo quasi fedelmente l’animo del defunto.
La spinta narrativa che dà il “la” alla scelta di Martha di provare quel servizio è la notizia, quanto mai inopportuna in quel momento, di essere incinta. Qui Black Mirror ci ricorda il suo motivo di esistere: indagare a fondo l’animo umano, guardare in fondo a un pozzo e raccogliere con coraggio quello che ci attende nel buio del fondo. È veramente straziante e straniante vedere Martha parlare con un software che, volenti o nolenti, riproduce davvero la voce di Ash, come se fosse davvero dall’altra parte del telefono.

Ovviamente non ci si poteva fermare qui, perché come ogni cosa che ci succede, quando ci viene dato un dito tendiamo quasi sempre a volere tutto il braccio. Martha vuole di nuovo Ash di fianco a sé, ben sapendo che quello che butta nella vasca non è nient’altro che plastica creata in un laboratorio. Ma l’amore è davvero la forza più devastante del mondo, e Martha non capisce che quella è sicuramente la scelta più sbagliata della sua vita: gli autori sono bravi anche a sottolineare la differenza tra il sesso e l’amore. Se è vero che l’Ash finto è perfetto e sporco nel fare l’amore (la sua esperienza si basa su un database di film porno, geniale) al contrario dell’Ash originale, è anche vero che non può essere tutto lì: infatti il piacere di un attimo non può racchiudere la felicità di una vita, e Martha se ne accorge troppo tardi.

Quando infatti la ragazza capisce che sta vivendo una finta felicità – non chiudere gli occhi quando dorme e addirittura il non respirare di Ash sono davvero creepy – non può liberarsi del corpo come niente fosse, perché vorrebbe dire perdere il suo amore due volte.
Quindi Martha, invece di elaborare il lutto come tutte le persone che perdono qualcuno di caro, non può più farlo perché avrà sempre l’immagine di chi ha perso davanti agli occhi.
Il finale, preceduto dall’urlo di disperazione della ragazza, è quindi emblematico: oltre a crescere da sola una figlia che assomiglia tantissimo al padre, deve convivere anche con l’imago vivente di chi ha amato ma non può più amare, di chi ha perso per sempre ma è sempre accanto a lei, per ricordarle che andare contro le decisioni della natura non può che portare a qualcosa di brutto e inquietante.

L’atteso ritorno di Black Mirror non ha quindi deluso le aspettative, anche se a mio parere i primi due episodi della prima stagione gli sono sicuramente superiori. Aspettiamo quindi con ansia gli altri due appuntamenti di quest’anno, sicuri che gli autori hanno in riserbo per noi sorprese che non ci dimenticheremo facilmente.

Voto: 7
Black Mirror – 2×02 White Bear
L’Inghilterra non è certo nuova a serie tv di spessore, ma Black Mirror di Charlie Brooker ha sicuramente consacrato l’alto livello qualitativo della tv inglese, confermando – se non superando – l’ottima prima stagione.

Il secondo episodio di quest’anno è un capolavoro in pieno stile Black Mirror: disturbante, alienante, inquietante e infine riflessivo. La scelta di avere il punto di vista di un personaggio apparentemente estraneo al mondo in cui si trova è funzionale a farci comprendere il totale disorientamento dinanzi alla mercificazione del dolore: le decine di observers che, armati di smartphone, riprendono la nostra protagonista fuggire da pazzi mascherati che le sparano contro è una situazione non solo inquietante, ma spaventosa perché, in fondo, consideriamo quella realtà quasi credibile e potenzialmente realistica.
La forza di Black Mirror sta proprio qui: catapultarci in un mondo tanto assurdo quanto realistico, ed è proprio questo realismo a farci paura.

Ma tutte le premesse iniziali sono capovolte da un plot twist che ci riporta ad un mondo più vicino al nostro (si elimina il fattore “malattia” e “pazzi furiosi che ti inseguono”) ma non meno preoccupante: scopriamo che la protagonista è una condannata per aver concorso all’omicidio di una bambina (filmandone l’uccisione) e che per questo si trova in un “justice park”.
Il twist è disorientante quasi quanto l’incipit, e anche qui protagonista e spettatore condividono paure, ansie e, infine, consapevolezza.

Ora è tutto evidente: la critica di Charlie Brooker non si muoveva solo sull’incontrollabile desiderio di registrare e condividere tutto, anche la sofferenza umana, ma è andata ben oltre. Al centro dei riflettori, infatti, c’è la spettacolarizzazione della giustizia da parte dei media, che arrivano a “dare in pasto” i condannati al discutibile senso di giustizia del popolo.

Un’aspra critica ai media e al popolo vendicativo che condivido pienamente, essendo spettatore ogni giorno della mercificazione della tragedia tramite i media, che incanalano la rabbia del pubblico verso quella del colpevole a tal punto da non ritenere più sufficiente il carcere. Emblematico il suicidio del fidanzato che “è sfuggito alla giustizia”. Una giustizia fatta di contrappasso, vendetta e spettacolo. Basta immaginare uno Schettino qualunque al posto della nostra protagonista, e comprendiamo che la realtà distopica dipinta da Charlie Brooker non è poi così lontana dalla nostra.

Fa ancora più paura poi, nel finale, la ciclicità di questa “espiazione di colpa”: la ragazza è condannata a ripetere la traumatica esperienza all’infinito, tramite l’azzeramento completo della memoria tra una volta e l’altra. E ogni volta sarà di nuovo “merce”, prodotto mediatico da dare in pasto a spettatori “affamati” di vendetta, che gioiscono della sofferenza di chi ha sbagliato. L’autore cerca da un lato di aprire un varco verso l’uscita da questo ciclo infinito, mostrando come la condannata ricordi qualcosa (di ininfluente nel nostro caso, ma potrebbe essere più rilevante in altri), ma dall’altro l’impressione è che la via d’uscita non ci sia, con l’emblematico dialogo Please just kill me” – “That’s what you always say.

Bocciatissimo, invece, il ridondante finale (quello durante i titoli di coda): davvero non necessario lo “spiegone”, dovevano concludere l’episodio prima, quando avviene il reset della memoria, o al limite con l’inquadratura su “White Bear Justice Park“. Peccato per questo neo, che comunque non inficia lo splendido episodio e può considerarsi più come un “extra” che una parte dell’episodio stesso.

Black Mirror, dunque, non delude le attese e sforna un secondo episodio eccellente, a mio parere migliore del primo, che consacra la serie come gioiello del panorama televisivo internazionale.
 
Voto: 8½
Black Mirror – 2×03 The Waldo Moment
Con questo episodio finisce anche la seconda stagione di Black Mirror, una delle opere televisive più originali e più importanti degli ultimi anni. In questi sei appuntamenti la serie trasmessa da Channel 4 (la stessa di Utopia, non a caso), ha messo gli spettatori di fronte a racconti distopici riguardanti in alcuni casi un futuro prossimo, in altri un vero e proprio presente possibile, su cui è inevitabile interrogarsi.

Tra le caratteristiche principali della serialità televisiva britannica vi è senza dubbio quella di realizzare prodotti di qualità – che nella maggior parte dei casi hanno come referenti diretti d’oltreoceano le serie create dalle emittenti cable – disponendoli in formati strutturalmente originali, radicalmente diversi da quelli dell’industria seriale statunitense. Black Mirror è da questo punto di vista un caso emblematico: due stagioni da tre episodi lunghi cinquanta minuti circa, ciascuno dei quali racconta una vicenda completamente autoconclusiva. Le analogie sono soprattutto di natura tematica – sebbene ci siano continuità anche nello stile di ripresa e nella fotografia – sintetizzate perfettamente dal titolo, il quale fa da collante alludendo allo specchio nero, a un riflesso del reale che al contempo lo contiene e lo deforma, mostrandone la sua trasfigurazione meno rosea.

“The Waldo Moment”

L’ultimo episodio di questa stagione non trova la ragione della sua efficacia in trame articolate e relazioni dense di avvenimenti; viceversa si evidenzia per un plot abbastanza semplice e sostanzialmente lineare: all’interno di un programma d’intrattenimento emerge con sempre più successo il numero di un personaggio di nome Waldo, un cartone animato digitale che, con il doppiaggio di un comico – il quale ne manovra anche i movimenti – si distingue per le sequenze di insulti dalla lunghezza senza precedenti e ripetuti riferimenti all’attualità. Immediatamente la relazione tra un soggetto (in questo caso il personaggio di Waldo) e il suo successo popolare diviene una delle questioni su cui la puntata s’interroga, tanto da proporre in prima battuta l’ipotesi di realizzare un pilota di una serie con protagonista lo scurrile orsacchiotto blu, aprendo in questo modo in maniera autoriflessiva alle logiche industriali televisive. L’idea vincente però arriva in un secondo momento: inserire Waldo nel luogo del successo di pubblico e del consenso per eccellenza, la politica, dove la sua capacità di coinvolgere le masse e di attirare grandi fette di ascoltatori può non solo essere quantificata, ma anche portare a casa risultati tangibili.

“What is a politician?”

Con Waldo la satira riempie il vuoto lasciato dalla politica, mette luce sull’autoreferenzialità del sistema dei partiti, facendosi occhi e orecchie delle masse, divenendo, infine, valvola di sfogo di un sentimento di protesta generalizzato e incorporando istanze comuni di una cittadinanza sofferente che non si riconosce più nei partiti tradizionali e sale sul carro animato del vincitore con il miraggio di mandare a casa un’intera classe politica. Waldo è virus e antidoto insieme, in quanto da un lato s’inserisce in modo irreversibile nelle spaccature, nelle crepe di una politica ormai inadeguata, ma al contempo, riuscendo ad attirare l’attenzione di grandi folle, ne desta il senso critico e la voglia di ribellione. Il modus operandi è quello dell’insulto, dell’improperio, dell’offesa diretta che prende la forma del turpiloquio becero e unidirezionale. Il primo incontro tra Waldo e il candidato del partito conservatore è emblematico di quello che sarà poi l’atteggiamento dell’orso dai pixel blu: “che cos’è un politico” gli chiede Waldo, ricevendo come risposta una banale e retorica similitudine con Batman, colui che vigila, mette ordine e aggiusta le cose – nel solco della tradizione dei Tories britannici – a cui Waldo controbatte con offese e insulti a ripetizione. Tale atteggiamento non è altro che una lucidissima messa alla berlina delle disfunzionalità della politica istituzionale e dell’agire dei suoi esponenti, i quali fanno della monotonia e della trasfigurazione del linguaggio l’unica strategia comunicativa. Se da un lato l’insulto è una coazione a ripetere che non prevede nelle sue corde lo scambio dialettico, dall’altro sembra essere la migliore delle scale al paradiso della politica, coadiuvata da un’ipermediatizzazione quotidiana figlia della presenza costante di schermi che mostrano il nuovo idolo delle folle in azione.

“We don’t need politicians. We’ve all got iPhones and computers, right?”

Se qualcuno era ancora convinto che Black Mirror fosse una serie di fantascienza, con questo episodio sarà costretto certamente a ricredersi. In realtà già nella prima stagione, e per la precisione nella prima puntata, gli autori hanno affrontato la materia partendo da una prospettiva molto simile, che prosciugava quasi totalmente gli elementi sci-fi per raccontare un presente possibile, dove naturalmente la prospettiva è tutto tranne che ottimistica e la tecnologia ha una funzione strumentale di prim’ordine. Ciò che davvero lascia a bocca aperta di “The Waldo Moment” è che quello che per gli autori britannici è uno dei tanti mondi possibili e per certi versi scongiurabili, per i cittadini (e gli spettatori) italiani non è né più né meno che la realtà, emersa, quasi fosse tutto pianificato, nella maniera più esplosiva proprio nello stesso periodo (addirittura lo stesso giorno!) in cui l’episodio è stato trasmesso, quello delle elezioni politiche. L’episodio infatti sembra essere una sorta di manuale d’istruzioni circa il fenomeno del Movimento Cinque Stelle e dell’agire del suo leader Beppe Grillo. Come Waldo anche il comico genovese nasce come entertainer che da quando entra nella scena politica fa dell’insulto la sua pratica comunicativa programmatica – e il Vaffa-Day è la più chiara delle dimostrazioni – facendosi portavoce della rabbia di un bacino elettorale (sempre crescente) ormai scollato dalla politica e dal sistema dei partiti. Proprio come avviene all’orso blu, Grillo e il suo movimento procedono all’insegna dell’urlo “tutti uguali, tutti a casa” e nascondono le eventuali debolezze attraverso una mascotte in grado di fare da parafulmini, ragionando così sulla smaterializzazione del corpo della politica, polverizzandone così i punti di fragilità.

Change, Future, Believe

Dopo una campagna elettorale delle più aspre si arriva ai tanto attesi risultati elettorali: Waldo non arriva primo, ma riceve una quantità inaspettata di voti piazzandosi dietro solo al partito conservatore e prosciugando l’elettorato del labour party. Con inspiegabile veggenza, proprio come in Italia, il parlamento risulta spaccato e ingovernabile per via della scheggia impazzita digitale, vero e proprio soggetto politico virale. Il finale da questo punto di vista è quanto mai apocalittico, dove la dittatura delle immagini marcate Waldo si impone sul contingente e dove politicamente il suo “partito” sembra avere ottenuto la maggioranza assoluta (stesso obiettivo di Beppe Grillo). Se in un primo momento l’iconoclasta gesto di rompere lo schermo – che ancora una volta pone l’accento sull’immaterialità del movimento – riusciva quantomeno a portare a casa crepe e danneggiamenti di varia natura, nel finale la tecnologia, proprio come Waldo, sembra impenetrabile e inscalfibile, in poche parole imbattibile, e ogni tentativo di distruzione riceve una spinta verso l’esterno uguale e contraria. Le parole che scorrono sugli schermi non sono diverse da quelle di tutti gli altri, perché sono quelle del “bignami del politico”, che fanno leva sulla fiducia, sul futuro e sul cambiamento, vero e proprio oppio dei popoli contemporaneo.

Con “The Waldo Moment” Black Mirror chiude alla grande dimostrando un’acutezza di pensiero che ha pochi paragoni.

Voto: 8½
Black Mirror – Christmas Special “White Christmas”
Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente.

Il lungo speciale di Natale che ci ha appena regalato Channel 4 rompe finalmente il silenzio che si è fin qui trascinato dai tempi di “The Waldo Moment“, e lo fa nella maniera più sottile, strisciante e per questo fragorosa che spettatore ricordi – forse paragonabile solo all’impatto ottenuto con il debutto assoluto della serie (“The National Anthem“).
Riesce ad avere questo risultato proprio perché risponde ad una necessità ben precisa: ogni epoca ha bisogno di raccontarsi, estremizzarsi e descriversi tramite iperboli ed esagerazioni, materializzando distopie che ne diventano una specie di obbligatoria catarsi – o almeno uno specchio parlante. Infatti l’intero progetto Black Mirror è stato pensato e realizzato come un overstep, un avanzamento, uno spostamento in avanti temporale e visionario, capace di concretizzare al massimo le nostre paure e le nostre ossessioni, e di farlo in maniera disturbante ed impietosa.

Quando la realtà diventa complessa e inestricabile, l’appello alla finzione sembra l’unico palliativo possibile per cercare di orientarsi nel buio del proprio baricentro. E a noi è toccata in sorte la lucida penna di Charlie Brooker.

Part III – IV. Well, that’s what you are. […] A copy of you.

Ormai più di un secolo fa, qualcuno scriveva: il meccanismo della rimozione può attivarsi quando si è costituita una netta separazione tra l’attività psichica cosciente e quella inconscia, e la sua essenza consiste nell’allontanare qualcosa dal conscio e tenervelo a una certa distanza.
La mente è vista quindi come totale artefice e responsabile di se stessa, capace di affrontare l’enormità dei cambiamenti, di gestire la grandiosità dell’inaspettato, di destreggiarsi nel bel mezzo di crisi imprevedibili e che possono cambiare, in un nanosecondo, qualsiasi cosa. Nel corso di un centinaio d’anni, il complesso sistema del pensiero umano ha trasceso i suoi stessi confini e, dalla complessità di cui si caratterizzava, lo abbiamo volontariamente ridotto ad una semplice stringa di codice, da inserire in un cookie e visibile come un piccolo puntino azzurro. O almeno è così che il bianco Natale di Brooker ci rappresenta.

La puntata è divisa in sei segmenti, e non a caso la terza (e più breve) parte ne è a tutti gli effetti il vero e proprio cuore pulsante: nucleo visivo e narrativo che funge da raccordo e da faro, è il punto che sintetizza e catalizza tutta la superficialità dell’illusione umana.

Matthew (uno strepitoso Jon Hamm) lavora per la Smartelligence, società che, oltre ad un nome ridondante, garantisce ai suoi clienti un netto miglioramento della qualità della loro vita al costo di un semplice ed innocuo taglio sulla tempia. Al minimo prezzo fisico corrisponderebbe il massimo del beneficio: impiantato un cookie vuoto nel cervello, questo nel giro di una settimana carica (upload) e copia i dati della persona ospitante; questi vengono poi chirurgicamente scaricati (download), quindi estratti e materializzati all’esterno. Quella che potevamo definire coscienza, a voler rispolverare un nome desueto e vecchia maniera, va quindi educata ad eseguire gli ordini del suo vecchio corpo, a prendersene cura come un vero e proprio oggetto. Pena l’isolamento.
 
Nella sinistra contemporaneità che ci travolge e che alimentiamo è abolita qualsiasi distanza tra dentro e fuori, tra conscio ed inconscio: la stereotipata “vocina nel cervello”, da complice e protettrice, si è trasformata in un inutile ingombro ed ostacolo. Ed ecco che per farla tornare funzionale, bisogna relegarla nel non-luogo asettico che le ha messo a disposizione l’high-tech: il viso attonito ed alienato della piccola Greta, interpretata da Oona Chaplin, rende perfettamente l’assopimento e l’assuefazione di quell’io nascosto, troppo faticoso da tenere a galla. Meglio schiavizzare la mera copia che l’io mondano ha pagato per avere.
Noi siamo esattamente ciò che esibiamo, anzi: noi siamo il “chi” che esibiamo, poiché a dare la misura del reale, del vero, dell’esistente, è la realtà, cioè il corpo, la fisicità, la presenza (try to blow on my face), che deve esprimersi in una serie ordinata di vacui appuntamenti ed impegni. Pena l’invisibilità.

Part I – II. People want to be noticed. They don’t like to be shut out. It makes them feel invisible.

Rispetto a The Entire History of you o Be Right Back dove, rispettivamente, la tecnologia diventava complice controproducente o sostituto irrinunciabile, qui Brooker compie un passo in più. Si (ci) interroga sugli effetti strettamente identitari che l’intelligenza artificiale può produrre (produce?) su ciascun individuo: come pensiamo noi stessi e quanto si sono di conseguenza modificate, nel loro profondo, le relazioni umane?

Oltre che per il suo lavoro principale, una sorta di cinico mentore-trainer per nuovi cookies, Matthew usa le proprie abilità manipolatorie per aiutare dei loser ad abbordare ragazze. Poiché siamo immersi nel flusso del costantemente pubblicato, la convinzione di cui si nutre questo nuovo e perverso Cyrano non è solo di conoscere e saper interpretare la mente umana o le dinamiche amorose, ma che queste cose siano nulla più che la somma finale degli ambienti in cui ci si trova, delle persone che si frequenta, e della vuota sequenza di appuntamenti segnati su un’agenda virtuale e immortalati da foto e localizzazioni. Nessuno vuole essere isolato e invisibile, queste sono infatti le due torture che Matthew usa su Greta per costringerla a lavorare: facendo un piccolo spostamento dello stesso concetto per adattarlo agli umani, ecco che si materializza il decalogo del buon seduttore, colui che costruisce la naturalezza dei rapporti sull’artificiosità di un vero allenamento. Ma isolato ed invisibile rispetto a chi, rispetto a cosa? Come si decide quale sia la misura della realtà? Quando siamo davvero reali? Basta incontrare una variabile impazzita sulla propria strada per sentire che può cambiare tutto, per poter davvero vedere il limite sottile tra la verità e la superficie.

I social network hanno fagocitato il mondo e, da vetrine che erano, hanno inglobato ogni singolo tassello della vita tangibile, cosiddetta reale, fino a schiacciarla e a ridurla ad una superficie esterna e visibile, uno schermo dove ogni azione è una performance e per esistere deve avere un pubblico pagante. Conoscere e vedere coincidono, sono sinonimi. Gli inamovibili Z-eyes (forma estremizzata e spaventosa dei Google Glass) ne sono il simbolo perfetto: fanno entrare in contatto con il più alto numero di informazioni e quindi convincono che, una volta letto su uno schermo, l’altro sia già immediatamente conosciuto. Unico punto dove l’invadenza della tecnologia non riesce ad arrivare, o si rivela alla fine dei conti fallimentare, è l’esperienza più piena ed egoistica cui l’uomo non può sfuggire: la morte, cioè lì dove isolamento ed invisibilità si compiono drasticamente. Se la presenza di un corpo è l’unità irrinunciabile per essere, rinunciare alla carne significa tagliarsi volontariamente fuori dal mondo sociale e conquistare una profondità perduta e quindi, fino a quel momento, inesistente; perciò il rito di Jennifer celebra la confusione tra dentro e fuori, l’eccezione di chi (uno su un milione) subisce e sente su di sé il peso delle contingenze esterne. Tristemente, il solo modo per riappropriarsi paradossalmente del dentro coincide con la sua stessa scomparsa. E Jimmy viene trascinato nello stesso vortice proprio a causa della leggerezza contraria: l’idea malsana che l’altro sia nulla più che una sfida e che la superficie non può ingannare, ma va soltanto arginata per conquistarla usando un’altra tecnica, abbordandola in altra maniera. Ma se anche la superficie, l’esibizione, la vista possono fallire, è rimasto qualcosa di veramente sincero cui aggrapparsi?

Part V-VI. I confess.

I segmenti iniziali, dominati da Matthew, e finali, dove prende la parola Joe, sono l’emanazione crudele e sorprendente di quanto raccontato nella parte centrale, dove nessuna variabile non preventivata è entrata a disturbare il bianco accecante (da laboratorio, non a caso) della casa di Greta. Proprio alla fine, attraverso le parole di Joe, ogni cosa, ogni tassello, ogni input del racconto fin qui dipanato si riavvolge ora ossessivamente su se stesso, come un nastro impazzito che manda in loop sempre la stessa identica canzone (qualcuno ha detto Kubrick?).

Il luogo appartato e fuori dal mondo dove si trovano Joe e Matthew somiglia – e ci viene lasciato credere che sia – una sorta di rifugio di montagna popolato dai due da ben cinque anni; un luogo tre volte reale perché isolato, invisibile e volontariamente scelto così. E invece, soprattutto qui, si materializza sotto i nostri occhi e quelli attoniti di Joe come tutto sia il contrario di tutto: siamo immersi in una complessa e inestricabile galleria di specchi, dove si riflette sempre la stessa immagine, una superficie contro l’altra, fino a non distinguere più quale sia la sagoma vera e quale la mera proiezione. Il problema è che non interessa più a nessuno tornare all’origine e dare una forma, un’identità, un nome alla sagoma. E questa indifferenza e incapacità di vero, sincero contatto con l’altro è l’argomento principale di White Christmas: l’unilateralità dei rapporti umani, la scomparsa della comunicazione, la difficoltà del confronto, la codardia che si nasconde sotto un unico tasto che dice blocca.

Il “blocking” non è il perverso sistema per cui diventa possibile la rimozione del trauma causato da una persona, cioè quell’evento che bisogna allontanare dall’ormai schiava coscienza, ma quello che realizza quanto di più disturbante possa accadere: la rimozione tout court della persona stessa. Se la vita è il social network, cioè ne segue le stesse regole e gli stessi sistemi, allora anche la parte di protezione è inclusa nel prezzo. Ma anche qui, se si elimina qualcuno dalla propria vita facendo in modo che non esista, che sia silenziato e quindi neutralizzato, il concetto di proteggersi non si ribalta nel suo contrario? Ignorare, ostracizzare e manipolare l’altro impedendogli totalmente di comunicare, di parlare, di chiedere, di ascoltare non coincide a questo punto con una vera e propria tortura? Joe viene bloccato su due piedi da Beth senza troppe spiegazioni, appena ha saputo di essere incinta, facendo in modo che l’uomo non sapesse neanche il sesso del proprio figlio. Per cinque anni, fino alla morte di Beth che permette di annullare il blocco, Joe vive un intero anno della sua vita aspettando un unico giorno: non a caso, il giorno di Natale. Un circolo ossessivo che si chiude sempre nelle stesse ventiquattro ore e che racchiude in sé tutta la tristezza e le convenzioni che porta una data rossa sul calendario. Ogni categoria della realtà è svuotata del suo significato e in primis il Natale, che qui non è una semplice cornice, ma il livello narrativo primo e ultimo che esemplifica come non esista più nulla di autentico. Non gli affetti, non la vicinanza fisica ad una persona: tutto si riduce ad una serie di feste aziendali, per esempio. Infatti Joe, vedendo gli occhi a mandorla della piccola May, si rende conto della sua cecità davanti al vero amore, quello tra Beth e Tim; nessuna tecnologia, neanche gli Z-eyes, possono arrivare a compensare i limiti naturali dell’uomo.

Brooker non ha lasciato il minimo dettaglio al caso e chiude con un’unica e magistrale morsa questo grande disegno. Punisce il gesto avventato di Joe contro il padre di Beth (e indirettamente contro la piccola May), chiudendolo nell’unico luogo davvero reale del racconto e ribaltando anche quella casa nascosta nel nulla in un luogo finto, riprodotto e impossibile da lasciare. Joe è costretto a rivivere sempre lo stesso giorno di Natale, riascoltare la stessa canzone, torturarsi sullo stesso rimorso. E tutto ha luogo grazie alla manipolazione del suo cookie perpetrata da Matthew, cioè colui che invece cerca il riscatto dalle sue azioni: ma se tra dentro e fuori non c’è differenza e la vita è performance, allora un omicidio in streaming non può che essere punito in pubblico mentre si è assenti dallo stesso. Un’immagine rossa in un mondo di vacue immagini bianche: è l’azzeramento della comunicazione. Anche l’unico legame dell’unilateralità è per lui reciso.

Non esistono conclusioni per la rappresentazione di qualcosa che è in costante movimento, che accade mentre parliamo, mangiamo, interagiamo, dormiamo, che ci striscia accanto mentre viviamo. Non esistono conclusioni perché l’unica cosa da fare è solo un atto di coscienza, di revisione e di ripensamento proprio alla vigilia del Natale, che forse può tornare ad essere davvero qualcosa in più, forse l’occasione giusta per (ri)cominciare a parlare, comunicare ed entrare veramente in contatto con chi ci siede accanto, e non solo con chi è dall’altra parte di uno schermo.

Grazie Charlie Brooker, buon Natale anche a te.

Voto episodio: 10
Black Mirror – 3×01 Nosedive
In questo ultimo scorcio di 2016 Netflix non ha ancora finito di giocare le sue carte e decide di rendere disponibili i sei episodi della terza annata di Black Mirror, l’acclamata serie britannica che dopo due stagioni ed uno speciale di Natale su Channel 4, è passata sul servizio di streaming che ha deciso di renderla ancora più grande.

[…] io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo. Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi.
Pirandello – Uno, nessuno e centomila

Sin da quel 4 dicembre 2011 in cui Channel 4 mandò in onda il primissimo episodio di Black Mirror si poteva intuire che qualcosa di nuovo fosse arrivato sul panorama televisivo internazionale: non solo perché cinque anni fa il numero di serie antologiche era minore di quello attuale (e dunque si trattava anche di una vera e propria scommessa), ma soprattutto perché osò sconvolgere gli spettatori con una storia tanto assurda eppure spaventosamente realistica. Da allora fino ad oggi Black Mirror è stata una serie dall’indiscusso e indiscutibile valore, capace di mettere in scena alcune delle nostre più sincere paure concernenti un uso errato e senza etica delle nuove tecnologie. Ciò che la scrittura di Charlie Brooker pone come centro della sua discussione non è uno sguardo sospettoso e negativo nei confronti della tecnologia in sé; questo messaggio completamente sbagliato non passa mai, in effetti, perché al cuore della serie c’è il temibile declino a cui l’umanità a noi contemporanea potrebbe arrivare se non sarà in grado di gestirle, queste nuove tecnologie.

Ci sono due piani del discorso di Black Mirror, infatti, che vanno presi in considerazione: da un lato c’è la costruzione di un mondo altro, di una realtà futuristica al limite dell’utopico o comunque talvolta volutamente esagerata per far passare il messaggio (o la metafora, come dovremmo dire in questo caso); dall’altro c’è la componente umana, che è poi il livello che permette con estrema efficacia e puntualità di creare forte empatia tra lo spettatore ed il protagonista o i protagonisti delle vicende rappresentate. Queste due sfere interagiscono tra di loro con uno scambio unico che, almeno fino a questo momento, non ha mai fallito nel lavorare a dovere. L’idea di fondo, d’altronde, può esprimere anche temi non necessariamente originalissimi – come accadrà per questo primo episodio, che gli spettatori di Community non troveranno nuovo –, ma trattato e portato avanti in maniera spesso molto fresca e con una realizzazione tecnica invidiabile.

Prendiamo, appunto, questo episodio: è chiaro sin dai primi dieci – terrificanti – minuti che Brooker sia partito da una generale stigmatizzazione dell’uso ormai pressoché indiscriminato dei social nella vita quotidiana, portato alle estreme conseguenze per necessità di metafora. Non solo la realtà descritta è caratterizzata dal gradimento sui social network, ma l’intera vita umana e quotidiana è un eterno gioco di giudizi e costruzioni atti ad ottenere gradimento e successo sociale. Questo gioco viene a tal punto portato alle estreme conseguenze che intere parti della società sono appannaggio di coloro che hanno un giudizio ben superiore alla media; si è formata una nuova classe sociale in cui il valore massimo non è più attribuito dal denaro – che pure deve ovviamente avere ancora un ruolo essenziale –, ma dalla capacità di creare intorno a sé (e dentro di sé) l’immagine che gli altri proiettano.

Una duplice lettura, dunque, che porta alle estreme conseguenze l’idea pirandelliana che ciascuno di noi è visto in maniera differente dall’altro, rendendo impossibile determinare chi si sia in maniera univoca; si è, in questa nuova realtà, ciò che è necessario essere per incontrare il gradimento degli altri. Si parla e si ride nel modo ritenuto più gradevole, si creano immagini e si cerca il cibo che ci farà apparire più “cool”, ed il suo sapore non ha alcun ruolo in tutto questo. La pervasività di questo sistema è così violenta che ormai tutto è falsi sorrisi e pugnalate alle spalle: basti pensare al sistema legale stesso che punisce facendo perdere punteggi (pur senza smettere di sorridere, per essere comunque a propria volta valutato con cinque stelle); ogni cosa che si dice è strettamente controllata dalla funzione sociale e dalle possibili ripercussioni che si subiscono, persino nel doversi schierare dopo una rottura sentimentale altrui.

In questo mondo assolutamente finto non stupisce – ma anzi ribadisce ancora una volta come questa serie non abbia perso alcuno smalto – che il modo di rappresentazione visiva sia l’esaltazione delle tonalità pastello, che rendono tutto idilliaco e sgradevolmente inquietante. Quando la protagonista irromperà al matrimonio spezzerà anche cromaticamente il tenue alone che sembra dominare la messa in scena: non resta altro che il fango e la “follia” (ma su questo ci arriveremo) a frantumare questa finzione e a portare qualche colore più acceso. Da segnalare, poi, che la regia è affidata a Joe Wright che sa muoversi con grande maestria nella creazione di questo panorama visivo.

In questo grande gioco, dunque, troviamo la protagonista. Lacie Pound è una giovane donna con un punteggio sociale di 4.2, quindi perfettamente inserita all’interno di questo sistema – anzi, si direbbe che è anche piuttosto capace a portarlo avanti. Ma vuole di più, sempre di più, invidiosa della vita di chi ha un punteggio molto più elevato e dunque maggiore stima e riconoscimento pubblico a cui lei non può far altro che aspirare per convenzione sociale. È a questo che si riduce la sua vita (la si vede al posto di lavoro, ma il fatto che stia lì per lavorare è del tutto secondario e fumoso), ossia ad una costante ricerca di approvazione, alla gratificazione tutta moderna che può arrivare da una foto condivisa e giudicata positivamente. Da lì all’analisi delle singole parole o delle singole espressioni il passo è breve. La sua stessa volontà di cambiare casa è anche legata al terrore di un fratello che invece non sembra interessarsi più di tanto del punteggio (anche se il suo modo di vendicarsi della sorella resterà comunque confinato nel gioco di giudizio).

Vedere la lenta ma inesorabile caduta di Lacie Pound è doloroso ed emblematico insieme: man mano che la donna si ritrova perseguitata da una serie di spiacevoli eventi, sempre più si rivela la natura “crudele” dell’essere umano, che non ha alcuna intenzione di venirle incontro infierendo sulle sue difficoltà. Più il suo punteggio diminuisce, più crolla dentro di lei ogni filtro; com’era accaduto all’inizio dell’episodio al suo collega di lavoro, così anche lei diventa sempre più una social paria, vittima di punteggi negativi che si susseguono uno dietro l’altro senza possibilità di arrestarli. Ed è proprio da questo disastro che si risveglia l’animo sincero e più umano di Lacie: in quello che sembra sempre più un episodio scritto da Pirandello, la donna ha bisogno di finire – letteralmente – nel fango prima di capire che quella sua disperata ricerca di attenzioni non è altro che un grido di profonda solitudine, lo scatto di chi realizza che ciò che la circonda è pura finzione. La sequenza d’insulti che chiude la puntata non può che essere, necessariamente, il punto di approdo di qualcuno che è rimasto vigile tutta la vita a controllare ogni sua parola, ogni suo scatto di sincera umanità in una società che semplicemente non accetta più la spontaneità. Dalle prove di risata davanti allo specchio si passa al sorriso spezzato ma divertito che va a chiudere la sua personale discesa agli inferi. Un plauso particolare bisogna farlo a Bryce Dallas Howard che è, nei panni di Lacie, di una bravura straordinaria: non solo regge con grande capacità l’intero episodio sulle proprie spalle, ma è in grado di dotare il suo personaggio di una umana profondità che rende credibile ogni suo più piccolo cedimento.

Dove si annida, allora, la genialità della scrittura di Brooker? Il mondo generale e quello più personale di Lacie si stringono e si avviluppano l’un l’altro con grande efficacia, al punto che in alcuni momenti sembra che davvero questa realtà possa essere non così distante dalla nostra. Quante volte noi stessi possiamo essere scivolati nell’interesse di condividere qualcosa non soltanto per il desiderio in sé, ma per la sottile ed inconfessabile gratificazione che il nostro ego ne avrebbe tratto? Il gioco di filtri con le immagini, la studiata quanto innaturale costruzione della messa in scena delle nostre fotografie, l’intrusione più o meno invasiva dei programmi di modifica delle imperfezioni: sono tutti mezzi che non cercano il lato migliore di noi o della nostra vita (che pure falserebbero la realtà), ma rispecchiano ciò che crediamo possa piacere (o di contro scandalizzare, anche questo può essere un meccanismo di ricerca d’attenzione) al resto delle nostre cerchie.

Da questo ritorno della vanità Brooker ne ricava un episodio estremamente riuscito che lascia ben sperare per il resto della stagione. Ciò non significa, però, che tutto sia emerso al meglio: si nota, soprattutto nell’incontro con Susan, la camionista che riesce a far comprendere a Lacie l’inutilità del sistema di gradimento, una sfacciata necessità didascalica; le somiglianze sono talmente evidenti e conclamate che è impossibile non notare la mera funzione narrativa di quel personaggio. Lo stesso problema può essere in parte visto anche nella sequela di insulti finale, sebbene lì sia molto meno sfrontato e di conseguenza meglio amalgamato nel processo finale che si va cercando. A parte tutto ciò, però, è innegabile che il passaggio da Channel 4 a Netflix abbia significato anche un diverso budget che si riflette in un uso preponderante degli scenari esterni, che non riducono tuttavia la carica opprimente di cui è dotata tutta la prima parte dell’episodio.

Il ritorno di Black Mirror conferma dunque come la scrittura e la realizzazione tecnica siano rimaste di altissimo livello; anzi, a dirla tutta, c’è in questo primo episodio della terza stagione una tale grazia espressiva che gli si perdonano anche quelle poche stonature che si evidenziano di tanto in tanto. Se il resto della stagione si manterrà su questi livelli, che sono altissimi, allora Black Mirror avrà definitivamente superato il soffitto di vetro che è sembrato finora esser riuscito a contenere la sua grandezza.

Voto: 8½
Black Mirror – 3×02 Playtest
Il secondo episodio di Black Mirror stupisce lo spettatore esplorando un nuovo genere, finora mai toccato dalla creatura di Brooker: l’orrore. Il filo conduttore della fantasia distopica è qui applicato alle convenzioni meta-horror, creando un ibrido che esplora la potenza e i pericoli della conoscenza, della memoria, della percezione di noi stessi.

“All that we see or seem / Is but a dream within a dream” – Edgar Allan Poe
 
Black Mirror ci ha abituato, nelle precedenti stagioni, a un ventaglio piuttosto ampio di ambientazioni, protagonisti, storie: la televisione, la politica, la vita di coppia con tutte le sue contraddizioni (il lutto, la gelosia), il crimine e naturalmente la relativa punizione.
Ma nonostante la varietà dei temi trattati e la costante presenza della fantascienza distopica come fil rouge che univa tutti gli episodi, è sempre stato difficile ricondurli a specifici generi: più che esplorare i topic della fantascienza, infatti, Black Mirror ha sempre puntato su uno stile di freddo realismo che non si è mai agganciato davvero a riferimenti o citazioni che strizzassero l’occhio allo spettatore, ma anzi cercava di decontestualizzare ogni momento del racconto con una messa in scena originale e continuamente spiazzante.

Sarà forse il fatto che molti critici lo vedono come un erede di The Twilight Zone che ha portato Black Mirror a sfornare un episodio come “Playtest”, che si discosta dallo stile cui siamo abituati per toccare territori nuovi che lo portano in una direzione molto simile a ciò che in passato, sempre ispirandosi alla serie del 1959 (e al reboot del 1985), aveva fatto The X-Files. Ovvero, sfruttare le possibilità offerte dal formato antologico per offrire episodi più standalone che raccontano la visione dello show attraverso situazioni e temi ricorrenti di un genere specifico.
“Playtest”, infatti, è una vera e propria storia horror che però si inserisce alla perfezione nella poetica di Charlie Brooker, dando origine ad un interessante e sperimentale incrocio dal mood assolutamente unico.
Il regista è Dan Trachtenberg, il cui nome sarà familiare a chi ha visto 10 Cloverfield Lane, meta-horror del 2016 che come questo episodio di Black Mirror ha la sua forza principale nel giocare abilmente con le aspettative e le conoscenze dello spettatore, per trascinarlo in un gioco psicologico che usa gli stereotipi più classici dell’orrore per illudere, sviare, terrorizzare e sorprendere.

Frightened, you get a scare, you jump. Afterwards, you feel good. You get a glow. Because you are still alive.

La trama di “Playtest” inizia infatti citando uno dei capisaldi del genere, An American Werewolf in London di John Landis: un ragazzo americano lontano da casa che, sottovalutando il contesto in cui si trova, finisce per trasgredire alla prima regola dell’horror, “mai fidarsi degli sconosciuti”.
Cooper – interpretato da Wyatt Russell, talentuoso figlio di Goldie Hawn e Kurt Russell – si comporta fin dall’inizio come il protagonista consapevole e fiducioso che tutti saremmo, non mettendo mai in dubbio i pericoli dell’esperimento ma anzi affidandosi bovinamente alla responsabile del progetto e scaricando la tensione con continue battute.
Lo stereotipo dell’americano easygoing e un po’ tontolone qui si addice perfettamente non solo alla fisicità di Russell, ma anche a costruire un antefatto in cui la sua mancanza di dubbi e senso del rischio verso i pericoli cui sta andando incontro evocano le nostre stesse mancanze: quando scarichiamo l’aggiornamento di una app, quando diamo il consenso a un documento senza leggerlo, quando flagghiamo un’opzione permettendole di utilizzare i nostri dati, stiamo sempre e comunque prendendo decisioni basate su una fiducia acritica nel sistema e nelle sue regole, in parte basata sulla leggerezza, in parte sull’illusione di conoscenza del web, delle leggi e della natura umana che inevitabilmente prima o poi si rivelerà fallace.

– You’re qualified to do this, right?
– I haven’t killed anyone yet.


Questa fiducia indiscriminata porterà Cooper ad acconsentire a diventare il betatester di un videogioco horror in VR che, grazie a un chip installato nel cervello che intercetta i suoi pensieri, lo trascinerà in un incubo capace di metterlo di fronte alle sue paure più profonde, mettendone in crisi tutte le certezze su se stesso e sgretolandone la spavalderia scena dopo scena, colpendolo sempre più in profondità nei suoi punti deboli.
Il fatto che le paure del protagonista prendano la forma dei mostri e delle situazioni più stereotipate della tradizione horror, insieme alla consapevolezza di Cooper di poter uscire quando vuole dall’esperienza grazie a una safeword, non fanno altro che accentuare la sua identificazione con lo spettatore: è un giocatore che diventa personaggio di un videogioco, convinto di sapere sempre cosa aspettarsi e di essere sempre in grado di riconoscere e prevedere le situazioni, avendo vissuto questi stereotipi in mille avventure al cinema, in televisione o davanti a una consolle.
E, come nel più classico dei topic horror, la mancanza di sospetto e prudenza è la causa ultima delle sfortune dell’eroe (come Ash nel ciclo de La Casa, ad esempio), ma è anche lo spauracchio che Brooker ci mette di fronte in questo secondo capitolo del Black Mirror “americano”.
Sfruttando con consapevolezza le potenzialità di una storia di genere e discostandosi dal discorso sulla società per concentrarsi sul comportamento del singolo, “Playtest” mette il dito sulle nostre responsabilità personali nel gestire con leggerezza qualcosa che crediamo di conoscere bene, ma che in realtà è troppo complesso per essere davvero prevedibile.

He’s gonna be right behind this door when I close it, isn’t he?

Mano a mano che il chip riconosce le reazioni della mente di Cooper agli stimoli orrorifici, questi riescono infatti a colpirlo con sempre più efficacia, andando a scavare in una storia personale che lui stesso cerca con tutte le proprie forze di rimuovere.
Dai ragni giganti e dalle figure inquietanti con la faccia del bullo della scuola si passa quindi alla paura di non essere più capace di distinguere tra realtà e finzione, che non permette di percepire i reali confini del pericolo e induce Cooper a crollare sempre di più, fino al panico totale.
La casa in cui si svolge il gioco non è più la trappola da cui fuggire materialmente, perché la trappola sta nella manipolazione da parte di chi dirige il gioco, di cui la casa è solo un simulacro banale pensato per ingannarlo e convincerlo di saper gestire la situazione.
Il dubbio sulle proprie capacità diventa così vera impossibilità di capire cosa realmente sta accadendo, fino a diventare disorientamento totale: Cooper non sa più cosa sta avvenendo realmente e cosa nella sua mente, dove si ferma il gioco e dove inizia il lavoro del suo cervello.
In un gioco di finali che si incastrano l’uno nell’altro e illudono anche lo spettatore di essere arrivato alla conclusione, di aver finalmente capito cos’è successo, assistiamo alla manifestazione della paura più grande del protagonista e forse di tutti noi, la perdita della coscienza di sé e della realtà che ci viene dalla memoria e dall’identità.

Just to get away and make, you know, all the memories that I can…while I can.

Senza la nostra memoria e la nostra identità non siamo altro che burattini in balia degli eventi e il fatto che Cooper abbia scelto consapevolmente di infilarsi in questa situazione, spinto proprio da un’eccessiva fiducia nelle proprie capacità, è la suprema e macabra ironia di questo episodio.
Così come ironica e spietata, nonché assolutamente in tono, è la scelta di attribuire la morte di Cooper alla trasgressione dell’unica regola che gli era stata imposta (quella di spegnere lo smartphone): una violazione non tanto dovuta all’avidità ma a un atto di ribellione e spavalderia gratuito, nato dalla stessa presunzione che ci porta sempre a dare per scontato che alla fine “non succederà nulla” nello stesso modo in cui consideriamo scontate la nostra identità, la nostra memoria, ciò che ci rende essere umani unici e capaci di vivere nel mondo.
“Playtest” mette in discussione queste certezze in puro stile Black Mirror, e lo fa attraverso uno stile capace di disorientarci insieme al protagonista, facendoci costantemente credere di aver capito, di aver vinto il gioco dei riferimenti e dei finali ma sempre in realtà prendendosi gioco di noi e delle nostre convinzioni illusorie, che il genere horror è perfetto nel mettere a fuoco e smascherare.

Un episodio differente da quanto ci saremmo aspettati, che, pur al netto di alcuni difetti come l’eccessiva lunghezza, è capace di ampliare le possibilità della messa in scena di Black Mirror senza snaturarne il messaggio di fondo, soprattutto grazie alla scelta di un regista il cui stile si adatta alla perfezione agli obiettivi della sceneggiatura. Che sono quelli, come sempre, di raccontarci e raccontare il nostro presente in un viaggio al tempo stesso emozionale e pieno di tensione, che esplora le nostre debolezze e ce le ributta in faccia con l’aspetto terrorizzante dei mostri che popolano il nostro inconscio.

Voto: 7½
Black Mirror – 3×03 Shut Up and Dance
Dopo aver esplorato le possibili derive della contemporanea ossessione per i social media, con “Shut Up and Dance” Black Mirror indaga l’altro lato della rete, quello che non ha nulla a che fare con filtri pastello, selfie e “mi piace”.

Come un vero Giano bifronte, lo schermo – del pc, dello smartphone – diviene uno specchio in grado di riflettere al contempo l’immagine perfetta che decidiamo di mostrare all’esterno e le pulsioni più inconfessabili che, nell’illusoria sicurezza dell’anonimato, possono trovare libero sfogo. Ed è proprio questo scarto identitario a costituire lo spazio di manovra del vigilante senza volto che tiene in mano le redini del gioco durante tutto l’episodio: la minaccia di distruggere la sottile linea di separazione tra questi due mondi è infatti più che sufficiente a convincere tutte le persone coinvolte a spingersi sempre più in là, fino alla rapina e all’omicidio, nella vana illusione di riuscire a mantenerla intatta.

My life’s over if this gets out. Fucking over.

La narrazione procede così per buona parte della puntata in maniera piuttosto lineare, dando vita a una sorta di buddy movie distopico che alterna abilmente tensione e grottesco, il tutto filtrato – non a caso – attraverso gli occhi di Kenny, il quale costituisce il tramite privilegiato tra lo spettatore e il mondo rappresentato. Infatti, come spesso accade in Black Mirror, sono solo gli ultimi minuti a ribaltare totalmente le carte in tavola, sconvolgendo le aspettative del pubblico, che si ritrova improvvisamente in una posizione scomoda, in cui fatica a orientare il giudizio: quello che ci era stato presentato come il ricatto di un giovane in fin dei conti innocente per un tornaconto economico si rivela in realtà essere una vera e propria punizione somministrata dalla giustizia anonima della rete per quello che è forse ritenuto il crimine più imperdonabile di tutti; ma le colpe di Kenny, e degli altri personaggi, bastano a giustificare lo spietato modus operandi dell’anonimo giustiziere e la sua pretesa di ergersi a giudice, giuria e boia?

How do we know when it’s over?

Come sempre, Brooker vuole portare lo spettatore a interrogarsi su questioni che sono all’ordine del giorno, come il rispetto della privacy, della legge e delle libertà individuali, ma lo fa nel modo più sgradevole possibile, ovvero spingendolo a empatizzare con Kenny (anche grazie all’ottima interpretazione di Alex Lawther), per poi colpirlo allo stomaco con la rivelazione finale. Tramite questo espediente il pubblico viene privato della rassicurante condanna del ricatto, trovandosi costretto a misurarsi con la supposta moralità delle azioni del vigilante e la visione del mondo che porta con sé, senza però alcuna pretesa di fornire una risposta corretta e univoca alle domande sollevate.
 
L’atto dello smascheramento, che alla fine giunge inesorabile e accompagnato dal beffardo meme che tutti conosciamo, lascia infatti trasparire una concezione identitaria manichea, che appiattisce la persona sul proprio crimine/peccato, alludendo così per contrasto a una complessità ignorata ma quanto mai reale. Allo stesso tempo a emergere è anche l’ambivalenza dell’analogia tra controllo e sicurezza, che mostra al contempo la sua efficacia e la sua forza incontrollata, dipingendo un mondo in cui chiunque, dotato di determinate abilità tecniche, diviene potenzialmente in grado di riscrivere a suo piacimento la lista dei crimini punibili e delle relative punizioni. La scrittura riesce così a problematizzare la condanna senza appello di comportamenti inaccettabili senza mai sfociare nell’apologia, proprio perché ne sfrutta la carica provocatoria per affermare i limiti e rischi dell’abbattimento della privacy e, soprattutto, del giustizialismo incontrollato.

You can laugh. A spineless laugh

A conti fatti però, malgrado la scelta apprezzabile di mettere da parte l’elemento fantascientifico in favore di un maggiore realismo, “Shut Up and Dance” ricalca in più punti struttura e tematiche già affrontati in passato dalla serie, finendo col risultare una copia sbiadita di “White bear”. In entrambi i casi assistiamo infatti ad un’assimilazione dei ruoli di carnefice e vittima nella figura del protagonista, volta a riflettere sul rapporto tra giustizia, media e tecnologia; ma se in “White bear” l’elemento novità permetteva alla rivelazione del Justice Park di deflagrare con una forza inaudita, in questo caso la sensazione di già visto va inevitabilmente a smorzarne l’impatto, nonostante la bellezza della potente sequenza conclusiva sulle note di “Exit music (for a film)” ­– non avremmo potuto immaginare una colonna sonora migliore di OK Computer per accompagnare le distopie di Brooker.

In definitiva, “Shut Up and Dance” non fa altro che portare alle estreme conseguenze certe dinamiche che sono già tipiche della rete, e lo fa senza il bisogno di immaginare futuri distopici o ipotetiche evoluzioni tecnologiche, ma semplicemente mettendo in scena una reale possibilità del presente in cui viviamo, dando così vita a un episodio che, pur non raggiungendo le vette a cui la serie ci ha abituato in passato, non può dirsi un esperimento fallito. Il coraggio con cui Brooker e Bridges utilizzano tematiche come il razzismo e la pedofilia per problematizzare le pratiche di controllo e giustizia dimostra che Black Mirror, nonostante qualche ripetizione, è ancora lontana dall’esaurire il suo potenziale.

Voto: 7+
Black Mirror – 3×04 San Junipero
“Ma come si passano le giornate nel Paese dei balocchi?”
“Baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo.
Che te ne pare?”

Carlo Collodi, “Le avventure di Pinocchio

Se con i primi episodi di questa stagione Charlie Brooker ha restituito al pubblico, dopo lunga attesa, le atmosfere cupe e disturbanti tanto amate dai fan di Black Mirror, con “San Junipero” l’autore inglese ribalta le aspettative del pubblico e confeziona uno degli episodi più atipici ma, al tempo stesso, più affascinanti della serie, una storia che sotto la sua apparente semplicità pone allo spettatore un quesito morale di rilevanza cruciale.
Prima di entrare nel vivo della questione, la prima parte dell’episodio si concede una lunga riflessione, sempre in bilico tra la critica e l’omaggio, sull’estetica del cinema adolescenziale anni ’80. L’incontro tra Yorkie e Kelly e la loro travagliata storia d’amore seguono i canoni del racconto di formazione per teenager alla lettera, al punto da sembrare un film di John Hughes con trent’anni di ritardo. Yorkie è il prototipo della ragazza timida e impacciata, incapace di omologarsi alle mode e agli stili di vita imperanti e con una passione personale inusuale come i videogiochi, divertimento per ghettizzati che, con un colpo di genio, Charlie Brooker pone letteralmente in isolamento rispetto agli svaghi della massa.

Kelly, d’altro canto, è tutto quello che Yorkie vorrebbe essere: bella, spensierata e perfettamente a suo agio in ogni contesto; il perfetto esempio da imitare, in un’epoca dove è fondamentale avere un modello su cui costruire la propria identità. In questo senso, la scena delle prove costumi di Yorkie ha una forte valenza simbolica: al pari di un videogioco, la ragazza prova diversi personaggi da cucirsi addosso per vincere la sua sfida personale e conquistare il cuore di Kelly – personaggi ovviamente ispirati alle icone della decade, da Madonna ai Kraftwerk.

La storia d’amore delle due ragazze viaggia su binari ben noti, passando dall’esplosione del desiderio in una casa sulla spiaggia all’allontanamento e ricongiungimento finale, ma la love story si fonde con il racconto fantascientifico e viene messa subito in questione la sua veridicità: in questo Paese dei Balocchi moderno è sempre sabato sera, il momento della settimana perfetto per abbandonare sentimenti o preoccupazioni e dedicarsi al divertimento più sfrenato. Può addirittura cambiare l’epoca storica, ma il sabato sera e le ore che lo scandiscono fino alla mezzanotte rimangono l’unica realtà vivibile possibile, ed è in questo breve ma infinito lasso di tempo che Yorkie e Kelly mettono a nudo le reciproche insicurezze e paure.

La seconda parte della storia, dopo aver lasciato allo spettatore numerosi indizi sulla natura fittizia dello scenario, abbandona la realtà virtuale su cui il racconto si è retto finora e ci mostra la cruda verità: Yorkie e Kelly sono entrambe anziane e condannate, la prima paralizzata dopo un incidente d’auto e la seconda con un tumore allo stadio terminale. San Junipero, da idilliaca località di vacanza, ci viene presentata come l’ospizio per anziani definitivo, un luogo di nostalgia artificiale che cancella i dolori della vecchiaia e garantisce un’eterna gioventù priva di rimpianti. Le meraviglie del progresso non si fermano qui: dopo la morte gli utenti possono essere trasferiti a San Junipero in maniera permanente, garantendo quindi l’immortalità artificiale a chiunque voglia coglierla.

È qui che Brooker sferra il colpo più duro, mostrandoci uno scenario futuro in cui la tecnologia soppianta la religione: il paradiso si è trasformato letteralmente in un Cloud di dati che trasforma l’anima in gruppi di bit, ologrammi della nostra vita passata creati per evitare il dolore del lutto. Ma fino a che punto si è disposti a rinunciare al dolore della perdita pur di avere la certezza della beatitudine eterna? Su queste basi si poggia lo scontro morale tra le due protagoniste: Yorkie vuole scappare dalla prigione, mentale e fisica, del suo passato e vede nel trasferimento a San Junipero l’unico modo per esaudire il suo sogno d’amore, ma Kelly non è disposta a rinunciare al ricordo della sua famiglia defunta, a quel passato che per quanto doloroso è ciò che la definisce, per ottenere un’eterna illusione, una scappatoia dal naturale ciclo della vita.

In un mondo dove la tecnologia può aggirare la morte, tuttavia, sono sempre i sentimenti a fare la differenza e con fredda ironia Charlie Brooker risolve il conflitto di Yorkie e Kelly con un finale agrodolce, in cui le ragazze/vecchie, ormai defunte, accolgono a braccia aperte il loro eterno happy ending e, sulle note di “Heaven is a place on Earth” di Belinda Carlisle, al pubblico viene data una visione del regno dei cieli del nuovo millennio: una stanza di server piena di lucine colorate che si allunga fino all’orizzonte.

L’assenza di inattesi colpi di scena o di pugni allo stomaco visivi potrebbe far pensare, di primo acchito, a una caduta di livello rispetto agli standard a cui la serie ci ha abituato, ma la potenza di “San Junipero” risiede proprio nella sua schietta semplicità che gli consente di portare un passo più avanti il discorso sul lutto già elaborato in “Be right back”. La storia d’amore di Yorkie e Kelly ci colpisce perché parla di emozioni e legami a cui nessuno può considerarsi indifferente e si tramuta in una toccante metafora sulla perdita come fattore di umanità, sulla difficoltà nell’accettare i limiti della vecchiaia e sugli effetti nefasti della nostalgia portata alle estreme conseguenze.

Black Mirror mette dunque da parte la durezza impietosa che l’ha sempre contraddistinta e punta a un racconto conciso ma, al tempo stesso, di grande complessità, capace di emozionare lo spettatore e di costringerlo a fare i conti con la propria coscienza.

Voto: 8
Black Mirror – 3×05 Men Against Fire
Uno dei grandi punti di forza di Black Mirror consiste nella sua offerta di spunti originali, idee di base che, a prescindere dallo sviluppo della storie in sé, non possono che portare a riflessioni o approfondimenti sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia.

Tuttavia, la qualità della serie non si ferma certo qui: gli spunti devono essere sviluppati ed approfonditi, devono costruire delle storie che riescano ad analizzarli nella maniera più intelligente possibile, senza sacrificare nel processo la messa in scena. È lì, in fondo, che si traccia la linea tra gli episodi migliori e quelli meno riusciti della serie, tra quelli che hanno saputo fare il passo in più e quelli che rimangono dei semplici esperimenti; “Men Against Fire” si pone esattamente nel mezzo, riuscendo a dire tanto ma lasciando la sensazione che si sarebbe potuto fare ancora qualcosa di più.

It’s a lot easier to pull the trigger when you’re looking at the boogeyman, hmm?

È chiaro fin da subito come il romanticismo e l’ottimismo di “San Junipero” siano un lontano ricordo; la situazione presentata è infatti molto più cupa, più vicina allo stile a cui è normale associare un prodotto che porta la firma di Charlie Brooker.
La premessa, come si diceva, è come al solito interessantissima e ricca di spunti, mettendo sul tavolo una narrazione che tanto si avvicina a “La Sentinella” di Fredric Brown: anche in questo caso si parla di spersonalizzazione del nemico, della cultura dell’orrore e del disgusto per giustificare ulteriori orrori nei confronti dei propri avversari. È un tema che, forse in questo episodio più che mai, si lega tanto ad un possibile futuro quanto al nostro passato, mettendo le proprie radici esplicitamente nei conflitti del Novecento ed in particolare sulla guerra in Vietnam, in cui Charlie era visto appunto come una “razza” straniera, fatta di alieni, di roaches. Black Mirror è sempre stata una serie sull’essere umano più che sullo schermo nero che ne riflette (senza inventarsi nulla) la natura, e “Men Against Fire” porta agli estremi un certo tipo di visione del nemico (ma, se vogliamo, anche dello straniero) che non può che risultare tristemente attuale. Dopotutto, la parte più terrificante della distopia presentata non sta tanto nell’impianto Mass, che “acceca” i soldati manipolandone l’intero sistema percettivo, quanto nello scoprire che la gente sia perfettamente a proprio agio con il dispositivo – e, quindi, con le atrocità che tale sistema permette di compiere. Perché la consapevolezza che esista un comando dell’esercito senza scrupoli che ordina atti del genere non è certo rassicurante, ma lo è ancora meno il fatto che la maggioranza della popolazione appoggi senza alcun problema questo tipo di strumenti.

Si parla quindi di una premessa e di sviluppi perfettamente coerenti col solito mood della serie ed in particolare con quello delle prime stagioni, con la differenza che sarebbe stato difficile immaginare un episodio del genere prodotto e distribuito da Channel 4. Quello che l’entrata in gioco di Netflix ha provocato è stato un ampliamento delle prospettive della serie, allargando l’occhio cinico di Brooker per applicarlo ancora meglio al modo di pensare statunitense e quello globalizzato (che spesso coincidono); “Men Against Fire” è uno degli esempi più significativi di tale passaggio, in quanto studio di un apparato (quello militare) così radicato nella cultura americana da definirla perlomeno in parte. Il personaggio di Raiman non è altro che l’incarnazione di tale aspetto, del machismo per molti necessario a sentirsi forti e sicuri, del bisogno di impugnare un’arma e sottomettere qualcuno per soddisfare i propri istinti; dall’altra parte c’è Stripe, simbolo invece di quella parte più indecisa ma anche facile da convincere ad arruolarsi, di quella grandissima fetta della popolazione (ed in particolare di giovani) che si ritrova nel mezzo della violenza solo per il fatto di aver seguito ingenuamente delle vaghe promesse.

Ma c’è anche un altro interessante tema che emerge solo nella seconda metà dell’episodio: quello della depurazione, dell’ossessione per la costruzione dell’essere umano perfetto. La scoperta della natura dei nemici da eliminare è infatti qualcosa di estremamente destabilizzante, perché non si tratta di persone appartenenti ad un’altra cultura: in un mondo integrato la nuova minoranza sembra essere quella fetta di popolazione colpita da imperfezioni nel DNA; e quindi la propensione all’aggressione sessuale, la maggiore probabilità di contrarre tumori diventano fattori fondamentali a definire lo status di “estraneo” (o, come li chiamano loro, roaches, scarafaggi) che tanto viene detestato.
Si tratta di un particolare di fondamentale importanza perché svincola l’episodio dal solito e banale complottismo e trasforma l’azione dell’esercito in un dilemma morale di grandissima risonanza, oltre che nell’espressione di un parere comune apparentemente condiviso. In questo modo, la colpa non è solo dei “piani alti” che mettono in atto l’inganno ai danni dei roaches e dei soldati, ma della cultura di massa che ha incentivato e fatto crescere un tale bisogno, dell’evoluzione esponenziale del pensiero secondo cui è giusto far progredire solo gli individui che, per ragioni puramente genetiche, meritano di portare avanti il genere umano – ed ecco ancora che si ritorna al passato, all’eugenetica che tanto ha segnato la storia del Ventesimo secolo.

Se quindi il tema e gli sviluppi di “Men Against Fire” sono certamente all’altezza della profondità di Black Mirror, è la parte narrativa a soffrire di una certa debolezza. Quello che convince meno dell’episodio non è lo spessore degli argomenti affrontati o la loro capacità di generare un certo tipo di analisi, ma piuttosto le scelte in termini di racconto che imprimono sullo schermo i temi dell’episodio; e non si parla tanto della prevedibilità della svolta al centro della puntata (compensata dal grande significato che questa nasconde) quanto della stanchezza degli altri sviluppi, nessuno dei quali riesce a imporsi con decisione sullo spettatore.
Si tratta infatti di scelte troppo derivative, dalla famiglia “nemica” che accoglie il protagonista per essere brutalmente eliminata poco dopo alla rivalità con la compagna di squadra, fino ad arrivare ad un finale che sarebbe potuto essere d’impatto nella prima annata della serie, ma che a questo punto perde di potenza espressiva a causa dei legami troppo forti con gli altri episodi (il primo che viene in mente è di sicuro “Fifteen Million Merits”). È come se l’indiscussa qualità dei temi venisse in parte annacquata da un comparto narrativo meno ispirato e un po’ trascurato, contrariamente a quanto accade con successi indiscussi come il precedente “San Junipero”.

“Men Against Fire” è un episodio interessantissimo, il contenitore di idee e spunti per dibattiti che ci si aspetta avvicinandosi ad un episodio scritto da Charlie Brooker; rimane un po’ di amarezza, tuttavia, per un’esecuzione che non riesce a stare al passo con l’imponenza degli argomenti di cui si parla, trasformando un’ora di televisione potenzialmente grandiosa in un semplice racconto ben pensato.

Voto: 7½
Black Mirror – 3×06 Hated in the Nation
A ogni azione corrisponde una reazione. L’immediatezza dei social network e la leggerezza con cui spesso se ne fa uso amplificano questa tendenza mettendo in moto un turbine di reazioni a catena, che arrivano a produrre effetti anche devastanti. “Hated in the Nation” parte riflettendo su questo processo, per poi ampliarsi nell’analisi dei molteplici elementi che da ciò derivano.

Dopo “Nosedive”, anche quest’ultimo episodio si concentra sugli effetti di quell’impopolarità mediatica che ha il potere di rovinare un’esistenza, ma qui il discorso si stratifica, toccando molti altri fattori scatenati dall’asservimento tecnologico di una società. Inoltre, a rendere il tutto ancora più incisivo e inquietante, la storia si colloca in un contesto sociale estremamente vicino al nostro: “Hated in the Nation” è ambientato in una Londra non dissimile da quella odierna, con innovazioni tecnologiche facilmente immaginabili da qui a qualche decennio (o addirittura qualche anno).

Ed è proprio a causa di questo tipo di ambientazione che il racconto assume una veridicità tale da porci di fronte alle possibili derive del nostro presente con una potenza maggiore rispetto ad altri esperimenti del genere: quello che ci viene mostrato non è un futuro prossimo, ma le estreme conseguenze di un mood già radicato nel nostro oggi. Parte di quello che succede in “Hated in the Nation” è già successo, sicuramente in forma ridotta, ma con una frequenza che ci ha indotti spesso a chiederci: dove porterà tutto questo? Brooker ci dà una risposta, forse la più estrema, la più apocalittica, ma, purtroppo, ci propone uno scenario anche facilmente immaginabile. La forza di questo episodio sta proprio nel suo essere estremamente fantastico, ma allo stesso tempo aderente a un incubo che spesso abbiamo temuto (e temiamo) potesse diventare realtà.
Siamo ancora lontani dall’avere i nostri fiori impollinati da un Drone Insetto Autonomo, ma di certo viviamo in un’era in cui i tweet hanno il potere di ferire come spade e i governi nazionali utilizzano ogni mezzo a propria disposizione per controllare la popolazione a fini preventivi. Come fare a non chiedersi quando – e non se – questo meccanismo esploderà?

Jesus, I didn’t expect to find myself living in the future but here I fucking well am.

Questo senso di aderenza al reale è amplificato anche dalla fedeltà allo schema classico della crime story: i colori cupi delle stazioni di polizia, la linearità della storia che prosegue per balzi ascendenti, i personaggi appiattiti sullo sfondo sono elementi che ci riconducono al racconto poliziesco, un genere che al di là delle epoche e dei mezzi a disposizione segue sempre le stesse regole. Tuttavia questi stilemi non vengono usati solo come contorno alla storia, bensì sfruttati per ampliare la potenza del messaggio: raccontare le vittime dell’odio mediatico attraverso la prospettiva neutra dei detective permette di concentrare lo spettro d’indagine sul fenomeno in sé anziché su un singolo caso, in modo da porre l’accento sulla portata apocalittica del susseguirsi di eventi, uno dietro l’altro, uno sull’altro. Non è l’analisi dei sentimenti di chi accusa e di chi punisce che interessa a Brooker; quello che ci vuol far notare è invece come l’odio abbia la capacità di moltiplicarsi in maniera inarrestabile, anche quando il sospetto che un semplice hashtag possa portare davvero alla morte diventa sempre più concreto.

Anche il classico stilema del confronto a due, tipico del racconto investigativo, viene qui utilizzato per mettere a paragone due diversi modi d’interagire con il sostrato ‘social’ che invade la società odierna. Tra Karin e Blue non c’è solo uno scontro generazionale, ma un vero e proprio divario nel modo di approcciarsi al mondo che le circonda. Se l’una si ritrova in un futuro che avrebbe volentieri evitato di vivere, l’altra scappa da uno schermo che ha più volte visto come fucina di nefandezze. Così distanti all’inizio, finiscono per incontrarsi nel dolore della sconfitta, della perdita, una sofferenza che Blue non può sopportare tacitamente. La giovane detective era passata dall’informatica forense al lavoro sul campo per provare a prevenire quegli orrendi delitti con cui si era confrontata, ma alla fine capisce che per dare un apporto davvero incisivo deve annullarsi nel flusso e andare completamente fuori dalle regole. Finto il suicidio, darà la caccia a Garrett e, molto probabilmente, a chi verrà dopo di lui, perché per annientare qualcuno che agisce nell’invisibilità occorre diventare altrettanto invisibili.

I was just using my freedom of speech.

Quanti danni ha fatto e continua a fare l’uso spropositato della frase “esercito solo la mia libertà di parola e d’espressione”? La prima parte dell’episodio è tutta concentrata nel mostrare quanta leggerezza si nasconda dietro la rivendicazione di un diritto che, per il semplice fatto di essere usato a sproposito, perde gradualmente la sua consistenza. La facilità con cui si emettono sentenze e giudizi, valutando situazioni ed espressioni con pressapochismo, assume dimensioni tali da sfiorare parallelismi con i periodi più bui della storia del mondo. Quando la gente comincia a percepire che l’hashtag potrebbe anche non essere un semplice gioco, il fiume di opinioni contrastanti si gonfia ancora più di odio: se c’è chi si lascia prendere dal terrore, ce ne sono molti altri che si ergono piacevolmente a giudici supremi, quasi contenti di essere investiti della facoltà di scegliere chi deve morire. Il cancelliere balza al primo posto, incarnando tragicamente una delle piaghe di tutte le ere di depressione economica, ovvero cercare il capro espiatorio dei propri mali unicamente nell’attività della classe politica al governo, di qualsiasi bandiera o colore. Nella foga con cui ‘i colpevoli’ vengono mandati al patibolo vediamo infrangersi il concetto di giustizia, creando una macabra coincidenza tra l’avanzare del progresso tecnologico e l’arretrarsi degli schemi mentali dell’individuo.

#DeathTo

Ma anche quando tutto era semplicemente un gioco di hashtag, l’ansia di indignazione, il bisogno di prendere parte a un dibattito contro qualcuno che ha commesso un errore, condannandolo senza remore, mostravano uno scenario in cui la limpidezza o nefandezza di una persona erano solo ed esclusivamente legati a ciò che fa parte del dibattito pubblico. Sparisce la tendenza alla contestualizzazione e ogni cosa viene osservata solo attraverso la luce di uno schermo, senza mai volgere lo sguardo verso l’altro lato della medaglia. In questo, “Hated in the Nation” instaura un parallelismo con “Nosedive”, mostrandoci come per rovinare un’esistenza non sia necessario giungere alla distopica realtà in cui la vita dipende dalla valutazione tramite stelline di gradimento, ma basti una semplice valanga di tweet. L’errore diventa una colpa, un peccato mortale che distrugge completamente la dignità e la libertà di chi lo compie, evidenziando come la libertà di pensiero sia sempre e solo accettata in termini di conformismo e a volte anche di buonismo. Per chi sbaglia non c’è nessuna possibilità di redenzione, non esiste il concetto di ‘perdono’, non vi è possibilità di riconoscere i propri errori e di potersene scusare: l’errore resterà, come una lettera scarlatta sul petto. Anche perché chi giudica non pensa mai alle conseguenze del proprio giudizio. Ammonisce chi sbaglia invitandolo a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, ma non si ferma mai a pensare alle conseguenze del proprio giudizio; ed è per questo che Garrett crea The Game of the Consequences, non per punire i colpevoli, ma per costringere i ‘giudici’ a prendersi le proprie responsabilità.

The Game of Consequences

Ciò che inizialmente era parso come l’atto di un giustiziere supremo, sul finire dell’episodio si muta in qualcosa di ancora più orribile, oltre che più complesso e stratificato: la vera apocalisse non è nel punire chi sbaglia, ma nell’estrema rivendicazione del diritto all’errore. A complicare il tutto è il mezzo utilizzato da Garrett per la sua opera di ammonimento generale: i DIA, ovvero un dispositivo creato dall’uomo per ‘duplicare’ la natura e controllato dal governo per spiare i cittadini a scopo preventivo.
L’azione di Garrett rappresenta inoltre l’estrema evoluzione di un’altra tragica pratica che fa parte del passato del mondo: la radicalizzazione dei buoni propositi. Dal più grande esperimento fallito della Storia, ovvero il comunismo, passando per le brigate rosse o per il movimento no-global, il nostro passato è zeppo di momenti tragici in cui le rivendicazioni di un diritto si sono frantumate nell’estremismo. L’odio di Garrett è lo stesso odio che percorre ogni era, ma la semplicità con cui riesce a portare a termine il suo obiettivo senza sporcarsi le mani induce l’inquietante dubbio che l’evoluzione del mondo non sia altro che un mezzo per perpetrare ancora più agilmente i più biechi comportamenti del passato dell’uomo.

Well, that’s great, save the planet, hallelujah!

Il gesto compiuto da Garrett è già di per sé spaventoso, ma lo è ancora di più la facilità con cui è riuscito a portarlo a termine. Al di là delle implicazioni morali che hanno generato la fiumana di sangue, al di là del discorso sulla libertà d’opinione, sulle sue conseguenze, sull’odio, ciò che rende il tutto ancora più disturbante è la riflessione sulla proliferazione di quei mezzi che hanno permesso la realizzazione del tutto in maniera così diretta e lineare.
Se le api si estinguessero davvero, fino a che punto l’uomo potrebbe intervenire sulla natura creando un drone autonomo capace di impollinare i fiori? E i governi sono davvero interessati all’impatto ambientale o finanzieranno esperimenti del genere solo se riescono a trovarvi un tornaconto? Spiare la popolazione è veramente l’unico modo per proteggerla? Ogni volta che il progresso si spinge oltre l’immaginabile si valutano a dovere gli effetti collaterali, oppure in nome dell’evoluzione occorre accettare anche le più atroci conseguenze?
Non è facile rispondere a queste domande, così come non è facile accostarsi a questo episodio non pensando agli ultimi eventi della nostra contemporaneità, in cui l’odio da tastiera ha fatto più e più vittime. La forza maggiore della puntata sta proprio in questa eco pesante che lancia sul nostro presente, ancora senza DIA ma pieno di odio e di giudici da touch screen.
“Hated in the Nation” chiude perfettamente questa terza stagione fungendo quasi da summa di tutti quegli elementi cardine dello show, sia nelle annate precedenti che, soprattutto, in quest’ultima.

Questa è stata una stagione un po’ anomala per Black Mirror: a parte “Nosedive” con le sue distopiche estremizzazione di like e selfie, e racconti vicini in modo inquietante al nostro presente, come questo “Hated in the Nation” e “Shut Up and Dance”, ci sono state sperimentazione di genere (come l’esplorazione dell’horror in “Playtest”), incursioni nel ribaltamento (pseudo) positivo del potere della tecnologia, come nella splendida “San Junipero” – forse miglior episodio della stagione –, ed esperimenti sull’annoso dilemma morale della guerra (“Men Against Fire”). Come al solito, i molteplici argomenti proposti presentano un alto grado di approfondimento, a cui si associa una sempre ottima scrittura e messa in scena; tuttavia qua e là si riscontrano alcune imperfezioni di base, che, pur non inficiandone la qualità, rendono alcuni episodi esperimenti meno riusciti di altri. Nonostante ciò, è proprio nelle puntate più anomale e in quelle ‘imperfette’ che si intravede un nuovo corso della serie, che ci appare ancora in gran forma e pronta a rinnovarsi e a esplorare nuovi meandri dell’evoluzione dell’uomo al cospetto di quell’inarrestabile sviluppo tecnologico che lo accompagna, lo sovrasta, lo annienta o lo accarezza.

Voto episodio: 8½
Voto Stagione: 8
Black Mirror – 4×01 USS Callister
La passata stagione di Black Mirror, nonostante gli inciampi e alcune imperfezioni di base, aveva dato prova di saper utilizzare il materiale di partenza declinandolo in generi diversi, spaziando dall’horror di “Playtest” ad un episodio di difficile inquadramento come “San Junipero“. Dopo due annate impostate su schemi fissi e sorrette dall’immaginazione e dalle turbe di Charlie Brooker, l’escursione su terreni inesplorati aveva dato nuova linfa ed incisività al progetto. Era quindi con atteggiamento curioso e fiducioso che si approcciava la visione di uno show che, durante i settantacinque minuti di “USS Callister”, ha dimostrato di non avere esaurito le sue carte.

Exploring the furthest reaches of the known universe and beyond.

Nell’agosto 2016, in un clima di trepida attesa, è stato messo in vendita No Man’s Sky, un videogioco di ambientazione fantascientifica potenzialmente rivoluzionario. La novità del prodotto consisteva nel mettere a disposizione dei giocatori un universo sterminato generato proceduralmente, lasciando agli utenti l’assoluta libertà di esplorarlo e definire le modalità di gioco, liberi da qualsiasi vincolo di storyline. Infinity, il multiplayer protagonista dell’episodio, condivide molte caratteristiche con No Man’s Sky, rendendo ancora più inquietante l’affinità tra il mondo raccontato dallo show e l’universo reale: “Uss Callister” tratteggia un futuro possibile, le cui radici sono profondamente intrecciate con il presente.

Am I dreaming?

L’evidente estetica fantascientifica (in particolare Star Trek) aveva dato vita a numerosi interrogativi al momento della messa a disposizione dei trailer. Il nuovo corso e l’impronta di Netflix avevano già dimostrato di saper sperimentare, discostandosi almeno in parte dalla natura puramente distopica dello show. Nonostante ciò risultava difficile conciliare i costumi di un cast che sembrava di ritorno da una convention su Star Trek e l’essenza tragica e pessimistica di Black Mirror.
Il risultato finale, per quanto non brillante a livello creativo – sono evidenti una serie di scelte opinabili nello svolgimento del plot su cui ritorneremo – , è soddisfacente. A partire dalle ottime interpretazioni di Jesse Plemons (Breaking Bad, Fargo), Michaela Coel (Chewing Gum), Jimmy Simpson (Westworld) e soprattutto Cristin Milioti (How I Met Your Mother, Fargo), “USS Callister” traspone su schermo una delle risposte possibili ad un’importante domanda del nostro presente: è possibile tracciare una linea di confine definita tra il videogioco e il cosiddetto “mondo reale”?

Al di là di questioni su cui Charlie Brooker fornisce il suo personale punto di vista, il primo episodio di Black Mirror si schiude portando alla luce temi attuali di particolare rilevanza.
Subito dopo una sequenza introduttiva in bassa qualità atta soprattutto a strizzare l’occhio ai fan più entusiasti della fantascienza televisiva, il racconto vero e proprio sembra seguire i binari di una narrazione classica e leggermente stereotipata: un uomo sottostimato ma di intelligenza visionaria si imbatte in una donna che ne apprezza la genialità e sembra in grado di andare oltre le apparenze. L’andamento tipico della commedia romantico-natalizia subisce un brusco contraccolpo nel momento in cui viene resa evidente la vera natura di Robert Daley: in contrasto con lo stilema Disney de Il Gobbo di Notre Dame e La Bella e la Bestia, ad una pessima impressione non corrisponde un animo buono e generoso ma un’altrettanto pessima interiorità.

Stealing my pussy is a red fucking line.

Infinity diventa quindi la valvola di sfogo del personaggio interpretato da Jesse Plemons, un universo di sua proprietà in cui è un “asshole god”. Al piano di lettura tecnologico e sociale si aggiunge una chiave più emotiva e personale; Infinity è l’antidoto all’oceano di solitudine e disprezzo in cui sguazza Daley, un luogo in cui può obbligare gli altri ad apprezzarlo attraverso il suo potere.
Scritta ben prima del caso Weinstein “USS Callister” gode di una “fortunata” coincidenza temporale: è impossibile non notare il parallelismo raccontato dall’episodio tra lo scandalo che ha coinvolto Hollywood, lo show business e non solo, e il malsano esercizio della supremazia e dell’autorità frutto di una concezione errata della mascolinità.
Oltre la retorica sui rischi della tecnologia, viene spontaneo interrogarsi sul rapporto con la realtà virtuale, anche quella declinata ludicamente. Non siamo neppure vicini alla clonazione digitale ma la possibilità di creare avatar somiglianti a sé stessi e, più in generale, di inserire particolari del nostro mondo in un universo fittizio rende necessario porsi delle domande sulle motivazioni alla base della passione per i videogiochi: è un modo di esercitare il potere? È un’alternativa ad una realtà su cui non abbiamo controllo? O è semplice svago?

You gotta believe me.

Nonostante una durata di settantacinque minuti un importante difetto di “USS Callister” è la difficoltà nel tirare le fila in prossimità della conclusione: dopo aver introdotto una serie di spunti dalle interessanti implicazioni scientifico-filosofiche – universi che contengono altri universi, rappresentazione della mente a partire da stringhe di codice – ne rifiuta ogni ulteriore ampliamento concentrandosi su una svelta risoluzione dell’intreccio. La regia, firmata da Toby Haynes (già visto alle prese con Doctor Who), dimostra una certa confidenza con il materiale fantascientifico di partenza ma rimane contagiata dalla fretta finale dando origine ad alcuni buchi di trama (come era possibile che Nanette non si fosse accorta di non avere più i genitali? Che fine hanno fatto i cloni in forma di mostro che Daley aveva disseminato sui vari pianeti dell’universo? Sono semplicemente morti senza neppure essere menzionati?).

Per concludere Black Mirror confeziona un episodio in cui convivono parti ben riuscite, come l’impronta parodica sul materiale fantascientifico, l’agilità nel gestire le scene comiche e un’idea di partenza fertile e coesa, e momenti più zoppicanti soprattutto a livello narrativo e di trattazione dei temi introdotti. Allo stesso tempo lo show dimostra ancora una volta di sapersi reinventare e di poter esistere anche al di là di un’estetica fosca e inquietante; non faccia ingannare l’apparente risoluzione positiva: è vero, il villain è sconfitto, probabilmente morto, e i protagonisti sono vivi e liberi, ma sono pur sempre intrappolati in un videogioco.

Voto: 7
Black Mirror – 4×02 Arkangel
Come ormai tutti sanno, il focus principale di Black Mirror è sempre stato il legame tra essere umano e tecnologia, declinato e analizzato nelle sue diverse forme: in particolare, quello che nelle prime due stagioni interessava i racconti di Charlie Brooker era il ruolo del progresso come amplificatore o conseguenza di caratteri di natura intimista e personale. Semplificando molto, un oggetto tecnologico non è pericoloso in sé, ma solo nel momento in cui viene creato e/o utilizzato da un essere umano per assecondare desideri in genere molto rischiosi.

Soprattutto agli inizi, questo discorso è sempre rimasto interessante grazie alla sua capacità di esplorare il legame stesso che sussiste tra le due cose: c’era un vizio o un elemento umano di fondo e un dispositivo che lo metteva drasticamente a nudo, ma la parte più interessante stava proprio in come questa messa a nudo avveniva. Si creava così una sorta di equilibrio, che riusciva a bilanciare l’elemento personale di storie spesso ammiccanti a strutture ben note e quello della riflessione sul progresso e i rischi (o, in qualche raro caso, i benefici) che ne derivano; era fondamentale, soprattutto, la coesione del quadro generale, che riusciva a valorizzare entrambe le dimensioni senza sbilanciarsi troppo verso un lato o l’altro.
Questo tipo di struttura è stato ripreso nei migliori episodi della scorsa stagione (“Nosedive” e “San Junipero”) ma volontariamente abbandonato in altri, scegliendo di concentrarsi sul racconto umano in sé e lasciando l’elemento tecnologico a rivestire un ruolo quasi marginale nella storia (si pensi a “Hated in the Nation” o “Shut Up and Dance”). “Arkangel” è radicalmente diverso da questi ultimi, in quanto l’obiettivo è chiaramente quello di creare un episodio sul modello delle prime stagioni, in cui la tecnologia torna ad assumere un ruolo essenziale: manca, tuttavia, quel fondamentale elemento di coesione di cui si parlava prima, e la qualità del racconto ne risente sensibilmente.

Come accaduto in precedenza, la puntata si rifà, nella struttura, ad un modello pre-stabilito, ovvero quello del coming of age movie lievemente riadattato per l’occasione. Jodie Foster gira “Arkangel” come se fosse un film indipendente, in accordo con la sceneggiatura di Charlie Brooker che ne ripercorre i passi principali (l’orizzonte temporale molto ampio, le prime esperienze sessuali e non della protagonista, il rapporto con la madre) aggiungendo però il tocco distintivo della serie. In questo caso, si parla del dispositivo che permette alla madre di sorvegliare la figlia ed idealmente proteggerla da situazioni potenzialmente sconvolgenti o pericolose: è un chiaro canale per studiare l’ossessione del genitore verso il figlio, l’incapacità di accettare il valore formativo di alcune esperienze drastiche e a prima vista evitabili.
Il messaggio di fondo non è particolarmente illuminante, ma nella prima parte funziona piuttosto bene: la caratterizzazione della figlia rimane comunque subordinata alla dimensione della madre, la cui mania di controllo è efficacemente veicolata dall’utilizzo del dispositivo Arkangel. La madre è la protagonista della prima parte, e si crea una potenzialmente interessante riflessione sulla necessità di venire a patti con la crescita e l’allontanamento della figlia: come si diceva, il racconto mima una costruzione già vista, ma parla dell’argomento attraverso uno strumento che ne scopre delle nuove sfumature.

La seconda metà è quella che scopre i difetti dell’episodio: l’attenzione si sposta prevalentemente sull’evoluzione della figlia, ma la madre rimane il personaggio in cui identificarsi per la riflessione sulla tecnologia. Si creano quindi due dimensioni poco equilibrate, che cozzano costantemente tra di loro: da un lato c’è la crescita della figlia, gestita un po’ troppo scolasticamente secondo i topoi da film indie a cui si ispira; dall’altro veniamo saltuariamente rimandati all’ossessione per il controllo della madre, che, non ricevendo l’attenzione necessaria, fatica a far evolvere il tema dell’episodio. Il discorso sulle varie implicazioni del dispositivo si ferma, e la seconda parte sviluppa senza particolari guizzi la storia lanciata dalla prima: la conclusione rimane quindi scontata e un po’ forzata, soprattutto se si considera il grandissimo potenziale mai sfruttato che a tratti punteggia l’episodio.

In particolare, è un peccato che tutta la questione del parenting control venga appena accennata e solo in alcune situazioni isolate: oltre ad offrire spunti paradossalmente più interessanti del tema principale del racconto, il discorso sulla “censura” degli eccessi del mondo esterno si lega estremamente bene con il racconto di formazione di Sara. È per questo che, forse, un episodio maggiormente incentrato su tale aspetto avrebbe costruito un quadro più coerente, se si considera che lo sviluppo della violenza repressa della ragazza passa troppo spesso in sordina, per riemergere troppo bruscamente sul finale; sequenze come quella della prima esperienza sessuale, o dell’infarto del nonno, sono incredibilmente efficaci nel costruire una profondità del personaggio legata a doppio filo col tema portante della serie, ma non sono abbastanza. Sara viene segnata da questi frangenti occasionali, ma nel complesso continua a seguire il percorso “standard” verso cui la struttura narrativa del genere scelto la indirizza; anche la questione del controllo costante non influenza il personaggio se non alla fine della storia, quando la figlia viene messa a conoscenza dell’accaduto. Il climax finale che porta al rigetto della madre è potente, ma, come si diceva, l’influenza del parenting control sulle tendenze violente di Sara non è analizzata abbastanza durante il racconto per rendere l’esplosione violenta della teenager coerente con la sua evoluzione.

In sostanza, “Arkangel” soffre di un problema di equilibrio: è un episodio che a tratti assume i contorni del racconto di formazione di ampio respiro, mentre in altri momenti ci riporta nel pessimismo e nel fatalismo che caratterizzano la scrittura di Charlie Brooker, passando da un registro all’altro senza intrecciare in maniera coesa le due dimensioni. Il risultato è una puntata dagli spunti e dalle idee molto interessanti, costellata da ottime performance e un ritmo ben gestito, ma che perde nel quadro generale, riuscendo a sviluppare un racconto riuscito nel suo ritorno alle origini della serie solo per metà.

Voto: 6½
Black Mirror – 4×03 Crocodile
Memorie. Questo è il fulcro del terzo episodio della quarta stagione di Black Mirror, nel quale le memorie – visive, olfattive, sensoriali – svolgono un ruolo di primo piano e portano la protagonista (Andrea Riseborough) a superare quella sottile linea di demarcazione che separa il bene dal male.

Negli anni sessanta Paul McLean sviluppò la teoria del “triune brain” nell’ambito dello studio del funzionamento del cervello umano. Una delle tre parti in cui lo divise, il “reptilian brain”, si occupa di controllare le nostre funzioni vitali primarie: temperatura corporea, battito cardiaco, respirazione, insomma garantisce la sopravvivenza dell’organismo. Il nome così caratteristico è legato proprio al mondo dei rettili che fanno uso principalmente di questa zona del cervello – sempre secondo McLean. Ecco spiegato il collegamento tra il coccodrillo del titolo e Mia Nolan, la protagonista di questo episodio: esattamente come un rettile la donna si trova di fronte a scelte critiche che la portano a decidere sempre per l’autoconservazione e la protezione della sua persona e del suo status sociale. Si innesca nel suo cervello un istinto naturale a difendere se stessa e la vita familiare, seppellendo nel passato il senso di colpa prima per la morte accidentale di un ciclista, poi per l’uccisione dolosa di Rob, che invece avrebbe voluto uscire allo scoperto sugli avvenimenti terribili di cui è stato concorrente.

Come un personaggio coeniano, Mia viene travolta e trascinata dagli eventi fino a superare – come già detto – un confine etico fondamentale, quello dell’omicidio volontario. L’escalation a cui la donna va incontro è molto chiara: se la prima morte è stata un incidente, la seconda un riflesso istintivo, la terza e soprattutto la quarta sono state del tutto premeditate e consapevolmente architettate. Nell’arco dell’episodio il personaggio di Andrea Riseborough, quindi, non solo cede all’impulso maligno che porta ad uccidere qualcuno per garantirsi la sopravvivenza ma, conscia di essere ormai ben oltre la possibilità di tornare sui suoi passi, abbraccia la sua nuova condizione e decide di concludere l’opera, andando alla ricerca di tutti coloro che possono in qualche modo metterla ancora in pericolo e destabilizzare la sua vita. Esemplare, infatti, che l’ultimo limite etico in termini di gravità venga oltrepassato con l’uccisione di un bambino – che non poteva sapere fosse cieco, quindi dal suo punto di vista un possibile testimone oculare.

La voglia di non perdere quello che ha la porta così al grande passo, ma ecco che si palesa uno dei più grandi difetti dell’episodio. Manca, infatti, un serio approfondimento sul personaggio di Mia che possa sorreggere questo snodo fondamentale: non è sufficiente il pochissimo tempo dedicato alla famiglia o alle sue abitudini lavorative e quotidiane per rendere del tutto credibile il passaggio emotivo su cui si basa l’intera storia, pur potendo contare su una buona interpretazione da parte dell’attrice. Se questo lo uniamo a una sceneggiatura perlopiù prevedibile e non originalissima ma soprattutto – e questo è quello che si potrebbe recriminare di più all’episodio – poco coraggiosa si ottiene un quadro imperfetto rispetto a quello che Black Mirror è sempre stato. La mancanza di osare è palese nell’evitare di mostrare alcune scene considerate forse troppo disturbanti, il che è sicuramente condivisibile per quanto riguarda l’omicidio off-screen del figlio di Shazia – anche perché utile a far crescere dubbi e creare suspance per il colpo di scena successivo – un po’ meno per quanto riguarda quello di quest’ultima, visto e considerato che la morte del marito è invece uno dei momenti visivamente più elaborati dell’episodio. Mostrare integralmente la morte dell’agente assicurativo, per esempio, sarebbe potuto essere un elemento in più per empatizzare con un personaggio che, in fin dei conti, risulta puramente strumentale; così come la sua co-protagonista, anche Shazia rimane poco sfruttata ed utilizzata unicamente come mezzo narrativo per portare Mia da un punto A ad un punto B.

Black Mirror non è mai stata una serie puramente fantascientifica; sappiamo bene come Brooker abbia più a cuore la critica al nostro presente – che nello show si palesa come un futuro molto prossimo – piuttosto che il desiderio di tentare le vie di un genere molto complesso da approcciare. La fantascienza presente negli episodi dello show, infatti, solitamente è strettamente funzionale a mettere l’essere umano e la sua natura di fronte a nodi gordiani e dilemmi etici dagli esiti imprevedibili. “Crocodile” ha il problema di essere carente anche da questo punto di vista, presentando un universo nel quale, attraverso un macchinario, sia le forze dell’ordine che gli enti privati (tipo le compagnie assicurative) possono riportare a galla i ricordi sopiti delle persone ed esplorarli per ottenere informazioni. Se tutto questo potrebbe ricordare vagamente l’episodio della prima stagione “The Entire History Of You” – l’unico di tutta la serie in cui la mano di Brooker è completamente assente – è perché a livello di tematiche sono affini, sebbene le circostanze e il metodo con cui i ricordi sono rievocati è diverso. L’espediente che serve per far uscire gli scheletri dall’armadio di Mia non è altro che questo, un pretesto narrativo che sa di già visto e lascia perlopiù indifferenti, se non delusi. In questo senso anche il plot twist finale – attraverso i ricordi del porcellino d’India riescono ad incastrarla – non colpisce come dovrebbe; gli autori sembra vogliano lasciarci con un messaggio fin troppo semplicistico: per quanto tenti di fuggire dal passato in qualche modo ti presenta sempre il conto. È quello che succede alla protagonista che, sicura di aver eliminato ogni testimone oculare, prova a godersi lo spettacolo del figlio, ignara di essere stata scoperta.

In definitiva non ci troviamo di certo di fronte al miglior Charlie Brooker, sebbene non si possa non confermare il fascino e l’attrattiva che anche un episodio un po’ più debole di Black Mirror riesce comunque ad esercitare in chi lo guarda grazie alle location suggestive – siamo in Islanda stavolta – e al comparto tecnico sempre di ottimo livello. “Crocodile” ha tanti difetti e qualche pregio, non è eccellente ma se considerato nell’insieme della stagione e paragonato alla scorsa è perfettamente in linea con il livello medio di questa nuova era “americana” dello show.

Voto: 6½

Curiosità:
– In origine Brooker aveva previsto un protagonista maschile per l’episodio ma, su suggerimento di Andrea Riseborough, ha riscritto la parte per lei.
Black Mirror – 4×04 Hang the DJ
Se un programma avanzato potesse, attraverso i nostri pensieri, le nostre reazioni e soprattutto le nostre esperienze, determinare il partner ideale con cui spendere il resto delle nostre vite, dando una scadenza precisa alle relazioni intermedie che non lasceranno reale traccia, che uso ne faremmo?

È da un assunto del genere che parte Charlie Brooker nella scrittura di questo quarto episodio. In un mondo che non viene mai descritto se non per vaghi accenni – ma che si può spiegare solo in virtù della rivelazione finale –, un programma senza nome determina le relazioni sentimentali a cui si sottopongono uomini e donne alla ricerca dell’anima gemella. Guardato dall’esterno, il programma non fa altro che meccanicizzare quello che accade nelle nostre vite continuamente: ci diamo a relazioni di maggiore o minore durata, impariamo noi stessi e la vita di coppia attraverso l’esperienza accumulata (con le dovute differenze tra coloro che hanno bisogno di più storie a breve termine e quelli che invece si muovono attraverso relazioni di lunga durata).

Questo programma non fa altro che simulare una normale evoluzione sentimentale, restringendo tutto nelle strette maglie della programmazione e togliendo, così, quella spontaneità – più o meno reale – che risulta essere la chiave di volta nel ritrovamento della vera storia d’amore. Eccoci dunque a questo “Hang the DJ” che riporta in campo, per la seconda volta, un lato diverso di Black Mirror: se, infatti, la serie è conosciuta per il suo sguardo distopico ed impietoso sugli influssi che la tecnologia può avere sulle nostre vite e sui mille modi in cui può decisamente peggiorarla, questo quarto episodio ci conduce in un mondo sì freddo e preoccupante, ma in cui è comunque ancora possibile trovare una scintilla di ottimismo. D’altronde, non è un caso che questo episodio richiami alla memoria il quarto della stagione precedente, quel “San Junipero” che per primo, e con grande successo, aveva introdotto questa novità nella serie. Brooker conferma la volontà di creare almeno un episodio in cui il futuro, per quanto spaventoso, non sia in grado di spezzare l’essere umano finché esso sa tenersi con decisione ai sentimenti più forti che gli pertengono, primo fra tutti quello dell’amore.

C’è un tentativo di imbrigliare l’amore, d’altronde, al centro di questo “Hang the DJ”, ossia la presunzione di poter trovare il partner perfetto attraverso una serie di tentativi perfettamente organizzati in spazi, tempi, modi. Il Sistema fa quello che programmi come Tinder e simili hanno la presunzione di essere già in grado di fare, ossia calcolare attraverso complessi algoritmi la compatibilità tra due persone, eliminando – o, di nuovo, pretendendo di eliminare – il fattore indeterminabile della personale reazione umana. Ecco, dunque, che se ad ogni relazione viene attribuita una data di scadenza allora non ci sarà più bisogno di viverla davvero fino in fondo, con le surreali scene di due persone che, dopo un anno di relazione, positiva o negativa che sia stata, si salutano come se il tempo non fosse servito che ad un esperimento sociale.

È chiaro che questo episodio può reggersi in piedi solo se i protagonisti riescono a realizzare una relazione sentimentale che sappia sfidare questi elementi: la storia di Amy e Frank funziona perché la sceneggiatura funziona, perché riesce a costruire efficacemente un doppio specchio in cui mostrare il lento ma inevitabile innamoramento di due persone che si ritrovano indiscutibilmente attratti l’uno dall’altra. E questo può accadere perché Georgina Campbell e Joe Cole hanno tra loro una chimica pazzesca che riesce a trasparire in ogni scena insieme. Questa loro forza fa sì che la serie non abbia bisogno di nessun altro tipo di comprimario e gli attori secondari scompaiono in pochi attimi davanti alla loro interpretazione. L’epilogo finale, poi, che vede la ribellione al programma come sommo emblema del loro amore e di conseguenza la chiave per sovvertire il sistema stesso non poteva che essere il perfetto compimento di questo percorso.

Ciò che in parte manca all’episodio, e che però viene quantomeno chiarito dal suo finale, è una mitologia densa che possa far comprendere come sia possibile che questi personaggi non abbiano pensato di ribellarsi prima al sistema degli scambi di coppia. Solo in virtù del finale una certa fumosità nella composizione dell’insieme si scioglie e permette di godere appieno delle vicende narrate; oltre le storie sentimentali dei personaggi non c’è vita. Eppure, questo rende molto difficile una totale adesione alle loro vicende perché troppo spesso si ha la percezione che qualcosa costantemente manchi: insomma, siamo di fronte ad un episodio che richiede necessariamente una seconda visione, questa volta più “rilassata”, per essere goduto appieno. Perché questo episodio, a differenza di molti altri della serie, non ha la pretesa di parlare davvero del futuro: non vuole spaventare o mettere in guardia lo spettatore sui pericoli di una meccanicizzazione delle relazioni sentimentali, dal momento che alla fine si è trattato solo di una simulazione atta a far funzionare un programma di incontri; a dirla tutta, la puntata sembra chiudersi con una nota positiva nei confronti della tecnologia, come a dire che programmi di questa risma possono esistere ed il “vero” incontro finale tra Amy e Frank è dettato dalla certezza algoritmica che i due insieme funzioneranno.

La regia in forma, la scrittura ispirata e la recitazione perfetta rendono dunque questo episodio davvero godibile soprattutto nei suoi aspetti più commoventi, capace di coinvolgere in prima istanza lo spettatore che vorrà lasciarsi andare al flusso delle emozioni. Si tratta di una pausa a metà stagione, come già accaduto lo scorso anno, dal turbinio di distopica angoscia che Black Mirror ha sempre saputo creare (sebbene con meno violenza che in passato). E dunque questo episodio porta avanti con successo la quarta stagione di Black Mirror con la consapevolezza che, almeno per un attimo, possiamo continuare a sperare per il futuro.

Voto: 7½
Black Mirror – 4×05 Metalhead
Per quanto il formato antologico, tanto caro alla televisione britannica, si stia facendo sempre più spazio nel panorama televisivo d’oltreoceano dando vita a prodotti interessantissimi (pensiamo, ad esempio, al recente Room 104 o ai lavori di Ryan Murphy), bisogna riconoscere che portare una serie come Black Mirror ad una quarta stagione non deve essere facile. Charlie Brooker ha, finora, saputo reinventarsi (con risultati più o meno condivisi ma sempre e comunque al centro dell’attenzione di pubblico e critica) spaziando fra le diverse inflessioni di genere e fra gli interrogativi posti dal racconto fantascientifico.
D’altro canto, questo tipo di formato è anche ciò che ha fatto la forza di Black Mirror, conferendo alla scrittura un’invidiabile libertà di sperimentazione per il semplice fatto che qualsiasi nuova direzione si voglia intraprendere verrebbe, alla peggio, circoscritta ad un singolo episodio.

Con “Metalhead” ci troviamo, in effetti, di fronte ad un episodio del tutto particolare, coraggioso, di quelli che tendono a dividere il pubblico in due fazioni opposte. Lo è per diversi motivi, prima di tutto per un ritorno ad un cast e ad una regia completamente britannici (sceneggiato dallo stesso Brooker, il regista è David Slade, e l’attrice protagonista Maxine Peake) che fanno tornare alla memoria i toni delle prime due stagioni. In secondo luogo, per alcune scelte tematiche e stilistiche, quali l’uso del bianco e nero, lo scenario post-apocalittico che si accompagna ad una riduzione all’osso di dialoghi, personaggi, trama e backstory.
L’episodio potrebbe ricordare il “White Bear” della seconda stagione per l’impostazione minimale dove la sensazione di angoscia è creata dallo stato di fuga costante della sola protagonista femminile. La puntata sfruttava uno schema tanto caro a Brooker che introduceva lo spettatore in medias res senza dargli, da subito, gli elementi necessari a comprendere il contesto, aumentando così confusione e possibilità di fraintendimento, facendo scoprire la verità all’avanzare dell’episodio fino all’agnizione finale. In questo caso, però, il finale dell’episodio non ci fa sapere molto più di quello che abbiamo intuito fin dall’inizio sul mondo dove Bella vive o sulle ragioni che l’hanno spinta a partecipare alla spedizione. Questo perché l’intento di “Metalhead” è chiaramente un altro: la riduzione all’essenziale degli aspetti legati a scenografia e sceneggiatura permette di concentrarsi meglio su questioni di stile e di genere.

La scorsa stagione aveva rappresentato la prima parte della “fase americana” di Black Mirror ed aveva palesato l’intenzione della serie di ampliare il discorso fantascientifico anche sul piano metanarrativo proponendo un’interessante riflessione sui generi cinematografico-televisivi filtrati dalla forma di distonia tipica della serie. “Metalhead” è, in questo senso, un modo di rendere omaggio al cinema di fantascienza e dell’orrore più tradizionale e alle sue tecniche narrative e rappresentative e, quindi, ad una modalità specifica e datata di raccontare e di sentire l’orrore. Possiamo dire, in questo senso, che l’episodio trova il modo di riflettere stilisticamente sul passato. L’uso del bianco e nero, le situazioni estremamente chiare, l’impiego dell’effetto sonoro ad accompagnare o a sottolineare il momento visivo di tensione, il ralenti: Booker e Slade riprendono esplicitamente e rielaborano i maestri del racconto cinematografico di fantascienza e dell’orrore classico.

Quello a cui assistiamo è pura azione e la paura, la tensione, l’angoscia sono prodotte in modo puramente “situazionale”, esterno, pratico. L’aspetto, forse, più interessante di quest’operazione è il fatto che al centro della rappresentazione si trovi quella paura viscerale e semplicissima verso “il robot”, verso il tecnologico con così tanta cura problematizzata e sfaccettata nel corso di tutta l’antologia di Black Mirror. Quasi come se lo scenario post-apocalittico avesse spazzato via anche tutto il processo di integrazione e assimilazione del tecnologico da parte dell’umano, “Metalhead” riporta la tecnologia al suo ruolo primigenio di “Altro”, di nemico, di macchina da fuggire e/o distruggere. Ri-creando un “cattivo” che non ha psicologia, non ha obiettivi, non ha risentimenti, una fredda macchina programmata per uccidere l’umano, l’episodio rievoca al contempo la rappresentazione della più grande distanza fra macchine e uomo, restituendo la purezza e le antiche estremità del conflitto.

Pur quasi senza dialoghi o grandi momenti più propriamente riflessivi, scrittura e regia (e performance attoriale) riescono comunque a rappresentare egregiamente questo antagonismo fra macchina e umano: Bella soffre, piange, dubita, riflette, si sforza, gioisce, rimpiange, sbaglia, fa rumore, chiama aiuto, si rassegna, spera, riprende le forze, si riorganizza, si cura, si nasconde mentre “the dog” agisce automaticamente ed efficacemente, insofferente alla situazione, ma si trova bloccato nel momento in cui necessita di trovare una soluzione capace di raggirare i suoi limiti fisici. Per questo il fatto che la dinamica secondo cui proprio sfruttando i limiti della macchina la protagonista riuscirà a distruggerla non suona assolutamente come un ex machina ma, anzi, come un susseguirsi perfettamente credibile.

Il resto della tecnologia presente nell’episodio, quella integrata alla vita dell’umano, come la televisione o la ricetrasmittente, che solitamente rappresenta il centro della riflessione della serie, non è che un involucro vuoto, un perenne “white noise” che dà solamente l’impressione di funzionamento.

“Metalhead” è insomma, probabilmente, l’episodio di Black Mirror che più guarda al passato nel senso di una riflessione sui canoni del genere dell’orrore che possono ancora funzionare ed essere messi al lavoro. Brooker risveglia e re-interroga un orrore antico e lo fa attraverso la rielaborazione dei meccanismi più classici di rappresentazione: la paura, la fuga, l’attesa, l’errore, il buono, il cattivo, la vittima, il carnefice. La scommessa vinta di questo episodio è che i racconti di riferimento vengono fatti funzionare ancora e in modo interessante: anche il bianconero che vediamo non ha l’aria retro ma quella asettica e fredda dello sci-fi alla Black Mirror.

Voto: 8
Black Mirror – 4×06 Black Museum
Sin dalla scorsa stagione, è stato chiaro come il passaggio da Channel 4 a Netflix abbia decretato un importante cambiamento strutturale per Black Mirror. Sperimentazioni, azzardi ed esercizi di stile sono la predominante caratteristica di queste due ultime annate, lontane dal disturbante universo costruito nelle prime due stagioni, ma non per questo meno inquietanti. E “Black Museum”, con la sua singolare costruzione narrativa, ne è la più chiara dimostrazione.

“Black Museum” è un episodio anomalo, con una struttura drammaturgica a scatole cinesi che ricorda vagamente “White Christmas”; qui però l’elemento metanarrativo è più esplicito e lineare: il presente si confronta con il passato raccontato attraverso gli oggetti presenti nel Black Museum, che sono dei veri e propri cimeli che rimandano alla ‘storia’ di Black Mirror – dal lecca lecca di Tommy di “USS Callister” o l’ipad di e “Arkangel” fino al fucile di “White Bear”. Ciò dà avvio a una sorta di autocelebrazione che se da un lato sembra chiudere un cerchio dall’altro apre il vaso di Pandora, lasciando presupporre quanto altro ancora ci sia da raccontare. Inoltre, uno sviluppo narrativo di questo tipo, scandito dal dialogo tra Nish e Rolo, dà al discorso un interessante approfondimento diacronico, cosa che Black Mirror ha quasi sempre fatto di sfuggita: la maggior parte degli episodi è ancorata a un determinato presente, raccontandoci di innovazioni vissute come consuetudini, ovvero parti integranti di una precisa quotidianità, invece la tripartizione del racconto di “Black Museum” – scandita temporalmente dalla storia di Clayton Leigh, protagonista del terzo frammento – ci mostra il livello ascendente dell’innovazione che si lega a doppio filo alla sua degenerazione, lasciandoci addosso un pressante dubbio: quanto della volontà di perfezionamento di una scoperta è strettamente connesso allo scopo di ridurre ai minimi termini eventuali ‘effetti collaterali’?
Un’altra cosa particolarmente interessante dal punto di vista della temporalità dell’evoluzione tecnologica è il nome dell’ospedale in cui lavorava Haynes, il San Junipero, che ricollegandosi all’episodio omonimo della terza stagione lascia intendere quali siano state le basi da cui è partita la sperimentazione oggetto del quarto episodio della scorsa annata.

Da un punto di vista strettamente strutturale, l’elemento metanarrativo amplifica l’effetto suspense utilizzando a proprio vantaggio la prevedibilità del racconto, costruito deliberatamente secondo una bipartizione che vede da un lato la descrizione di una importante conquista in campo tecnologico e dall’altro la sua (inevitabile?) degenerazione.
In pratica, “Black Museum” ci mostra tre storie la cui costruzione drammaturgica ricalca ed esalta la struttura dell’intera serie rendendola esplicita mediante una netta cesura – gli stacchi nel presente con i commenti del narratore – tra le due fasi antitetiche del racconto.
Tenendo fede alla tendenza generale dello show, anche qui si pone l’accento su come il lato oscuro della medaglia sia in grado di fagocitare ogni elemento positivo della conquista, tuttavia il discorso sembra ampliarsi su un altro aspetto, ovvero sull’irreversibilità della deriva tecnologica: il medium non è solo in grado di cambiare l’andamento degli eventi, o investire una singola fase della vita, ma spesso si insinua dentro l’animo umano scalfendo in maniera irreparabile il naturale continuum della vita (e della morte) di ogni uomo.
C’è vita dopo la morte? Sono millenni che l’uomo tenta di rispondere a questa domanda, senza esser ancora riuscito a darsi una risposta certa. Lasciando ai cristiani la speranza del regno dei cieli e a induisti, buddisti etc… la certezza della reincarnazione, le tre storie narrate da Rolo Haynes non fanno altro che raccontare come l’uomo possa tramutarsi in Dio e riuscire a ‘creare’ la vita dopo la morte: come redivivo dopo averne assaporato l’abisso, o voce insistente prigioniera di un corpo ‘ospite’ o di un bizzarro peluche, oppure sotto forma di un moderno fantasma dotato di coscienza e recezione del dolore. Ogni storia si raccartoccia su se stessa, riportando l’apice dell’idea verso il grado zero della sua degenerazione, ma è nel plot twist finale che l’involucro apparentemente vuoto della cornice svela la sua sostanza, ponendosi come ago della bilancia dell’intero racconto. Al concetto di ‘vendetta’ si associa una strana accezione di ‘espiazione’, una sorta di contrappasso dall’ancestrale sapore di legge del taglione: Rolo Haynes, che ha usato la tecnologia senza curarsi troppo delle conseguenze per la vita delle persone coinvolte, resta prigioniero delle sue stesse creazioni. La degenerazione dell’innovazione tecnologica non punisce solo chi vi si getta con piena e cieca fiducia, ma anche chi è responsabile dell’idea e della sua diffusione, a scapito del rispetto per la vita, per la morte.

If it did something bad, chances are it’s in here.

Al di là della perfetta struttura narrativa, “Black Museum” è un episodio cardine anche dal punto di vista tematico. La prima frazione del racconto, dedicata al dottor Peter Dawson e al suo diagnosticatore del sistema nervoso simpatico – tratta dalla short story Pain Addict scritta da Penn Jillette – è il primo stadio della via percorsa per raccontare la ‘creazione’ di una vita dopo la morte, focalizzandosi sull’esplorazione delle sensazioni umane attraverso la loro condivisione tra un individuo e l’altro. La brevità del racconto aumenta il pathos con cui assistiamo alla caduta del dottor Dawson verso una spirale pericolosa che passando dall’autolesionismo sfocia dritta nella tortura. Una parabola discendente, vorticosa e incessante che rende subito chiare le falle dell’idea: c’è un limite al dolore che un uomo può provare? Anche se mancano le conseguenze fisiche, la sensazione di dolore può destabilizzare una coscienza in modo da creare un meccanismo di difesa che muta la sensazione di dolore in piacere? Sostare a lungo in un luogo dell’anima non guidato dalla pienezza dell’istinto umano porta al cortocircuito delle coscienze? Rinascere dopo aver sentito morire le proprie viscere potrebbe davvero creare le basi per una nuova vita macchiata di morte? Solo domande e nessuna risposta, tanto timore e poche certezze.

Monkey needs a hug.

Non è facile per nessuno rapportarsi alla perdita; la morte di una persona amata è un’esperienza devastante, una delle più dolorose per la storia di ogni essere umano. Avere la possibilità di ovviare a tale perdita è il desiderio che un uomo su tre ha immaginato di chiedere al tanto agognato genio della lampada. La seconda frazione del racconto ci narra proprio come questo sogno abbia le potenzialità di trasformarsi in un incubo.
Può davvero una voce rinserrata dentro la testa sopperire a una mancanza? Rinchiudere una coscienza dentro un involucro ad essa estraneo riesce a preservarne la qualità? Oppure è proprio questa situazione innaturale a mutare l’affetto in senso del dovere?
La morte è parte della vita allo stesso modo della felicità e del dolore, creare un’apparente eternità eliminerebbe la possibilità di sviluppare una particolare condizione emozionale, che nel bene o nel male è parte del meraviglioso bagaglio sensoriale dell’essere umano. Come ci mostra la storia di Jack e Carrie, rimanere ancorati al passato, vivendo l’ombra sbiadita di un amore, crea una sorta di stasi temporale che proietta anche la propria essenza in una sterile atemporalità, da cui prima o poi verrà il desiderio di uscire, come è accaduto a Jack e come molto probabilmente accadrà a Nish, ora che ha compiuto la sua vendetta.
L’annosa riflessione proposta dal secondo frammento narrativo di questo episodio spiana la strada alla terza parte del racconto quella che svuota la cornice narrativa dalla funzione di mero contenitore per divenire summa di un discorso molto più ampio: dalla riflessione sull’eticità della simulazione digitale della coscienza umana – uno degli elementi più astratti e complessi dell’uomo nella sua interezza psicofisica – ci si spinge verso la deriva dell’utilizzo di tale procedura.

“I was born to love you, and I will never be free. You’ll always be a part of me” –
da “There’s Always Something There To Remind Me” di Sandie Shaw

Cosa cambia unendo alla percezione uditiva della coscienza anche l’illusione visiva? È davvero l’anima di Clayton quella che viene ripetutamente uccisa dai sadici visitatori del Black Museum? Il concetto di base di questo terzo frammento narrativo richiama concettualmente “White Bear”, citato esplicitamente all’apertura di episodio, solo che qui il protagonista non rivive sulla sua pelle il crimine commesso, ma la punizione conseguente a tale crimine. Il concetto di vendetta si allarga e si biforca in due direzioni diverse, ugualmente macabre: la vendetta di Nish e quella dell’uomo qualunque che per sadismo consapevole o per semplice desiderio di incarnare il ruolo di giudice supremo si esalta nell’infliggere ancora una volta quella punizione che Clayton si è meritato per l’efferatezza del suo crimine. La portata orripilante di tale gesto va oltre la presunta innocenza dell’uomo: colpevole o meno, presenza reale o ologramma, spingere ripetutamente quella leva per lasciar andare la scossa è un atto che ammette poche giustificazioni.

“Black Museum” è la chiusura perfetta per una stagione non priva di difetti, ma ancora una volta ricca di spunti per guardare attraverso uno specchio deformante la realtà che ci circonda.
Le tematiche mostrate da questa ultima stagione amplificano la tendenza già ampiamente introdotta nella scorsa annata: inserire la deriva in un contesto apparentemente identico a quello in cui viviamo oggi, dove anche la tragica naturalezza della violenza più nera è minata dalla perdita di un arbitrio libero dalla morsa tecnologica. L’unica puntata che un po’ si discosta da ciò è “Metalhead”, non a torto l’episodio più singolare e discusso della stagione. Tuttavia, anche all’interno dello scenario post-apocalittico descritto, l’insieme dei sentimenti umani messi in campo dalla protagonista amplifica la sensazione che la lotta tra l’uomo e la macchina sia uno scontro impari che necessita di una totale riconsiderazione della ‘libertà’ di azione.
In definitiva, “Black Museum” non è solo un’ottima conclusione, ma si pone anche come ideale punto di chiusura di una fase dello show, che riflette su se stesso indicandoci che Black Mirror non è più quello di una volta, e non solo perché si è passati dall’Inghilterra all’America, ma anche perché dal 2011 al 2017 il mondo è cambiato, e la distopica apocalisse raccontata dalle prime stagioni dello show non è più così inverosimile.

Voto Episodio: 8½
Voto Stagione: 8
Black Mirror – 5×01 Striking Vipers
Il gioco di ruolo ha molti volti e infinita natura, una rosa di possibilità che va dalle fantasie più lontane nel tempo e nello spazio, all’intimità di una camera da letto. Forse per questa moltitudine di possibilità è così difficile tracciare un significato che vada oltre la mera semantica ed è spesso arduo narrarlo, ma, al contempo, realizzarvi un racconto a riguardo è altrettanto un’occasione, vista la moltitudine di possibilità aperte alla sua narrazione.
Striking Vipers” si assume questo onere, come primo episodio della nuova annata della serie antologica Black Mirror.
La quinta stagione, apparsa il 5 giugno su Netflix, era stata largamente anticipata dal suo rinnovo il 5 Marzo 2018 e poco più tardi annunciate le riprese da Charlie Brooker stesso presso i Royal Television Society Awards. Nel maggio dell’anno successivo, il teaser ha rivelato che la nuova stagione avrebbe contenuto tre episodi, similmente alla prima e alla seconda.

Come a seguire un fil rouge dall’audace e inventivo “Bandersnatch, il videogioco è parte integrante di “Striking Vipers”. A differenza dell’episodio interattivo, il mondo videoludico non è il fulcro della sua narrazione, ma il motore di un racconto che approderà verso tutt’altro, mantenendo solo un sottile legame nel rapporto con la tecnologia, leitmotiv che ha da sempre accompagnato lo show targato Netflix. La scrittura sembra distanziarsi dalla topica dicotomia uomo-macchina, tentare lidi più personali, che coinvolgano meno gli apparati di un futuro distopico e più le dinamiche che legano i personaggi. Questo approccio non è inedito, ma porta con sé il rischio di perdere lo spirito che aveva reso grande questa serie, oppure l’opportunità di scoprire nuovi modi di raccontare il medesimo concetto.

“Striking Vipers” è la storia di un gioco di ruolo fra Danny e Klaus, due amici di lunga data oramai sulla soglia della quarantina. Il giorno del compleanno di Danny, Klaus giunge a sorpresa con un regalo: il nuovo capitolo del picchiaduro della loro adolescenza, Striking Vipers X, e un visore per la realtà virtuale. La notte stessa proveranno il gioco, impersonando i loro due combattenti preferiti dai tempi del college: Lance e Roxette. Nella vivida realtà virtuale, accade però che l’avatar di Klaus baci l’avatar di Danny. Dopo un primo momento di imbarazzo, coperto dall’alibi dell’alcool, nasce una relazione in quel mondo virtuale e gradualmente Danny si allontanerà dalla realtà e dalla sua famiglia, in una sorta di dipendenza da quel loro gioco di ruolo che si rivelerà insostenibile per lui e per sua moglie Theo, riavvicinandolo parallelamente all’amico ritrovato.

Nelle tensioni tra Danny e Klaus, nella continua ambiguità fra il gioco di ruolo e il reale, nel rapporto di coppia improvvisamente incrinato, viene naturale la domanda: ‘Di cosa parla davvero “Striking Vipers”?’ Trovare la risposta nel racconto potrebbe essere arduo, al di là di ciò che lo spettatore vede. Nel ginepraio di momenti che assurgono a sottotesto per l’episodio, (da un’importante anticipazione del piacere che Danny prova dai giochi di ruolo nella scena iniziale al bar con Theo, alle battute a sfondo sessuale quando i due compari si ritrovano alla festa di compleanno) lo spettatore assiste a molti eventi, ma il loro svolgersi non lascia lo spazio per l’esplorazione di essi. La narrazione lineare, che parte da un punto e termina in un altro, presenta una vicenda che scalfisce appena la superficie di tante idee e alle volte fa fatica a sbrecciare una di esse per lasciarla scorrere nel racconto propriamente detto. Esso incede per la sua via, lasciando per strada semi di ciò che potrebbe comunicarci sui personaggi e sulla loro concezione di se stessi, dentro e fuori dalla realtà virtuale. Il finale, per quanto si possa percepire come lieto, risulta un po’ annacquato da una risoluzione così facile, una risoluzione che anche in un racconto dalla forma così tradizionale non sarebbe dovuta essere così sbrigativa, visto ciò che c’era in gioco per gli utilizzatori di una tecnologia alienante tanto quanto soddisfacente.

La combinazione fra Owen Harris alla regia e Charlie Brooker alla scrittura dona un tocco particolare a questo racconto: le scene sono significative anche se nel silenzio, come nel risalto dei momenti di dubbio di Danny e soprattutto di Theo. Il mondo che ruota attorno i protagonisti non è indefesso e passivo: Theo, da moglie a poco più che estranea, è il centro di alcune delle scene più forti dell’episodio, che nulla hanno a che vedere con Striking Vipers X, ma con gli effetti diretti e indiretti del gioco segreto sulla sua vita e sul suo matrimonio. Parlando del gioco, gli ambienti di Striking Vipers X strizzano l’occhio agli appassionati dei picchiaduro, che non faticheranno a trovare simpatici riferimenti ai loro videogiochi preferiti. Anche i personaggi sono chiari collegamenti al mondo videoludico, basti comparare Lance, il personaggio prediletto di Danny, al Ryu di Street Fighter, Roxette a Mai Shiranui di King of Fighters, o l’orso polare Tundra al Kuma di Tekken.
Le interpretazioni sono impeccabili: Anthony MacKie (Altered Carbon), Yahya Abdul-Mateen II (The Get Down) e Nicole Beharie (Sleepy Hollow) da un lato e Pom Klementieff e Ludi Lin (Marco Polo) dall’altro. Gli ultimi due sono chiamati al non facile compito di calcare non solo due personaggi nel medesimo istante, attante e giocatore, uomo e donna, etnie differenti, ma anche al calco di una recitazione che appartenga loro senza farli risultare caricaturali, compito che svolgono in maniera eccellente.

Questo paratesto si innesta perfettamente nella macchina narrativa di Black Mirror, presso cui riacquista una certa importanza il sottotesto, il non-detto, che alle volte mal si lega con gli eventi di “Striking Vipers”, ma offre interessantissimi spunti usando quel concetto tentacolare che è il gioco di ruolo.
Cos’è il gioco di ruolo in “Striking Vipers”? Come si connette all’idea della tecnologia che invade il mondo che conosciamo? Come accade che due individui, prima presentati come il tipico family guy intento a cucinare hamburger alla grigliata di famiglia e il suo amico tombeur de femmes e viveur, la sera stessa della loro riunione finiscano per avvinghiare dei corpi virtuali in una sensualità fatta di pixel, che non nasce dalla loro esperienza sensibile, ma virtuale?
Il diavolo è nei dettagli.

Non c’è una vera e propria indagine, né esplorazione, nel dualismo reale-virtuale, a fronte di dialoghi piuttosto didascalici – come la suggestiva, ma isolata considerazione di Karl nel vivere l’esperienza sessuale nel corpo di una donna. Dove splende davvero “Striking Vipers” è in ciò che suggerisce: un infinito gioco, ma di specchi per Danny e Klaus. La loro relazione virtuale può essere letta come uno sfogo dall’insoddisfazione – serpentina, ma presente – che provano verso la loro vita, in particolare quella sessuale, a causa della routine o del proprio invecchiamento, piuttosto pesante nella mondanità di Klaus. Oppure è solo una continuazione del loro rapporto del college, anche solo nel ricordo delle partite al videogioco preferito, finché la tecnologia ha permesso al desiderio di rompere non solo le regole della realtà, ma anche del gioco stesso; il perché universale del gioco viene abbandonato per divenire altro nel particolare, piegandosi al volere dell’utente, almeno finché l’utente conoscerà la realtà e il gioco di ruolo sarà destinato a sfaldarsi. Danny lo accetterà, ma Klaus non potrà andare avanti, perché vuole il suo vecchio compagno di giochi al suo fianco, in un’esperienza di cui non comprende appieno il significato, le potenzialità e anche i pericoli. La cena dove Klaus e Danny si ritrovano è emblematica, mesi dopo la brusca interruzione del loro passatempo, perché è palese chi sia cresciuto e chi no.
Un’altra scena significativa dell’episodio mostra la passione tra Lance e Roxette mutarsi in un goffo bacio a stampo tra i due protagonisti e le spettacolari mosse acrobatiche in una rissa ridicola, quasi comica per sfogare l’infrangersi di una certezza aleatoria e illusoria, nata dalla stessa valvola della loro frustrazione. Le realtà si ribalta, ma non c’è una continuazione, non c’è uno specchio, solo la delusione e la consapevolezza di una fantasia che tale è rimasta.

Potrebbe venire naturale la comparazione fra “San Junipero” e “Striking Vipers”, ma sarebbe quantomeno difficile trovare delle somiglianze oltre un nucleo concettuale. L’episodio più recente affronta con meno costanza i sentimenti fra i suoi personaggi, così come, anche se in maniera molto sottile, tratta la tecnologia in maniera trasversale e non parallela alla sua trama. “San Junipero” racchiudeva la sua storia nella tecnologia, mentre in “Striking Vipers” la tecnologia è quella vipera che colpisce quando meno ce lo si aspetta, questionando gli attanti e sfidandoli apertamente nelle loro convinzioni, rivelando loro che in quella realtà virtuale una nuova identità viene costruita da una volontà e sembra quasi voler suggerire la codardia di Danny e Klaus in un momento, per poi lasciar intendere che forse il loro era solo e soltanto un gioco. Purtroppo, si assiste al sopraggiungere di un nuovo equilibrio; il finale “di comodo” risulta molle se confrontato all’enormità del tema appena scalfito sulla superficie.

Black Mirror sa ancora essere uno dei prodotti più singolari e significativi nel suo genere, quando imbocca binari a sé più congeniali. Ci sarebbe da domandarsi cosa si chiede a questo show, in particolare alla visione di una delle sue puntate al contempo più genuine e superficiali, che usa un racconto canonico per raccontare un dilemma moderno. Da un lato, dà interessantissimi spunti per discutere di argomenti attuali e non, dall’altro rischia di lasciare con una sensazione di incompiuto, che potrebbe, come non potrebbe, essere lo scopo dello stesso show, una volta che rimane solo lo Specchio Nero e vediamo la nostra immagine riflessa, che potrebbe, come non potrebbe, essere non lontana dall’abbandono di Danny e Klaus sui loro divani.

Voto: 7–
Black Mirror – 5×02 Smithereens
Black Mirror ci ha insegnato spesso la meraviglia verso una tecnologia futurista (ma non troppo) che avrebbe prima o poi sconvolto le nostre vite, incidendovi talmente tanto da lasciarci un senso di angoscia profondo. Con le nuove puntate della serie, e soprattutto con questa, l’attenzione si sposta invece molto più sulle persone: per lo show è un bene o un male?

Chris e Jaden, i due protagonisti di questa puntata, sono lo specchio di una parte della nostra società moderna. Il primo, poco più che trentenne, vede nell’altro ragazzo – che scopriremo poi avere dieci anni in meno – un impiegato altolocato della Smithereens: valigetta, valigia e pronto a partire per San Francisco, chiamata di lavoro in corso, vestito elegante. Questo è il primo punto che ci suggerisce come l’annata di Black Mirror sia virata più sulle persone e il loro rapporto con la tecnologia che sugli effetti devastanti che un certo tipo di tecnologia può avere sulla società: l’apparenza è ormai la moneta sonante con cui si sopravvive, perché Jaden è uno stagista che ha cominciato da pochi giorni a lavorare, sta facendo il galoppino per il suo capo e conosce solo la responsabile delle risorse umane.
La crisi di nervi che ha Chris quando lo scopre è tremendamente realistica, perché in un mondo dominato dal digitale – e non dal reale – vivere in maniera “normale” e logica non è più possibile, bisogna sempre leggere in maniera “altra” quello che abbiamo davanti.

La tecnologia in questo episodio fa capolino quando il dramma si sta già consumando, ma lo fa in maniera del tutto normale se pensiamo al mondo in cui viviamo nel “reale”. I social network sono una cassa di risonanza della realtà spaventosa: i due ragazzi che per caso si trovano sul luogo del rapimento informano il mondo in tempo reale su quello che sta succedendo, e Chris è costretto ad accedere all’applicazione che non apriva da mesi per vedere cosa sta succedendo al di fuori della sua macchina. I social sono uno specchio (spesso distorto) del reale e senza nemmeno accorgercene vi ci specchiamo tutti i giorni per sentirci parte di qualcosa: guardate Chris, inesistente per mesi sulla piattoforma, è diventato un fantasma. Ma non per chi possiede i suoi dati, e quindi la sua vita: l’azienda social sa molto di più della polizia. Chris ha una fedina immacolata ma è iscritto a un social network, è quasi come avere un precedente penale. Ed è una cosa che fa paura.
Tutto il resto dello svolgimento dell’episodio risulta però un po’ troppo lento e meccanico, il segmento in cui Chris aspetta di poter parlare con il fondatore del social network ha pochissimo a che vedere con tutto quello a cui ci ha abituati Black Mirror. Non che sia per forza un male in generale, ma risulta anche un po’ ridicola la figura di Billy Bauer, un santone in ritiro spirituale per disintossicarsi dalla creatura che lui stesso ha creato, quasi come a voler sottolineare la fastidiosa e pericolosa dipendenza che i social possono provocare. È tutto quindi un po’ troppo didascalico e, anche se il racconto si focalizza molto più sulle persone che sulla tecnologia, ha una risoluzione piuttosto banale. Anche la spiegazione del dramma di Chris è telefonata: l’unico punto di forza di tutto questo è forse la contemporaneità del messaggio che ci lascia la puntata.
Se infatti in precedenza Black Mirror ci aveva abituati a un uso della tecnologia “deviato” e tendente praticamente sempre al male, qui la realtà supera la fantasia. La storia di Chris, calata in un contesto odierno, sarebbe del tutto plausibile; anzi, non escludiamo che alcune volte, in qualche parte del mondo, degli incidenti stradali siano avvenuti proprio così.

Resta comunque spiazzante questa scelta da parte di Brooker e colleghi, ovvero additare i social network come una tecnologia pericolosa e nociva se usata come surrogato della realtà che ci circonda: è tutto vero e assolutamente condivisibile ma in questo caso specifico (l’incidente di Chris che innesca poi il racconto di puntata) la scelta di guardare il cellulare e mettere like alla foto di un cane viene esclusivamente dalla componente umana. Non c’è una tecnologia che ti obbliga a guardare il cellulare mentre guidi, è solo stupidità – che, diciamola tutta, non può essere mascherata dietro alla presunta dipendenza che creerebbe l’applicazione, leggermente accennata e priva di un background alla Black Mirror.
Sostanzialmente, “Smithereens” non è un brutta puntata, è un episodio che ci cala nel presente e non in un immediato futuro, con una tecnologia ormai quasi obsoleta (se paragonata allo standard della serie) come protagonista. È un episodio lineare che, come detto, potrebbe essere davvero una news di cronaca che potremmo leggere domani sui giornali, ed è per questo che lascia un po’ spiazzati: non sembra affatto una puntata di Black Mirror.
C’è comunque un’interessante chiusura, ovvero tutte quelle persone che hanno seguito il caso sui social e che vengono a sapere della morte (o almeno, è quello che intuiamo) del suo protagonista, perdono immediatamente interesse per la storia, come se tutto il dolore e la sofferenza che hanno letto e di cui hanno discusso non fossero stati altro che una serie di parole e frasi che oggi chiamiamo “status”.
Questo sì che è un finale alla Black Mirror: al giorno d’oggi, siamo nient’altro che notifiche.

Voto: 6
Black Mirror – 5×03 Rachel, Jack and Ashley Too
Black Mirror conclude la sua breve quinta stagione con un episodio sui generis, lontano, nel bene e nel male, dalle classiche atmosfere tecno-distopiche che ne hanno sancito il successo.

Scritto dal creatore dello show, Charlie Brooker, e diretto da Anne Sewitsky, “Rachel, Jack and Ashley Too”, presenta diversi spunti interessanti, sia dal punto di vista tematico che del registro narrativo, che però non riescono a mescolarsi tra loro in maniera efficace, fallendo così nel dar vita a un capitolo del tutto soddisfacente.

Il maggiore punto di forza del racconto risiede indubbiamente nella scelta del tono e dei genere di riferimento operata dall’autore: Brooker, come già in alcuni dei rivoli narrativi di “Bandersnatch”, decide infatti di abbandonare la cupezza tipica dello show per favorire una narrazione a tratti scanzonata, sopra le righe e autoironica. Se la prima parte dell’episodio presenta molti aspetti in comune con il dramma adolescenziale, concentrandosi sulle fatiche emotive di Rachel, Ashley e Jack, mentre sullo sfondo si affacciano elementi inquietanti (la bambola, le medicine), la seconda vira invece consapevolmente verso la commedia e l’avventura, con la missione di salvataggio di Ashley da parte delle due sorelle e del doppio della pop star.
È chiaro quindi come il fulcro dell’interesse di Brooker in questo caso non risieda tanto nella credibilità della tecnologia rappresentata: la bambola in cui è stata caricata l’intera personalità di Ashley, oppure l’estrazione dei brani dalla mente di Ashley durante il coma farmacologico, sono due esempi emblematici di questo approccio, che avvicinano il racconto più a una satira dell’industria musicale che a una vera e propria riflessione sulla sostituzione dell’umano da parte della tecnologia.

A ben vedere infatti, il cuore dell’episodio è rappresentato dai rapporti che vengono a instaurarsi tra le tre ragazze, i quali, almeno teoricamente, dovrebbero fare da contraltare ai vuoti slogan di empowerment professati dalla pop star. È quindi soprattutto sotto questo punto di vista che l’episodio in fin dei conti risulta un’occasione mancata: dopo aver delineato in maniera convenzionale ma comunque efficace il rapporto conflittuale tra le due sorelle, le difficoltà relazionali di Rachel e la frustrazione di Ashley, la collaborazione tra le tre ragazze – empowering forse più negli intenti che nella pratica, ma certamente godibile –, conduce purtroppo a un finale semplicistico, che fallisce nel rendere fino in fondo giustizia ai personaggi (Rachel in particolare), mostrando tutta la fragilità del sostrato tematico della puntata.

Qui risiede infatti il principale punto debole dell’episodio, che, al di là della credibilità degli espedienti tecnologici messi in scena, introduce tanti, forse troppi, spunti tematici, senza riuscire però a svilupparli in maniera originale e convincente.
Da un lato abbiamo infatti il rapporto tra Rachel e la bambola Ashley Too, esemplato su un classico topos fantascientifico del rapporto tra uomo e macchina (Her, ma anche il bellissimo “Be Right Back”), dall’altro quello della progressiva sostituzione della Ashley in carne e ossa con vari surrogati tecnologici.
Se il primo si rivela una sorta di red herring, dal momento che il “risveglio” della bambola conduce definitivamente il racconto verso un’altra direzione, lasciando Rachel sullo sfondo, il secondo acquista invece sempre più spazio narrativo, senza mai riuscire però a deviare dagli stereotipi su cui si basa. Gli abusati motivi della star sofferente e della creatività repressa e messa al servizio dell’industria vengono sì amplificati dalle invenzioni di Brooker e dai continui rimandi alla realtà dati dalla performance di Miley Cyrus, ma non riescono a guadagnare incisività, finendo appiattiti su una manichea e a dir poco datata opposizione tra pop commerciale e rock autentico – emblematiche a questo proposito sono le cover dei Nine Inch Nails che aprono e chiudono l’episodio.

A metà tra satira e favola, “Rachel, Jack and Ashley Too” si presenta in definitiva come una godibile aggiunta allo show di Brooker: le interazioni tra le due sorelle e Ashley Too durante il salvataggio regalano la giusta dose di intrattenimento, ed è bello vedere come le tre ragazze si salvino da sole aiutandosi a vicenda, confermando come il lieto fine sia ormai entrato di diritto tra le opzioni contemplate dalla serie. Al tempo stesso però è innegabile come il potenziale di questa variazione teen del racconto distopico non riesca a concretizzarsi in un episodio all’altezza dei picchi qualitativi a cui lo show ci ha abituato negli anni passati, complice una costruzione un po’ approssimativa della cornice fantascientifica e dei personaggi che la abitano.
L’impressione è che Brooker stia cercando di iniettare nuova linfa ai topos più consolidati della sua creatura, uno sforzo senza dubbio apprezzabile vista la concorrenza sempre più spietata nel mondo della serialità e il rischio di ripetitività di un concept come quello alla base di Black Mirror, ma che non sia ancora riuscito a trovare la giusta formula per operare questa trasformazione senza depotenziare gli elementi che l’hanno resa una serie cult.

Voto: 6+
Black Mirror – Stagione 6
Sono passati esattamente quattro anni dall’ultima – discussa e criticata – stagione di Black Mirror, la serie distopica antologica di Charlie Brooker cominciata sulla britannica Channel 4 e poi inglobata da Netflix nell’ormai lontano 2016: già nei confronti degli ultimi episodi usciti, il discorso collettivo su uno show che si proponeva di esplorare le conseguenze negative – e a volte tragiche – delle innovazioni tecnologiche e digitali nel futuro verteva sul fatto che gli scenari ipotizzati dalla serie si fossero già realizzati in maniera simile nella realtà, creando il mito del “prodotto profeta” e aumentandone a dismisura la fama e il successo.

Visto e considerato questo tema, unito al lungo periodo di pausa che si è presa la produzione prima di far uscire dei nuovi episodi, il dubbio e la curiosità sorti prima dell’uscita della sesta stagione erano relativi a come Brooker (creatore e sceneggiatore di tutti gli episodi) avrebbe interpretato attraverso le nuove storie il presente – un presente molto diverso e profondamente cambiato rispetto a quello che faceva da sfondo alle prime annate dello show. Il risultato è presto detto: la sesta stagione di Black Mirror è, quasi per definizione esplicita dello stesso autore, un modo per lanciare una nuova tipologia di storie che rompano la tradizione con il passato della serie. Almeno due episodi su tre, infatti, erano stati pensati in origine per essere lanciati sotto una nuova etichetta chiamata “Red Mirror” che dovrebbe contenere storie e racconti ispirati alla tradizione horror e fantasy piuttosto che a quella fantascientifica o distopica.

Non per niente “Demon 79”, ultima puntata della cinquina di storie che forma la sesta annata di Black Mirror, è stato anche il primo a essere scritto da Brooker, in questo caso affiancato da Bisha K. Ali – già showrunner di Ms. Marvel –, e quello che avrebbe dovuto dare il via a una sorta di serie spin-off. Ovviamente utilizzare il contenitore di una serie popolare e di successo come Black Mirror è certamente meno rischioso che partire da zero con una nuova intellectual property, per quanto legata all’originale; ecco perché per Brooker e Netflix la reazione del pubblico a questa nuova stagione è particolarmente importante, poiché permetterà loro di capire la possibilità di investire in un nuovo format.

Come per tutte le stagioni di Black Mirror – e per tutte le serie antologiche per episodi in generale – al fine di analizzarne al meglio la riuscita o meno è necessario visualizzare singolarmente gli episodi, considerandoli non un’unica installazione ma come storie a sé stanti che sono messe in ordine solo per esigenze produttive e non narrative. Come si diceva, infatti, gli episodi non sono stati scritti e girati necessariamente nell’ordine in cui li si guarda e questo non è per nulla rilevante rispetto al prodotto in generale né rispetto alle singole puntate. Per convenienza e praticità qui procederemo a parlare degli episodi nell’ordine in cui li propone Netflix.

Questa sesta stagione si apre con un episodio che richiama i temi e lo stile classico di Black Mirror: “Joan Is Awful” è, infatti, l’episodio più familiare che si incontra in questa annata poiché prende un argomento che riguarda le nuove tecnologie – nello specifico lo sviluppo e gli utilizzi delle intelligenze artificiali – e lo declina in un futuro distopico in cui sono regolarmente utilizzate. In questo caso, poi, il gioco narrativo di Brooker si sposta su un campo meta-televisivo ulteriore, in quanto nella storia appare un servizio di streaming che fa il verso a Netflix, chiamato dall’autore Streamberry, dipinta come un’azienda villain che abusa del proprio potere e delle proprie informazioni per rovinare la vita di una donna. Questo ammiccamento dell’autore britannico ai rischi e ai pericoli interconnessi al concedere troppa libertà non regolamentata ai colossi dell’intrattenimento dovrebbe essere apparentemente una sagace critica al sistema, ma in realtà a ben vedere il risultato è parecchio deludente e il graffio di Brooker non fa che fermarsi in superficie.

L’episodio, infatti, è imperniato – volutamente – di ironia e momenti molto weird che gettano alle ortiche tutta la credibilità e il reale pericolo caratterizzato da un super computer in grado di creare autonomamente e digitalmente un prodotto audiovisivo senza aver bisogno di attori, registi, sceneggiatori o in generale di esseri umani al lavoro e, soprattutto, di poterlo fare in modo selettivo rispetto alle preferenze di ognuno e ai desideri del pubblico. Intendiamoci, non si sta dicendo che l’ironia sia un fattore che non può essere utilizzato in un episodio di Black Mirror o che, più in generale, non possa essere un ottimo veicolo per lanciare dei messaggi o trattare in modo efficace un certo argomento, anzi: il dubbio è la sua efficacia in questo specifico caso, in un episodio che guardiamo sulla stessa piattaforma dalla quale vorrebbe metterci in guardia. A rinforzare l’idea di occasione sprecata c’è poi la soluzione “a matrioska” con la quale si conclude la storia di Joan/Annie Murphy/Salma Hayek, una svolta di sceneggiatura che non colpisce come vorrebbe e che sa di poco originale rispetto a quelle viste in altri episodi dello show, unita alla scelta di concludere la vicenda con una sorta di lieto fine. Quest’ultimo elemento rafforza l’idea di un episodio che vuole essere venduto idealmente come una “distopia rassicurante”, ovvero uno scenario possibile – forse imminente – ma del quale non dobbiamo preoccuparci perché tanto l’uomo sconfiggerà sempre la macchina, l’individuo prevarrà sempre sull’intelligenza artificiale, la mente umana sconfiggerà l’algoritmo.

La sensazione che traspare da “Joan Is Awful” è, in definitiva, quella di un Charlie Brooker che vuole sembrare intelligente perché fa ironia meta-televisiva sulla stessa piattaforma che gli paga lo stipendio che, allo stesso tempo, gli produce l’episodio perché l’autoironia fa bene alla propria immagine e distoglie lo sguardo dai veri temi trattati nella puntata. È un peccato perché l’argomento è attualissimo – probabilmente il più cogente tra quelli che emergono nella stagione – anche alla luce dello sciopero degli sceneggiatori statunitensi e dalle reali (e tragiche) conseguenze che l’IA applicata al mondo dello spettacolo avrà sui lavoratori del settore.
Anche il secondo episodio, “Loch Henry”, ragiona sul tema dello spettacolo e su quello che il pubblico vuole, ma lo fa attraverso il genere del true crime. Non si tratta di un episodio sperimentale girato come se fosse un vero e proprio documentario – sarebbe stato forse ancora più efficace – ma della storia di un aspirante regista che viene convinto a raccontare una torbida storia di omicidi e perversioni nella quale si scopre essere coinvolta la sua stessa famiglia. Il tema a cui si faceva accenno viene sviscerato per tutto l’episodio e trova compimento in modo abbastanza lineare nel finale: il paesino scozzese che era stato abbandonato dai turisti dopo lo scandalo del serial killer viene nuovamente preso d’assalto e diventa una meta agognata dopo l’uscita del film. Brooker qui vuole rappresentare la morbosità degli spettatori nei confronti di queste storie tragiche, di come il pubblico contemporaneo sia attirato dal successo di una produzione a discapito di quello che racconta e, anzi, più la storia è drammatica e perversa e più attira l’attenzione. Fa un po’ il verso a quando nell’episodio precedente viene spiegato il motivo per il quale le serie TV create dall’algoritmo abbiano sempre una connotazione negativa (“Joan Is Awful” ovvero “Joan è orribile”): il motivo è sempre quello di soddisfare i desideri del pubblico.

Per quanto sia un episodio godibile e che funziona nella sua interezza, “Loch Henry” è tuttavia anche l’episodio più lontano dallo stile di Black Mirror che si incontra in questa sesta stagione. Non ci sono riferimenti espliciti alla tecnologia, non dipinge nessun futuro distopico e la storia è incentrata su avvenimenti del passato – ma il passato è un tema ricorrente di questa annata. Il focus della storia diventa il protagonista e una riflessione su un genere televisivo oggi molto in voga, in particolare sul meccanismo che sta dietro il successo del true crime e di quanto sia facile dimenticarsi che le storie raccontate hanno dei protagonisti in carne ed ossa, la cui vita molto spesso è profondamente influenzata dai fatti che vengono raccontati. È questo il caso del personaggio Davis (Samuel Blenkin) che ottiene il successo tanto sperato ma al costo di aver scoperto che i genitori erano delle persone orribili: il suo sguardo vacuo nell’ultima inquadratura racconta perfettamente la voragine che si è aperta dentro di lui, mentre intorno il pubblico lo acclama e si gode il suo show.

Se “Loch Henry” era un episodio dallo stile molto lontano da quello a cui ci ha abituato la serie, “Beyond The Sea” è esattamente l’opposto; l’ambientazione, tuttavia, è una novità, in quanto la storia si svolge nel passato, in un 1969 ucronico nel quale due astronauti in missione nello spazio profondo hanno la possibilità di vivere la maggior parte delle loro vite sulla Terra collegandosi a distanza con delle loro copie robotiche. Nessun futuro alternativo, quindi, bensì un passato fantascientifico, sebbene questa scelta temporale non trovi una vera giustificazione nella trama dell’episodio se non per poter citare l’omicidio di Sharon Tate ad opera della setta di Charles Manson in quello stesso anno. Per il resto la sceneggiatura ci parla della nascita di una sorta di triangolo amoroso a migliaia di chilometri di distanza, nel quale ha un ruolo importante il sentimento della gelosia.

A sorreggere una trama non così avvincente dell’episodio e un minutaggio eccessivo rispetto alla storia narrata ci pensano le interpretazioni ottime dei tre protagonisti, tra i quali spicca un eccezionale Aaron Paul, che dimostra ancora una volta la sua maturazione artistica da Breaking Bad in avanti. Per scrivere questa storia Brooker ha dichiarato di essersi ispirato ai temi emersi con il lockdown – per quanto riguarda l’isolamento dei personaggi – e l’attenzione rivolta al lavoro da remoto. Questi temi rendono “Beyond The Sea” meno superficiale di quanto potrebbe sembrare, pur non essendo sviscerati a dovere e, anzi, individuabili solo con un livello di astrazione complesso. Il finale della storia cerca di evitare i percorsi più prevedibili – e questo è un pregio – ma non riesce a elevare la puntata dal livello medio sul quale si assesta: un episodio di Black Mirror come tanti altri, che si lascia guardare ma che non è lì per farsi ricordare.

Sul quarto, intitolato “Mazey Day”, si passerà più rapidamente: l’episodio più breve della storia dello show – solo quarantadue minuti – si iscrive in quel cambio di passo voluto da Brooker che, come si diceva, si vuole allontanare dai temi legati alla tecnologia e alla fantascienza in virtù dell’esplorazione di altri generi, soprattutto l’horror e il soprannaturale sotto il nome della nuova etichetta Red Mirror. Anche in questo caso l’ambientazione è il passato, nello specifico i primi anni 2000, e racconta la storia di una paparazza – interpretata da Zazie Beetz – alla ricerca di una diva che si nasconde dopo aver commesso un omicidio. La trama è piuttosto debole e non ci sono grandi sussulti fino al colpo di scena della trasformazione della donna in licantropo, una svolta piuttosto casuale e la cui allegoria – i fotografi si gettano come un branco di lupi sul debole corpo della donna, lei diventa un lupo mannaro e li uccide tutti – è decisamente poco appagante. Inutile dire che è l’episodio meno riuscito di questa stagione e forse dell’intera storia di Black Mirror finora.

Come si è già detto, “Demon 79” è stato il primo episodio ad essere scritto dalla stagione e il primo che Charlie Brooker ha co-scritto con un’altra sceneggiatrice. Anche in questo caso la tecnologia è un elemento lontano e a farla da padrone è il soprannaturale: in particolare la storia è una sorta di reverse-Aladdin, nel quale, invece di poter chiedere tre desideri, la protagonista deve soddisfare un genio malvagio con tre omicidi per evitare la fine del mondo. Una trama che così descritta ha dell’assurdo, e infatti lo stile adottato da Brooker e Ali gioca proprio con il grottesco e il paradossale: si affiancano momenti splatter ad altri più horror, passando però per situazioni decisamente comiche – come il demone Gaap interpretato da Paapa Essiedu che compone sulla cornetta il numero dell’inferno, il 666 ovviamente, per chiedere un’informazione ai suoi superiori.

Questo mix di generi e di toni del racconto si amalgamano bene e trovano nella paura e nella rabbia della protagonista Nida (Anjana Vasan) un ottimo catalizzatore; la condizione della ragazza, infatti, è quella di un’immigrata nel nord dell’Inghilterra durante una feroce campagna del partito conservatore nel 1979. Il senso di oppressione sociale e di emarginazione rispetto al contesto rendono sempre più realistica la sua discesa verso l’oscurità, propiziata dai consigli del demone ma anche e soprattutto da un’umanità dipinta al suo peggio. La storia narrata è coinvolgente e lo sviluppo procede a un ritmo sostenuto fino al catastrofico finale – anche in questo caso la lunghezza eccessiva dell’episodio si fa sentire, sebbene si adatti meglio al tipo di racconto rispetto a “Beyond The Sea”.

Per concludere si può dire che la sesta stagione di Black Mirror sia un elemento strano: da un lato è sicuramente migliore di quella che l’ha preceduta, dall’altro non si può essere del tutto entusiasti del livello degli episodi se si ripensa più in generale alla storia della serie. Per quanto riguarda l’abbandono di una sorta di unità tematica è facile ipotizzare come Brooker abbia scelto di intraprendere una strada diversa, abbandonando l’esplorazione del rapporto uomo-tecnologia e approfondendo la natura dell’umanità stessa messa di fronte al mondo che ha creato. Un tema ricorrente di questa stagione, per esempio, può essere individuato nel rapporto tra la persona e il pubblico, declinato soprattutto nel desiderio delle masse per la cattiveria, la violenza, il macabro e lo scandalo – il tema è esplicito nel primo episodio, viene ripreso nel secondo e si collega anche al quarto, solo tangenzialmente al quinto. Il qui presente tentativo di fare collegamenti non aggiunge né toglie nulla al valore dell’opera in sé, ovviamente, in quanto ogni episodio, come si è già detto deve essere esaminato nella sua unicità; si tratta però di un fil rouge interessante per comprendere le intenzioni dell’autore.

Quel che è certo, al di là di tutto, è che ancora una volta Charlie Brooker è riuscito a creare un oggetto audiovisivo in grado di far parlare di sé e creare disparità di giudizio enormi. Le valutazioni che si trovano sulle riviste specializzate e nei discorsi del pubblico, infatti, sono tra le più polarizzate degli ultimi tempi, da chi ha apprezzato tantissimo questi episodi a chi li ha odiati profondamente, e la cosa bella è che nessuno può permettersi di dire che qualcuno abbia ragione e qualcun altro torto.

Voto 6×01: 6
Voto 6×02: 7½
Voto 6×03: 5½
Voto 6×04: 4
Voto 6×05: 8
Voto Stagione: 6
Black Mirror: Bandersnatch
Quando viene lanciato un evento di dimensioni pubblicitarie e dall’impatto potenziale così forte come quello di Bandersnatch, il nuovo film/episodio speciale di Natale di Black Mirror, è inevitabile che le reazioni siano molteplici e come spesso di questi tempi, polarizzate.
L’esperimento di Netflix ambisce a utilizzare una nuova tecnologia come quella dell’Interactive Film (precedentemente usato sulla piattaforma solo per un contenuto diretto ai bambini, Puss in Boots: Trapped in an Epic Tale) al servizio di una versione audiovisiva dei racconti “Choose Your Own Adventure” – che prendono il nome da una collana editoriale per ragazzi molto popolare negli USA tra gli anni ’80 e ’90 – integrandola con il racconto distopico della serie di Charlie Brooker, che racconta ormai dal 2011 le conseguenze ipotetiche sulla società proprio dei device e delle nuove invenzioni tecnologiche. Controsenso? Non proprio, anzi alla luce della riuscita finale dell’episodio si può dire che piuttosto si tratta di una scelta perfettamente coerente con lo spirito di Black Mirror.

La forma narrativa “Choose Your Own Adventure” è stata molto popolare negli anni Ottanta anche in Italia con il nome generico di librogame: racconti che permettevano al lettore di scegliere – attraverso l’utilizzo di domande, lancio di dadi o altro – la continuazione della narrazione stessa all’interno di un set di possibili sviluppi, generando quindi molte narrazioni differenti all’interno dello stesso libro che permettevano non solo di ottenere molti possibili finali ma anche (nelle incarnazioni migliori, come quelle della serie Dimensione Avventura, edizione parziale italiana della collana Fighting Fantasy, ideata da Steve Jackson e Ian Livingstone) di dare alla storia una forma personale. Certo, specie nella serie di Jackson e Livingstone era comunque previsto uno sviluppo “ideale” in cui il lettore arrivava alla fine del libro con il finale previsto dagli autori, ma le sezioni che arrivavano fino a tre-quattrocento permettevano non infiniti, ma davvero numerosissimi sviluppi possibili alla vicenda.

Trasferire questo tipo di concetto, e questo volume di informazioni, all’interno di un singolo episodio, con sole cinque ore di girato totale, non è un’operazione semplice ed è per questo che dal punto di vista di chi ama e frequenta videogiochi e giochi di ruolo, a un primo sguardo Bandersnatch potrà apparire poco più che un divertissement che sfrutta una nuova tecnologia per impreziosire (e potenziare, con un hype forse un po’ sproporzionato rispetto all’operazione in sé) una serie che dopo i fasti delle prime stagioni non è più così universalmente amata dalla critica, nonostante mantenga un ottimo successo di pubblico e sia sempre e comunque in grado di far notizia e generare discorsi sui social media. E probabilmente, almeno in parte, Bandersnatch è un’operazione che ha nella ricerca dell’hype il suo primo obiettivo e non c’è nulla di necessariamente negativo in questo, soprattutto nel contesto di una serie che ha fatto appunto della propria notiziabilità, del proprio impatto sull’immaginario collettivo e del fanservice consapevole i propri grandi punti di forza.

Sicuramente Bandersnatch si situa su quel territorio di confine in cui si situano tutti gli esperimenti, in cui da una parte ci si prende il merito di sperimentare un update alla tradizionale forma narrativa seriale e dall’altro ci si espone alle critiche di ogni tipo. Nelle ore successive alla messa in onda queste critiche hanno preso le forme più diverse, dall’inconsistenza narrativa alla scarsa riuscita dell’ibrido stilistico: tutte critiche perfettamente condivisibili, se si tiene conto che in effetti alla fine dell’episodio ci si trova di fronte al fatto che non è un game sviluppato in modo soddisfacente, e neppure un episodio dalla grande solidità narrativa, essendo tutta la scrittura pensata in funzione delle scelte multiple e non di una fruizione passiva come d’abitudine. Ma Bandersnatch si situa appunto in una terra di confine e sperimentazione che non mette necessariamente al centro la godibilità del prodotto per ogni tipo di spettatore, ma ha l’obiettivo di sorprenderlo e interessarlo al di là della mera fruizione televisiva. Di conseguenza ci si trova ad essere insoddisfatti sia del game sia dell’episodio (soprattutto se si parte da aspettative molto alte), ma al tempo stesso si è consapevoli di aver fruito un prodotto che con tutta probabilità non aspira ad essere nessuna di queste due cose.

Prima di tutto, la forma del game usata per Bandersnatch non solo è tutt’altro che casuale – inserendosi in un discorso sul rapporto tra umano, tecnologico e narrazioni che Brooker porta avanti da molti anni – ma è anche inserita alla perfezione all’interno di un racconto metatestuale che sfonda la quarta parete e dialoga col suo spettatore ben al di là dei momenti in cui avviene la vera e propria scelta del percorso narrativo. La storia dell’aspirante programmatore Stefan, traumatizzato dalla perdita della madre e determinato a trasformare in un videogame uno dei libri da lei più amati, Bandersnatch appunto (scritto dal finzionale, pazzo e visionario autore Jerome F. Davies), si situa nel 1984, proprio all’apice del periodo dell’esplosione di videogame e librogame, un momento storico in cui questa forma narrativa pareva destinata a soppiantare in modo definitivo gli obsoleti libri tradizionali, la televisione e il cinema. Come ben sappiamo, non è andata così e questo dovrebbe essere il primo indizio a farci sospettare che Brooker non sia così incline a prendere sul serio la sua stessa operazione: fin dall’inizio e per tutta la sua durata, è l’episodio stesso a dichiarare la propria natura di divertissement, sia attraverso l’ambientazione che sceglie sia attraverso i molteplici livelli meta del racconto, che includono un ragionamento sulla forma stessa del racconto interattivo e sulla sua fondamentale irrealizzabilità pratica (Stefan stesso praticamente impazzisce nel tentativo di dare forma al videogioco così come lo immagina), una teoria delle cospirazioni che somiglia pericolosamente a una parodia retrofuture di Black Mirror stessa, una galleria di citazioni interne ed esterne alla serie, con easter egg dalla purissima funzione di fanservice – dal coniglietto bianco al poster di Ubik – e un paio di momenti tra cui il finale “istituzionale” in cui la citazione extradiegetica arriva al suo culmine e Netflix, come ormai da sua abitudine, si auto-omaggia ironicamente.

L’ironia è quindi la chiave di lettura ideale per apprezzare Bandersnatch e pertanto ha senso considerare questo episodio speciale come un’innovazione che non mira a rivoluzionare la forma narrativa seriale ma più che altro a divertirsi (e divertire lo spettatore), con un update di lusso molto utile a rafforzare i principali discorsi che fanno parte della serie fin dalla sua nascita: il dialogo con lo spettatore, la creazione dell’evento, il ragionamento sulla narrazione stessa e la riflessione pseudofilosofica un po’ spicciola, ma molto immediata, sul libero arbitrio e sul controllo dell’individuo in un’era iper-connessa come quella in cui stiamo vivendo.
Certo, in mano a una writers’ room meno focalizzata su questi obiettivi l’Interactive Film potrebbe generare ibridi narrativamente molto più interessanti: la volontà di Brooker di farci proseguire su una strada ben definita e di facile lettura metatestuale finisce infatti per privare lo spettatore delle scelte fondamentali in termini narrativi (il ricordo della madre e il trip con l’LSD) finendo per premiare in fin dei conti la forma seriale classica rispetto all’ibridazione, e questo toglie sicuramente all’episodio parte della sua carica rivoluzionaria. Ma d’altronde, ci troviamo appunto di fronte a un episodio che si inscrive in un discorso autoriale più ampio e riesce a mantenere la coerenza col progetto in maniera egregia ed estremamente efficace, e che dichiara in maniera più che esplicita i propri obiettivi, stabilendo quindi fin dall’inizio un rapporto più che onesto con la sua audience.
D’altra parte, si può senz’altro dire che moltissimi momenti di Bandersnatch, guardati da un punto di vista specificamente seriale, risultano ingenui e prevedibili (specialmente i momenti in cui l’episodio decide di strafare, come nella sequenza action), ma questo accade a fronte di altri momenti in cui il coinvolgimento dello spettatore è altissimo e reale, come nella sequenza del salto dal balcone.

Probabilmente Bandersnatch coglie quindi lo spirito dei tempi in modo molto più brillante di tantissimi altri prodotti usciti quest’anno, perché cosa c’è di più rappresentativo della nostra epoca di alternative reality e polarizzazione delle opinioni di un episodio che carica la scelta narrativa sulle spalle dello spettatore? Un prodotto che oltretutto, per la sua natura intrinsecamente ibrida, è in grado di generare una serie (questa sì) pressoché infinita di differenti punti di vista.
Nei prossimi anni l’ultima creazione di Charlie Brooker potrebbe diventare il capolavoro metatestuale dei nostri tempi o finire presto nel dimenticatoio come i librogame stessi.

E che l’abbiate amato oppure o no, in fin dei conti, la scelta è vostra.

Voto: 7½

Nota: se volete esplorare tutto l’universo di Bandersnatch senza perdere nemmeno uno dei possibili finali e sviluppi, un utente di Reddit ha fatto il lavoro sporco per voi: eccolo qui.
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