Euphoria – Stagione 1

C’è un problema di fondo con questo tipo di interpretazione, in cui ogni critico che si rispetti prima o poi è cascato: chi scrive, la realtà di un’adolescente non la conosce più – a meno che non lo sia ancora, certo, ma di solito chi ha meno di 20 anni non scrive di serie tv, almeno non nelle modalità in cui lo facciamo noi. Ma soprattutto, l’adolescenza non è una condizione monolitica, e non tutti i prodotti culturali incentrati su personaggi in questa fascia d’età dovrebbero essere per forza considerati manifesto o anche semplice rappresentazione di un’intera generazione.
Se cadiamo in questi tranelli logici, però, è perché la scrittura di questi stessi prodotti gioca proprio con l’idea che possano, in qualche modo, aprire una finestra su un mondo sconosciuto, da un lato, e restituire giustizia a una categoria bistrattata, dall’altro. Il target dei teen drama con velleità da quality tv, infatti, è duplice: gli adulti, che cercano storie sempre più “vere”, e i ragazzi, che reclamano anche loro il diritto ad una rappresentazione più inclusiva, al passo con i problemi effettivi che si trovano ad affrontare, in quanto tali ma soprattutto in quanto persone, in un mondo sempre più complesso da navigare.
Obiettivi ed aspettative del genere possono essere difficili da rispettare, e a fare la differenza è spesso la ricerca, anche stilistica, unita ad una buona dose di consapevolezza dei codici che si stanno andando a maneggiare, non soltanto, però, in chiave meramente imitativa. Se ci si limita a mettere in scena un target, più che dei personaggi, e delle tesi, più che una storia, ecco che viene fuori un prodotto terrificante come Baby, lo show Netflix ispirato alla vicenda delle “baby squillo” dei Parioli. Nella serie del gruppo di sceneggiatori Grams*, che di inclusivo e rivoluzionario ha a stento l’asterisco, è evidente fin dal primo fotogramma come non ci sia nessuna vera intenzione di raccontare la vita, men che meno quella interiore, di questi giovani romani, ma piuttosto il tentativo forzatissimo di dipingere il quadro di una generazione in crisi, qualunque cosa voglia dire. I riferimenti culturali sono chiarissimi eppure tutti sbiaditi, utilizzati senza cognizione di causa o stile personale, mentre si confonde la rappresentazione della crudezza con la glamourizzazione della prostituzione minorile.

Certamente nulla di tutto questo avrebbe la stessa forza senza una scrittura solida, che usa sapientemente il voiceover di Rue per permetterle di raccontare questa famigerata generazione Z senza parlare di “adolescenti indefiniti” (come fa invece Baby), ma di specifiche persone con cui si relaziona quotidianamente, e sempre dal suo punto di vista, che soltanto occasionalmente si sovrappone a quello dello spettatore.
Tuttavia, anche Euphoria cade in uno degli errori più classici dei teen drama, svelando senza alcun dubbio che dietro la macchina da presa e da scrivere – o piuttosto il computer – non c’è davvero l’adolescente Rue, ma un gruppo di adulti: l’uso poco ispirato e centrato del sesso, sfruttato per i propri scopi invece che raccontato. Non è un caso se le storyline più riuscite sono proprio quelle che meno hanno a che fare con questo argomento, ovvero quelle di Rue, Nate e Meggy. Troviamo invece un’insistenza problematica sul tema nell’arco di Kat, che si serve dell’ipersessualizzazione del personaggio ad uso e consumo dell’occhio maschile per raccontare un percorso di empowerment che soltanto nell’ultimo episodio si rivela in tutta la sua fragilità; e la ritroviamo in quello di Jules, dove la condizione di ragazza transgender passa inevitabilmente dall’insistenza sul sesso in maniera poco sana, sulla ricerca inevitabilmente fallimentare di un contatto intimo che si rivela degradante e, grande classico della rappresentazione trans, sul dolore.

Per fare una serie su e per gli adolescenti è quindi necessario giocare sull’estetica? Non più di quanto non sia utile (quindi non strettamente necessario, ma vantaggioso) che per qualunque altra serie. Un particolare stile, che sia un’atmosfera da noir anni ‘50 o un trucco al neon, funziona se, scusate il gioco di parole, ha una funzione. Uno dei prodotti teen più belli degli ultimi anni, il compianto American Vandal, lo ha dimostrato chiaramente scegliendo il genere documentario per 1) fare ironia meta e 2) raccontare in maniera superba e approfondita le vite, i bisogni, l’evoluzione dei suoi personaggi, principali e non. Restando fedele ai suoi codici, che ha dimostrato di padroneggiare con totale disinvoltura, ma senza spremerli, bensì semplicemente interpretandoli, la serie ha rappresentato gli adolescenti in maniera fenomenale perché ha innanzitutto caratterizzato e raccontato delle persone.
Euphoria ha fatto lo stesso, anche se non con altrettanta costanza, cadendo spesso nelle trappole del genere figlie di una visione esterna delle questioni affrontate. È una serie in cui, in definitiva, forma e sostanza sono, come è giusto che sia, un tutt’uno: ti affascina con i piani sequenza e ti fa affezionare con i racconti di Rue, mentre ad ogni puntata ti senti finalmente più vicino a questi “incomprensibili” adolescenti.
Euphoria – Stagione 2

Se già dal primo episodio di questa seconda stagione era chiaro che avremmo assistito ad un’annata esplosiva – soprattutto dal punto di vista dei rapporti tra i protagonisti –, siamo stati decisamente accontentati dal resto delle puntate. Euphoria opta nuovamente per una narrazione character driven, anche se stavolta, a differenza della scorsa stagione, non si focalizza su un singolo personaggio ad episodio ma ha più la struttura di una serie corale, sebbene con alcune eccezioni di cui parleremo.
Le storyline sono portati avanti in modo abbastanza omogeneo e lineare, con alcuni flashback – a partire da quello che racconta la vita di Fezco che apre la stagione – e alcune digressioni oniriche e in forma di monologo ad intervallare la narrazione. Il fil rouge rimane la vita turbolenta di Rue e la sua tossicodipendenza – è sempre la sua voce narrante a guidare lo spettatore – caratterizzata dagli alti e bassi ai quali ci aveva già abituato la serie e che rappresentano in modo disincantato e realistico il percorso che deve affrontare una persona con questo tipo di problemi senza arrivare a una soluzione o a un lieto fine.

Proseguendo la linea tracciata dalla scorsa annata e dai due speciali usciti a cavallo tra la prima e la seconda stagione, si capisce come Rue e Jules occupino un posto più importante rispetto agli altri personaggi nell’economia della serie. Rue, come si è detto, è la voce narrante, colei che si prende la libertà di decidere come deve essere raccontata questa storia; in questa stagione addirittura ad un certo punto sceglie di tagliare arbitrariamente una scena a causa del suo risentimento verso Jules e Elliot. Era dunque ipotizzabile che anche Jules, dopo il profondo e intenso “Fuck Anyone Who’s Not a Sea Blob” tutto incentrato sulla sua storia personale e familiare, sarebbe stata uno dei punti fermi di questa seconda annata di Euphoria: in realtà non è così, il personaggio assume inaspettatamente un ruolo di secondo piano rispetto ad altri ed è funzionale quasi solo rispetto al suo rapporto con Rue e al triangolo relazionale che viene a formarsi con Elliot (Dominic Fike), una delle new entry della stagione. Il personaggio interpretato da Hunter Schafer trova comunque, anche nel minor minutaggio e nella minore attenzione a lei rivolta in questa annata, il modo di brillare, grazie a un’ottima interpretazione dell’attrice e alle parti di racconto dedicate al rapporto amoroso tra lei e Rue. Il modo in cui gli spettatori vedono Jules è quasi sempre subordinato allo sguardo del personaggio di Zendaya, come si è già detto la narratrice (inaffidabile) all’interno della storia; nel suo flusso di coscienza Rue idealizza la bellezza di Jules trasformandola addirittura in vere e proprie opere d’arte poiché tutto è filtrato attraverso la sua immaginazione.


L’episodio però più imprevedibile, sorprendente e chiacchierato di questa seconda stagione è certamente “The Theater and It’s Double”, titolo che, con una sottile ma fondamentale modifica (its diventa it’s), richiama una raccolta di saggi del poeta francese Antonin Artaud. L’opera portata in scena da Lexi è un prodotto metanarrativo nel senso più stretto del termine: nello spettacolo scolastico – che in realtà a giudicare dalle scenografie, dai costumi e dagli effetti speciali sembra avere un budget da Broadway – Lexi porta in scena la storia delle ragazze protagoniste di Euphoria, raccontando in modo molto preciso e dettagliato amori e dissapori, senza tralasciare memorabili stoccate e frecciatine che mettono a nudo l’ipocrisia di molti comportamenti. Ovviamente nello spettacolo, che si intitola “Our story”, la storia che davvero viene raccontata è quella della stessa Lexi e della sua fatica di crescere all’ombra di Cassie, affrontando diverse paure e difficoltà tra cui quelle di non sentirsi all’altezza o di sentirsi fuori posto. Attraverso il “suo” sguardo però scopriamo anche una nuova prospettiva nel suo rapporto con Rue: le due erano molto amiche e attraverso la catarsi del teatro ritrovano la loro intimità, mostrata molto bene dal dialogo finale della stagione. L’episodio funziona piuttosto bene in quasi tutte le sue parti, riprendendo l’idea del teatro come specchio della vita e mescolando scene girate con i veri personaggi con parti dello spettacolo diretto da Lexi – quindi con degli attori – creando un effetto straniante che ricorda e cita moltissimi prodotti cinematografici sul genere, come per esempio Synecdoche, New York di Charlie Kaufman. Purtroppo, come in molte parti della stagione, anche questo segmento narrativo a tratti sembra un po’ troppo autoreferenziale e nella parte centrale dell’episodio si notano un po’ di stanchezza e alcune lungaggini evitabili.

All’ottimo approfondimento e all’evoluzione dei personaggi principali si affiancano purtroppo alcune imperfezioni e difetti che macchiano, almeno in parte, questa annata. Per esempio si può discutere della gestione, nella parte centrale della stagione, del personaggio di Cal (Eric Dane), la cui storia è ridotta ad una breve parentesi legata al suo passato e all’insofferenza della sua vita familiare nel presente; questa parte della narrazione, che mira a riabilitare almeno in parte la spregevolezza del personaggio, non si amalgama bene con il resto e, complice anche la scarsità di tempo ad essa dedicata, sembra inserita in modo forzato all’interno del racconto.
Sulla stessa onda appare ingiusto il pochissimo tempo dedicato a Kat (Barbie Ferreira), la cui crisi di coppia viene risolta in fretta e furia lasciandola relegata ad un ruolo di comprimaria, scelta che sorprende anche visto il dissacrante e significativo segmento della fantasia sessuale della premiere.

Al netto delle imperfezioni, questa seconda stagione registra un passo avanti notevole rispetto alla prima annata: liberatasi dalla struttura narrativa che si concentrava su un personaggio alla volta, Euphoria racconta una storia più organica e fa crescere i suoi personaggi di puntata in puntata facendoli passare attraverso crisi che li coinvolgono tutti – gli episodi cinque e sette sembrano quasi degli episodi “evento”. Levinson confeziona una stagione ricchissima di contenuti, sorprendente per la molteplicità di temi portati in scena e per il modo in cui gli attori si sono perfettamente calati nei ruoli a loro assegnati; non possiamo che attendere trepidanti la prossima.
Voto: 8
Euphoria – Trouble Don’t Last Always – Part 1: Rue

Incarnata dalla bellissima Zendaya, Rue Bennett è il personaggio cardine della serie, la prima metà della mela, il cui completamento è Jules, interpretata dalla vera rivelazione di Euphoria, l’attrice transgender Hunter Schafer. Rue ha diciassette anni, è bipolare, ha una chiara dipendenza dalle droghe e vive immersa e circondata dal suo dolore, che fagocita ogni aspetto della sua vita; è incapace di trovare un riscatto dalla sua condizione e l’abuso di sostanze stupefacenti è l’iperbole che ne enfatizza l’egoismo, che la porta sempre ad un passo dalla distruzione e dall’autodistruzione. Quando incontra Jules, più simile a un personaggio schizzato fuori da un manga che a un essere umano, Rue se ne innamora e la fascinazione, l’amore che prova per lei sembra portarla fuori dal baratro o, quantomeno, fa nascere in lei quel senso di risalita dal vortice che rappresenta per se stessa, la sua famiglia, i suoi amici, il suo intero mondo.

I trentenni però rappresentano la generazione precedente, quei “millennial” che, anche se hanno deciso di ignorare la cosa, stanno crescendo e invecchiando, e si avvicinano pericolosamente al vero banco di prova: diventeranno a loro volta i boomer da metaforicamente uccidere della generazione Z o troveranno una loro identità senza tradirsi, dando davvero un calcio al passato? Per rispondere a questa domanda, diventa fondamentale capire quale sia il loro atteggiamento verso i più giovani, perché solo se li riconosciamo come i nostri veri alleati potremo andare nella seconda direzione, altrimenti tra qualche anno verremo a nostra volta destituiti. Sam Levinson, millennial puro, sembra andare e disegnare la direzione giusta.

“Trouble Don’t Last Always” mette a confronto due persone e contemporaneamente due generazioni, lasciandone fuori una che però ne dirige le scene e ne scrive il contenuto. Ed è una triangolatura piena di fascino, con una carica emotiva così palpabile e travolgente che rende difficile forse guardarla tutta d’un fiato, perché riesce a trovare quella via verso l’universale che non può che sgomentare (esiste qualcosa di più spaventoso della coscienza della propria finitudine?). L’episodio è infatti scritto e diretto da Levinson che, appunto, prende questa occasione per fare quello che gli (ci) riesce meglio: partire dalle brutture della vita per disegnarne sopra le ragioni, i concetti, passando per l’esperienza come grande maestra di vita, evitando però di trasformarlo in un sermone, ma costruendolo come un innuendo crescente di emozioni. Zendaya e Colman Domingo ci donano un’interpretazione eccezionale, che parte da un’immagine di felicità di Rue che presto scopriamo essere un sogno, fatta di luci chiare e di una quotidianità che non esiste con Jules, per poi ritrovarla a parlare in un buio diner con il suo sponsor, dopo aver assunto droga nel bagno.

Religione, poesia, dolore, egoismo, passato, presente, futuro: le parole sono immerse nella luce calda ed impersonale della tavola calda e poi il silenzio viene incorniciato dalla pioggia con la chiusura totale su Rue. Anche colpevole di aver in qualche modo “tradito” l’afflato di completa libertà da cui parte Euphoria per farlo rientrare nei canoni più consoni alla sua generazione, Levinson ci regala un’ora bellissima di televisione che alla fine lascia davvero storditi. Ad alleviarne in parte la malinconia, c’è l’idea di dover attendere solo il prossimo 24 gennaio (2021, finalmente) per vedere il secondo episodio speciale della serie incentrato su Jules, diretto sempre da Levinson ma scritto dallo stesso insieme all’attrice Hunter Schafer.
Voto: 8
Euphoria – Fuck Anyone Who’s Not a Sea Blob – Part 2: Jules

Questa rivalutazione era forse prevedibile dal momento che per la prima volta vediamo ciò che è successo dagli occhi di Jules, abbandonando quindi il punto di vista della protagonista in favore di una prospettiva diversa, o per meglio dire complementare. Non ci sono infatti delle vere e proprie contraddizioni tra le due visioni, ma scopriamo una serie di questioni della vita di Jules che ci portano a reinquadrare quanto avevamo visto e sentito raccontare da Rue; i punti di contatto ci sono e vengono evidenziati da questi due episodi da un punto di vista narrativo – e visivamente solo in conclusione anche se in modo ambiguo, come vedremo.

Da un punto di vista visivo e strutturale le due puntate sono molto diverse: quella di Rue è non solo libera da qualunque sperimentazione estetica tipica della serie, ma ha anche un’impostazione teatrale inusuale, che rende lo scambio con Ali immediato e diretto (e del resto durante quella puntata Rue è sotto l’effetto di droghe, quindi aderire al suo punto di vista sarebbe stato controproducente rispetto al dialogo che si è voluto rappresentare); Jules, al contrario, è protagonista di un episodio in cui la terapia non è l’elemento stabilizzante ma è al contrario quello che innesca una rielaborazione del proprio vissuto in una chiave che sì, avrà come obiettivo quello della chiarezza, ma che nella sua prima fase non può che essere confusa, frammentaria e sconnessa – come capita a chiunque inizi un percorso di terapia.

La puntata si può quindi analizzare partendo da due colonne portanti che hanno in Rue l’elemento di connessione: da una parte la storia della madre di Jules – l’elemento che ci mancava per capire gran parte delle sue azioni – e dall’altra l’identità della ragazza che, arrivata al punto di rottura, rifiuta il suo passato nell’unico modo che le pare valido, ossia con il rifiuto di se stessa e del suo percorso di ragazza transgender.
Well, just like, how a mom sees you before you’re anything.
And, like, loves you just for that. And all you have to do is just, like, sit there and exist.

Se la propria presenza in una determinata situazione può potenzialmente salvare una vita, allora quanto è sottile il confine che divide il pensare a se stessi dal pensare solo ed esclusivamente all’altra persona? È difficile trovare una via di mezzo, che tenga conto delle necessità altrui ma anche e soprattutto delle proprie; è impossibile quando al contempo si è adolescenti e non c’è stato il tempo di costruirsi come persona prima di doversi occupare di qualcun altro.
È ad esempio per questo che il comportamento di Jules alla stazione assume tutto un altro significato rispetto a quando lo abbiamo visto: se allora era parso un atto egoista davanti a una Rue spaventata, era solo perché non potevamo vedere la paura di Jules, che solo poco tempo prima (alla festa di Halloween) aveva scoperto della ricaduta di sua madre, avvenuta dopo che quest’ultima aveva cercato di scusarsi e se n’era andata dalla casa prima che Jules decidesse di parlarle. Come può un’adolescente sentire la responsabilità della vita di un genitore tra le proprie mani e non patirne le conseguenze nei rapporti con gli altri? Peggio ancora: come può non patirle quando la persona che ama – l’unica ad averla vista per quello che lei sente di essere davvero – è un’altra persona con un grave problema di dipendenza? Ecco che la fuga alla stazione diventa per un attimo il momento in cui Jules sceglie se stessa: sceglie per una volta di non seguire, semmai di essere seguita, e se no pazienza. Certo, dura poco: e infatti Jules rimpiange quella scelta, che potrebbe averle fatto perdere Rue per sempre. Ma questo non le impedisce di essere arrabbiata, con sua madre e con Rue al tempo stesso.

Il rapporto con due donne così importanti per lei e al contempo in grado di portare un continuo squilibrio nella sua esistenza l’hanno quindi spinta a trasferire la sua vita (o almeno, l’immagine che lei aveva di una vita sicura) nei rapporti online, perché credeva di essere lei in controllo della situazione. E anche quando questa realtà si rivela falsa, rimane comunque una fantasia potenzialmente aperta a tutto, e quindi dalle infinite possibilità. Mentre tutto questo accadeva, però, ha conosciuto Rue e ha iniziato a provare qualcosa per lei: scopriamo quindi come la famosa scena del primo bacio vada anch’essa rivisitata alla luce di ciò che sappiamo ora, e cioè che il blocco di Jules non è stato per un bacio inaspettato, quanto perché quella era la realtà che invadeva il suo mondo ideale, creando un conflitto. La caduta di tutto il castello di carte coincide con la dolorosa presa d’atto che quella cosa sembrava reale ma non lo era, che quando l’immaginazione supera la realtà può essere bello per un po’, ma è destinato a trasformarsi presto in un incubo – come quello di New York.
Non è esagerato forse dire che anche Jules debba distaccarsi da una dipendenza, che è quella che la lega al suo mondo immaginario.
I feel like my entire life, I’ve been trying to conquer femininity, and somewhere along the way, I feel like femininity conquered me.

Come spesso accade quando si entra in una crisi identitaria, la scoperta di aver agito in modo scorretto nei confronti di se stessi fa rapidamente arrivare ad un rifiuto per qualunque propria scelta passata, e dunque a un rifiuto di se stessi: la necessità di costruirsi con volontà e consapevolezza sembra insomma poter passare solo attraverso un rifiuto di tutto ciò che non rispecchia la propria volontà, e questo è un processo che può portare dal senso di colpa al disprezzo più totale per se stessi, fino all’autolesionismo e ai pensieri suicidi. Jules si sente in obbligo di essere così critica nei suoi confronti perché a parlare è il rifiuto di essere stata per anni una persona che si è costruita non per volontà ma per reazione.
È una fase molto comune in chi attraversa un percorso simile, indipendentemente dalle ragioni: e l’unica soluzione sembra essere quella di abolire tutto, farsi saltare in aria e ricominciare da capo. Se caliamo questo discorso nel percorso di transizione di Jules, la realtà che ne emerge è di dolorosa presa di distanza: smettere di prendere solo i farmaci che bloccano gli ormoni maschili vuol dire far emergere quei tratti che la renderanno “non più desiderabile dagli uomini” – quelli attorno ai quali lei ha costruito “la sua intera femminilità”. E tuttavia, persino l’idea di smettere di prendere ormoni è, di nuovo, un automatismo, una reazione, e non una decisione davvero sua.

La puntata si chiude con l’incontro tra Jules e Rue, in quella notte di Natale in cui si situa la prima parte dello speciale: un confronto breve ma che questa volta percepiamo davvero come paritario perché conosciamo entrambe le parti della storia. La conclusione dei due episodi è visivamente simile e tuttavia divergente: se con Rue avevamo un’inquadratura fissa su di lei, attraverso la pioggia e il vetro della macchina, che si avvicinava sempre di più fino a un primissimo piano sul suo sguardo immobile e perso, qui abbiamo il procedimento contrario. Il dolore di Jules, il suo pianto, sono reazioni attive, che la macchina da presa cattura da vicino per poi allontanarsene, sempre attraverso un vetro e la pioggia ma con un movimento contrario, che le pone quindi in collegamento ma allo stesso modo ambiguamente distanti, o quantomeno in punti molto diversi del loro percorso.

Voto: 8½
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