The Handmaid’s Tale – 1×01 Offred / 1×02-03 Birth Day & Late

Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?».
Allora ella rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei».
Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei.”
(Genesi 30, 1-4)
Questo precetto biblico rappresenta la base ideologica che sorregge e giustifica il terrificante sistema presentato in The Handmaid’s Tale, la nuova serie prodotta da Hulu e ideata da Bruce Miller, basata sull’omonimo romanzo distopico scritto da Margaret Atwood nel 1985. La storia è ambientata in un futuro prossimo in cui il pianeta, devastato dai precedenti conflitti, è ormai preda di un feroce inquinamento chimico e radioattivo che, fra le innumerevoli conseguenze, ha causato un calo esponenziale della fertilità, portando la popolazione a raggiungere in poco tempo la crescita zero. Allo scopo di sedare i disordini e le rivolte, viene concesso ai vari governi di scegliere autonomamente i mezzi considerati necessari per ripristinare l’ordine senza l’intromissione di forze esterne. È in questo contesto che, nel Nord America, viene alla luce la “Repubblica di Gaalad”, una vera e propria teocrazia totalitaria di ispirazione biblica che si propone di assoggettare completamente le donne all’uomo, privandole di ogni diritto e proprietà, per poi classificarle in un sistema gerarchico basato sul rapporto di queste ultime con gli uomini e, soprattutto, sulla loro capacità di concepire. Tra queste troviamo le Handmaid (Ancelle), giovani donne fertili costrette ad abbandonare la loro vita precedente e ad essere addestrate per vivere al servizio di coppie ricche e sterili (composte da un Comandante e dalla rispettiva Moglie), con il solo e unico scopo di procreare uno o più figli sani unendosi, alla fredda presenza della consorte, al marito di quest’ultima.
1×01 – “Offred”


Al di là di queste possibili implicazioni, la serie di Miller si distingue, già a partire dai primi minuti, per la sua bellezza tecnica e visiva: la lentezza che pervade il pilot, lungi dall’essere un difetto, si rivela invece un ottimo strumento atto a introdurre la visione dei sadici meccanismi della Repubblica di Gaalad e a inserirli, insieme all’uso splendido e simbolico di luce e colori, in una dimensione dai toni quasi onirici, concorrendo ad amplificare il senso di inquietudine e di estraniazione provato dalla protagonista. Inquietudine alimentata anche dagli insistenti primi piani del volto di Offred, le cui espressioni terrorizzate e disgustate diventano la traccia di un profondo rifiuto che, per ora, non ha alcuna possibilità di manifestarsi se non attraverso i pensieri della donna sussurrati allo spettatore. Tuttavia, la cruda realtà del sistema distopico non aspetta a farsi sentire con l’insistente e disturbante messa in scena delle angherie subite dalle Handmaid, attraverso cui la serie scatena immediatamente un’angoscia quasi insopportabile; un’angoscia alimentata anche e soprattutto dalla credibilità stessa della rappresentazione, le cui scene di violenza e di sottomissione non risultano mai gratuite, ma s’inseriscono con maturità nell’economia generale del racconto, dando luogo a un pilot sofisticato e promettente.
Voto 1×01: 8
1×02/03 – “Birth Day” & “Late”
Le puntate successive confermano la direzione positiva presa in “Offred”, esplorando con maggiore intensità alcuni temi fondamentali e mostrando con più sottigliezza le dinamiche relazionali che vanno ad instaurarsi in un contesto così soffocante.

Questa situazione si riflette anche nel rapporto controverso che Offred instaura con Serena (Yvonne Strahovski), la Moglie del Comandante: quest’ultima, anche se in una posizione più favorevole rispetto alle Handmaid, è ugualmente costretta a sottomettersi a un sistema che di certo non la rende felice. Il suo comportamento ambiguo nei riguardi di Offred rispecchia la sua stessa disperazione, e l’instabilità emotiva che ne consegue è un’ulteriore testimonianza di quanto sia dannoso essere costretta a recitare un ruolo prestabilito che non prevede alcuna autonomia, anche se si tratta di quello del carnefice. Attraverso i continui richiami alla maternità, Offred non può fare a meno di pensare con dolore alla sua piccola Hannah. In questo contesto terrificante, la speranza di ritrovarla rappresenta la sola ed unica roccia a cui la donna si aggrappa per non cedere alla disperazione – “Because I intend to survive for her”. Tuttavia, la possibilità di una resistenza sfuma via ogni volta che la donna sembra anche soltanto pensarci: qualsiasi speranza viene eliminata prima che abbia il tempo di prendere forma. Quindi, come è possibile ribellarsi a un sistema che tiene tutto sotto controllo e che si impegna con ogni strumento a mettere le stesse donne l’una contro l’altra?

Non a caso, quindi, il livello più alto della puntata viene raggiunto nella narrazione dell’agghiacciante destino di Ofglen (interpretata da Alexis Bledel) e della sua amante, condannate brutalmente per essere omosessuali. Proprio quando pensavamo che non potesse esserci nulla di peggio, ci troviamo invece ad osservare con impotenza la sadica e fredda crudeltà con cui le due donne vengono separate e condannate. Ad Ofglen è permesso di continuare a vivere solo perché è fertile, ma il prezzo che deve pagare è a dir poco terribile: in seguito a una brevissima sentenza è costretta ad osservare, senza poter far nulla, la devastazione della sua persona, dei suoi affetti e, infine, della sua stessa sessualità. L’interpretazione della Bledel qui è eccellente: impossibilitata a parlare, attraverso i suoi occhi esprime tutta la sua disperazione e l’incredulità, in un tragico crescendo che non può fare a meno di coinvolgere lo spettatore; quest’ultimo viene così inserito nella stessa folle (ma bella) inquietudine di una serie che, fino ad ora, dimostra una maturità e una bellezza che fanno ben sperare nel successivo andamento della narrazione.

Voto: 1×02: 7½
Voto: 1×03: 8½
The Handmaid’s Tale – 1×04 Nolite Te Bastardes Carborundorum

Complessa non è ovviamente sinonimo di difficile o complicato, quanto di stratificato, ovvero qualcosa che si lascia intendere sì al primo sguardo ma che ne richiede poi almeno un secondo o un terzo, perché è al di sotto di una superficie già di per sé molto bella che si nasconde il vero cuore pulsante. Gli episodi che sono stati rilasciati tutti insieme, componendo una sorta di pilot a trittico, hanno concorso soprattutto ad impostare l’architettura del racconto, a spiegare cos’è questa “Repubblica di Gaalad” e come si compone la società al suo interno: non a caso il primo episodio si è concentrato su Offred e su chi siano le Ancelle, il secondo sulla loro vita “domestica” e infine sulle atrocità che questa società integralista riserva al suo “popolo”.

In questo “Nolite Te Bastardes Carborundorum” assistiamo ad una virata interessante, dove appunto prende corpo il senso di aggregazione, l’effetto indesiderato che un regime totalitario necessariamente innesca, cioè la nascita di una resistenza, di una società nella società. Se Ofglen/Emily aveva parlato di un network e lasciato intendere l’esistenza di una organizzazione reale parallela alla Repubblica, qui l’aspetto diventa ancora più interessante in quanto fenomeno spontaneo di mutuo soccorso, dove il costante stato di emergenza e necessità porta alla naturale ricerca della rivalsa, della ribellione e quindi alla nascita della più genuina solidarietà nella sofferenza. In questo senso si inseriscono i vari movimenti della puntata, dominati soprattutto dal rapporto tra June e Moira che tentano la fuga prima di essere assegnate alle loro famiglie e dopo aver scoperto qual era l’agghiacciante incarico che avrebbero preso. In questa lunga sequenza è riversato il senso primigenio dell’amicizia, prima visto nel dolce gesto di un dito inserito in una fessura del bagno e poi nello sguardo di Offred/June che lascia andare l’amica verso (spera) la libertà.


Il gioco dello scarabeo assume una forma ed un significato ancora più definiti in questo contesto, perché sarà infatti durante l’appuntamento serale tra il Colonnello Waterford ed Offred/June che quest’ultima scopre il destino di chi l’ha preceduta, comprendendo di avere forse una vera leva dalla sua parte, una chance che non può assolutamente sprecare. A chiudere il cerchio vediamo la comparsa del Dottore, interpretato perfettamente da Kristian Brunn, che riesce a rendere dall’ennesimo punto di vista il grande paradosso di questa società, per cui alla solidarietà e ad una proposta assurdamente ragionevole, corrisponde il losco e volgare opportunismo dello sciacallo sul cadavere – una mors tua, vita mea da brividi.
The Handmaid’s Tale è una serie da non perdere, che va seguita puntata per puntata, capace di descrivere contemporaneamente cose così distanti come l’orrore e la speranza, l’amicizia e l’integralismo ideologico, e sorretto da un cast eccezionale su cui emerge ancora una volta l’immensa bravura di Elisabeth Moss, una delle attrici più brave ed interessanti in circolazione.
Voto: 8½
The Handmaid’s Tale – 1×05 Faithful

Contando sull’attenzione degli spettatori, “Faithful” si appoggia meno del solito sul voice over della protagonista. È il sotteso tentativo di spostare l’attenzione dal chiostro mentale di June all’inesplorata fauna psicologica dei membri del contesto esteriore e ostile. Questa scelta, investigare la psicologia dei personaggi secondari, si confronta con le necessarie conseguenze di comportamenti inusuali: l’affabilità del Comandante e i progetti segreti della moglie. L’episodio, pur non distinguendosi dai precedenti per novità o stranezze, a favore di una continuità stilistica e tematica, aggiunge nuovi dettagli e allo stesso tempo si ambienta in coordinate ormai riconoscibili. Per gli eventi di forza maggiore (a parte l’importante scena al mercato) infatti non serve allontanarsi dal campo di concentramento domestico e in questo caso l’azione si svolge in nome di due poli principali: la fuga dal dolore, pericolosamente attecchito al quotidiano, e la ricerca del male minore; un patto col diavolo da un parte, una dolorosissima “scorciatoia” dall’altra. Subito si capisce che non può funzionare, che le ideologie estremiste non comprendono né mezze misure né simpatie da salotto o soluzioni facili con chi si sporge fuori dallo schema preconfezionato.

Allo stesso tempo però, su un livello più semplice, si misurano i gradi di fedeltà tra i personaggi e se ne pesa il valore in relazione alle loro scelte. A disdetta della gerarchia inflessibilmente biblica della casa, June è ormai una abitué dello studio del Comandante e si è quasi abituata al leggero flirt serale che intercorre alle chiacchierate o ai giochi. È una realtà completamente diversa (seppur adiacente alle stanze piene di regole e formule), positiva e per questo fragile; ma anche illusoria perché fondata non sul rispetto ma sulla ferma convinzione di Waterford della natura mondana dell’amore e quindi del suo opportunismo, della sua facilità e istintività. Tanto è vero che il crollo delle speranze della protagonista si innesca dopo una confessione che, cercando la compassione e la comprensione dell’altro, trova la freddezza della differenza di classe e la superiorità nel considerare i propri principi come assoluti. E anche se la frase finale suona quasi come una ammissione di colpa, il Comandante rimane molto distante da qualsiasi annacquata definizione di amico.
Non suona meno terribile l’invito alla salvezza offerto da Mrs Waterford. La serie ancora non si è addentrata nelle dinamiche della coppia di padroni, ma l’ambiguità e la tensione sembrano superare la sola Cerimonia e incrinare la solida impostazione patriarcale. La donna dubita del marito e, fidandosi di Nick (altro personaggio da approfondire viste le ultime rivelazioni), intraprende la strada ufficiosamente più battuta anche se ufficialmente illecita. L’azione comporta una serie di variabili da considerare, dal ruolo di Occhio dell’autista alle priorità di Mrs. Waterford, per non parlare delle ripercussioni su June; ma soprattutto rivela che i meccanismi ad occhio granitici della nuova società sono facili a incepparsi. L’atto compiuto a insaputa del marito è da un lato un facile egoismo, dall’altro una mano tesa verso un aiuto contorto, certo, ma sincero, a testimoniare la presenza di dicotomie nascoste nella sua personalità.

“Faithful” è un episodio eccellente. Spinge in avanti la trama, che ora dovrà fare i conti con il misterioso Mayday e la natura evoluta dei rapporti di June con gli altri personaggi; spinge in alto la forza dei temi, che raggiungono vette invidiabili da buona parte del panorama televisivo concorrente; spinge contro lo spettatore una esperienza faticosa ma importante. Difficile ora accontentarsi di meno: la partenza è stata prorompente, adesso siamo a metà di un volo grandioso.
Voto: 8½
The Handmaid’s Tale – 1×06 A Woman’s Place

L’intera puntata gira attorno all’imminente incontro del Comandante Waterford con una delegazione commerciale proveniente dal Messico, dandoci così l’occasione di osservare per la prima volta i comportamenti assunti a Galaad in previsione di visitatori esterni. Com’era da aspettarsi, ciò che affiora fin da subito è la disgustosa ipocrisia con cui si cerca di tenere accuratamente nascosta ogni traccia della fredda crudeltà che invece caratterizza appieno il sistema, coprendola con una torbida e grottesca imitazione di un paese civile, morale e illuminato. In particolare, è ben percepibile la paura che attanaglia i coniugi Waterford non solo nel temere di non concludere l’affare previsto, ma soprattutto nei confronti della terribile possibilità che i visitatori possano in qualche modo scoprire le brutalità che si celano dietro i comportamenti di ogni singolo membro della casa. In questo contesto, ci viene presentata l’Ambasciatrice Castillo (interpretata da Zabryna Guevara), una donna la cui figura indipendente e autorevole stona volutamente con le donne presenti in casa Waterford, sottomesse completamente al volere dei Comandanti e impossibilitate – qualunque sia il loro rango – a prendere ogni tipo di iniziativa. La sincera curiosità dell’Ambasciatrice nei confronti dei meccanismi di Galaad e le sue legittime (e scomode) domande rivolte direttamente a Serena e a Offred rischiano infatti di scoprire il vaso di Pandora, rivelando le atrocità in esso contenute.
Are you happy?

Tuttavia, Offred non è la sola a tentennare quando è costretta a mentire: la visita dell’Ambasciatrice ci permette infatti di gettare più luce sul controverso personaggio di Serena (Yvonne Strahovski), vera protagonista di “A Woman’s Place”. I flashback a lei dedicati scavano nel suo passato, mostrandoci una donna completamente diversa da quella figura severa e glaciale che abbiamo conosciuto finora: Serena era infatti una persona vivace, impegnata, appassionata al suo lavoro e sinceramente preoccupata per le sorti della società. Cosa ne è stato, dunque, di questa donna così intraprendente?
Never mistake a woman’s meekness for weekness.
Quella che sembrava solo l’ennesima vittima del sistema autoritario venutosi a creare, ne è in realtà una delle artefici. L’ideale che Serena condivideva (prima in modo paritario) con il marito nascondeva infatti i semi di quella che poi sarebbe diventata la Repubblica di Galaad: la necessità di mettere al mondo sempre più bambini per sconfiggere l’infertilità dilagante ha portato la donna a impegnarsi attivamente – attraverso, appunto, la scrittura di un libro dedicato al “femminismo domestico” – nell’arginare questo problema, cercando di invogliare le donne a sacrificare la vita lavorativa per occuparsi a tempo pieno delle proprie famiglie.

“My country is dying.”
“My country is already dead.”
Fin dall’inizio della puntata, si avverte qualcosa di strano nell’ossessiva celebrazione del “contributo” delle Handmaid di fronte alla delegazione messicana: l’attenzione concentrata su di loro e l’improvvisa e inaspettata dolcezza con cui Aunt Lydia si rivolge alle ragazze sono infatti i sintomi di qualcosa di ben più sinistro. È solo verso la fine dell’episodio che questi timori assumono concretezza, quando veniamo a scoprire (insieme a una sconvoltissima June) che la merce che i Waterford stanno cercando di vendere all’Ambasciatrice sono proprio le Handmaid.

Per concludere, “A Woman’s Place” è uno splendido episodio, capace di indagare a fondo nelle complesse personalità dei suoi personaggi e di riuscire ad analizzare con intelligenza gli aspetti più controversi del sistema dispotico che si propone di raccontare, confermando la qualità visiva e narrativa di una serie che, fin dall’esordio, si è immediatamente distinta per la sua bellezza e per la sua intensità.
Voto: 8/9
The Handmaid’s Tale – 1×07 The Other Side

Se, infatti, i primi episodi dello show di Hulu sono serviti, oltre a presentarci il dramma dell’ancella di cui si racconta la storia, a costruire e a far conoscere un ambiente distopico tanto surreale quanto non così incredibile a noi contemporanei, con “The Other Side” è evidente la scelta di cominciare a cementificare una trama orizzontale di più ampio respiro, che possa uscire dai confini di casa Waterford e della repubblica di Galaad. Lynn Renee Maxcy (scrittura) e Floria Sigismondi (regia) ci accompagnano, dunque, nel viaggio di Luke verso il confine, un percorso di dolore e di ricordi che occupa tutto questo sesto episodio, il meno ispirato e interessante della stagione, ma sicuramente quello di cui si sentiva più il bisogno arrivati a questo punto della storia.
I promise you, we’re gonna be all right.

“The Other Side” è, quindi, un episodio a due volti – come accennato sopra – ed esprime in questa dualità tutti i suoi pregi e i suoi difetti. Se, infatti, giunti ben oltre il giro di boa della prima stagione, e con una seconda confermata, si sentiva l’estrema necessità di esplorare una sezione narrativa alternativa e, in un certo senso, liberatoria rispetto all’insostenibilità visiva delle vicende che affliggono June, dall’altro lato cinquanta minuti poco sostanziosi completamente dedicati a Luke possono sembrare effettivamente troppi, visto e considerato che la scena finale – che mostra dove l’uomo si trova nel presente in cui è ambientata la trama principale – viene dopo un salto temporale di tre anni rispetto alla fuga. Certo, è importante che i diversi universi temporali su cui si dipana il racconto, e a cui lo show ci ha abituato – anche attraverso i flashback –, collidano quanto prima per favorire il proseguimento della storia nel presente narrativo, ma il rischio di un episodio così strutturato è quello di risultare, a conti fatti, una parte di racconto che aggiunge pochissimo alla totalità della stagione, non un filler ma quasi. Agli autori, nei prossimi episodi, il compito di smentire questa sensazione che la visione non riesce ad eliminare mai del tutto.
I love you so much. Save Hannah.

“The Other Side” è un episodio tutto sommato buono e godibile, che sopperisce ad una carenza di trama e ad un generale calo di interesse progressivo nei confronti delle sorti di Luke con una regia ispirata e un confronto passato-presente attraverso il sistema dei flashback, ormai intrinseco allo show ma mai fine a se stesso. In generale si può dire che tirare il fiato dalla cruda rappresentazione dello status in cui è costretta June, sebbene si spera solo per questo episodio, non può non essere una buona idea, anche in vista di un finale di stagione sempre più vicino.
Voto: 7–
The Handmaid’s Tale – 1×08 Jezebels

“Jezebel” prosegue sulla strada intrapresa dal meraviglioso “A Woman’s Place” e da “The Other Side” – il capitolo più debole fino ad ora; dopo una prima metà di stagione interamente filtrata dagli occhi di Offred/June, gli autori hanno infatti operato una scelta rischiosa ma al tempo stesso necessaria per dare più ampio respiro alla narrazione e favorire così la serializzazione del materiale letterario, concedendo spazio, con risultati altalenanti, alle storie di Serena, Luke e Nick.
I don’t have any choice.

It’s like walking in the past, don’t you think?
Al centro del discorso troviamo di nuovo, naturalmente, il rapporto impari tra l’uomo-soggetto (dotato di potere e libertà d’azione) la donna-oggetto (costretta a interpretare i rigidi ruoli di moglie, ancella e prostituta che le vengono imposti), vero e proprio perno concettuale su cui si fonda il regime di Gilead; “Jezebels” però fa un ulteriore passo avanti, mettendo in scena in maniera quanto mai esplicita non tanto le differenze, quanto i punti di contatto tra il passato e il presente, e quindi, indirettamente, tra la nostra realtà e la distopia. Il rasoio, i trucchi, i vestiti e lo stesso club divengono infatti al contempo simboli di un passato di (maggiore) libertà e un richiamo al controllo operato, prima come ora, sul corpo della donna, sottolineando così un’inquietante continuità tra il “pre” e il “post” Gilead.

I will not be that girl in the box.
L’unico barlume di luce in questo affresco dai toni sempre più cupi e disperati è rappresentato dall’inaspettato incontro con Moira: la gioia e la capacità di scherzare delle due donne nonostante l’incubo in cui sono costrette a vivere rappresentano una vera e propria boccata d’aria fresca per lo spettatore, la quale viene però subito bilanciata dai cambiamenti che il tempo e gli eventi hanno avuto sulla donna. Se in passato era stata Moira a credere fermamente nella possibilità di una fuga e di riacquistare la libertà perduta, ora la vediamo totalmente priva di speranze, ormai incapace di reagire anche di fronte alla notizia che Luke è vivo e rassegnata all’idea di essere una “ragazza intrappolata nella scatola”. Lo stesso non può dirsi invece di June, la quale sembra anzi sempre più determinata a scardinare la sua prigione: il fatto che stia apparentemente ripercorrendo le orme dell’ancella che l’ha preceduta – la relazione con Waterford, la scritta all’interno dell’armadio – gettano un’ombra allarmante sul suo futuro ma, parafrasando le parole che lei stessa rivolge a Nick, la possibilità di tornare a sentirsi una persona, e quindi di avere qualcuno che si ricorderà di lei, forse valgono più di qualsiasi pericolo.
Nel complesso “Jezebels”, pur non rappresentando un’eccellenza all’interno della stagione, porta avanti in maniera coerente ed efficace le tematiche cardine della serie, confermando come The Handmaid’s Tale sia senza ombra di dubbio uno degli show più rilevanti di quest’anno televisivo.
Voto: 7/8
The Handmaid’s Tale – 1×09 The Bridge

Parte del merito va senz’altro attribuito alla confezione: una protagonista come Elizabeth Moss, non soltanto attrice di talento ma anche capace di incarnare con grande sensibilità e riempire di chiaroscuri il ruolo di Offred (la Moss, tra l’altro, non solo è sotto contratto per 5-7 stagioni ma si è anche ritagliata un ruolo piuttosto attivo come produttrice); una serie di registe – tutte donne con l’eccezione del veterano Mike Barker – che hanno diretto coppie e terzetti continuativi di episodi, regalando un’impronta decisamente autoriale alla messa in scena, in particolare Floria Sigismondi che ha diretto l’accoppiata “A Woman’s Place” e “The Other Side“; e non ultimi, gli evocativi e geniali costumi di Ane Crabtree, che si è ispirata ai contemporanei culti religiosi come Amish, scintoisti giapponesi e i neozelandesi Gloriavale per disegnare uniformi e abiti semplicissimi e senza tempo, che come gabbie colorate al tempo stesso evidenziano e intrappolano gli attori.
“One of my rules was that I would not put any events into the book that had not already happened in what James Joyce called the ‘nightmare’ of history, nor any technology not already available. No imaginary gizmos, no imaginary laws, no imaginary atrocities. God is in the details, they say. So is the Devil.” (Margaret Atwood – The New York Times, 10 marzo 2017)

“Without women capable of giving birth, human populations would die out. That is why the mass rape and murder of women, girls and children has long been a feature of genocidal wars, and of other campaigns meant to subdue and exploit a population. Kill their babies and replace their babies with yours, as cats do; make women have babies they can’t afford to raise, or babies you will then remove from them for your own purposes, steal babies — it’s been a widespread, age-old motif. The control of women and babies has been a feature of every repressive regime on the planet.” (Margaret Atwood – The New York Times, 10 marzo 2017)



Voto: 7½
The Handmaid’s Tale – 1×10 Night

Ogni volta che una serie o un film ripropongono attraverso un altro medium una storia tratta da un libro, è abbastanza frequente che quest’ultimo subisca delle riedizioni e abbia una conseguente impennata nelle vendite. Nel caso di The Handmaid’s Tale però c’è di più: sono stati diversi in questi mesi i casi in cui una manifestazione sui diritti delle donne ha visto comparire attiviste vestite come le ancelle – la più recente è una protesta in Ohio contro una proposta di legge che comporterebbe delle restrizioni nell’accesso alle interruzioni di gravidanza. È un fenomeno interessante perché in questo caso si va al di là della citazione fine a se stessa per lanciare invece un messaggio di più ampia portata, un segnale che inviti l’opinione pubblica a riflettere su quanto quelle situazioni che leggiamo nel libro o vediamo nella serie non siano poi così lontane da quelle che le donne già vivono ogni giorno. Molti purtroppo ritengono che la propria cultura (bianca) occidentale sia lontana da certi estremismi, che appartengano al passato o ad altre culture, a loro volta tacciate di essere retrograde, a differenza della propria; ma è sul corpo delle donne che ancora si combattono le guerre più difficili, tanto subdole quanto più si pensa di essere “evoluti”, lontani da “certe barbarie”, che invece si perpetrano ogni giorno, anche tra chi crede di esserne ben distante.

Boy, look at these outfits. It’s a parade of sluts.
Il disordine percettivo che soggiace alla creazione stessa della Repubblica di Gilead sta proprio nel suo principio fondante: le donne fertili salveranno la nazione, ma sono al contempo impure. Come è possibile relazionarsi a delle persone che portano in sé la salvezza dell’umanità e al contempo la distruzione della morale? Solo con comportamenti costantemente contraddittori. Ne abbiamo visto esempi lungo tutta la stagione, ma soprattutto nella dinamica tra Offred e Serena Joy: le violenze, fisiche e psicologiche, si sono affiancate a gesti amorevoli con un’alternanza agghiacciante, che tocca in questo finale i picchi più alti soprattutto con la visita alla figlia di June. Quella che dalle prime parole sembra essere una rassicurazione sul destino della bambina, proprio quando June è incinta del suo secondo figlio, si trasforma in minaccia nel giro di pochissime battute, nel momento in cui la salvezza della prima viene strettamente collegata a quella del secondo. Abbiamo visto cosa Serena sia disposta a fare pur di avere un figlio, proprio lei che ha sacrificato se stessa per un progetto che l’ha tagliata fuori quanto più lei lo creava; l’abbiamo vista consapevole del fatto che siano gli uomini ad avere un problema di fertilità, eppure convinta di dover ancora aderire a quel sistema, come a mantenere l’unica facciata possibile per salvare la nazione – intimamente convinta che gli uomini non accetterebbero mai una tale debolezza.

They should have never given us uniforms if they didn’t want us to be an army.
Il flashback di inizio puntata, che ci riporta là dove tutto è cominciato (“I’m sorry, Aunt Lydia”), si riflette come in uno specchio nella potentissima scena della lapidazione, in cui per la prima volta le ancelle si comportano davvero come un’armata, anzi, come una sola donna: le hanno rese uguali – nei vestiti, nelle funzioni – ed è proprio per questo che non possono in alcun modo uccidere una di loro, perché sarebbe come ammazzare se stesse. Sono state private di tutto, umiliate, picchiate e stuprate, e qualcuna di loro non è riuscita a sopportarne il peso; in questo caso, però, lapidare Janine non è “solo” l’uccisione di un individuo, bensì l’atto di estremo annichilimento di uno dei due generi umani, il cortocircuito di quel dualismo che crea la figura dell’ancella distruggendone l’umanità per sempre, salvo poi punirla proprio quando raggiunge il punto di rottura di una follia impossibile da sostenere.

“They called me when your name came up, and you’re on my list.”
“List? List of family?”

Furthermore, I, Warren Putnam, did knowingly engage in the sin of lust and covetousness.
And by doing so, I rent the sacred covenant that exists between myself and my country, my brothers, and God Almighty.


Questa prima stagione di The Handmaid’s Tale è stata quasi perfetta nel raccontare cosa abbia condotto a questa situazione e come essa si sia evoluta; tolte forse alcune scelte poco efficaci da un punto di vista strutturale – gli episodi con focus sui personaggi sono arrivati tutti in blocco, allentando un po’ troppo la presa sulla vicenda di June –, la serie ha saputo raccontare la storia da ogni punto di vista, con interpretazioni eccezionali (su tutte Elizabeth Moss e Yvonne Strahovski), montaggi perfetti nell’alternanza tra passato e presente e una fotografia in grado di esaltare la duplicità insita nella storia. Soprattutto però si è rivelata capace di raccontare uno dei più grandi problemi della nostra società, proprio perché parte da presupposti eternamente attuali per raccontare una vicenda che appare in-credibile solo perché fa troppa paura pensare che non sia poi così lontana dalle nostre vite. Ma non è forse la negazione della realtà a generare le peggiori psicosi?
Voto puntata: 8/9
Voto stagione: 9
The Handmaid’s Tale – 2×01/02 June & Unwomen

È una sfida che si preannuncia ardua anche perché, d’ora in poi, la narrazione dello show non seguirà più la trama de “Il racconto dell’ancella” (conclusosi con le vicende della prima stagione) e dovrà intraprendere un cammino quasi del tutto autonomo che, in quanto tale, si rivela molto stimolante per le possibilità creative e narrative a cui può aspirare, ma, al tempo stesso, anche tremendamente rischioso. Nonostante ciò, la doppia premiere con cui ha esordito la seconda annata spazza via fin da subito le paure legate al ritorno di The Handmaid’s Tale e non esita a riportarci immediatamente nelle cupe atmosfere di Gilead: dopo pochissimi minuti di visione, infatti, si ha la sensazione che il tempo fra le due stagioni non sia mai trascorso.
2×01 – “June”
Il merito si trova sicuramente nella decisione di far ripiombare gli spettatori proprio lì dove avevamo lasciato June, in quel furgone dalla destinazione ignota che costringe la protagonista interpretata da Elisabeth Moss ad arrancare continuamente nel buio, mero strumento di un meccanismo che trova la sua linfa vitale nello strappare la libertà e l’autonomia di coloro di cui si serve per accrescere il proprio potere. Ed è proprio questo potere coercitivo ad essere riproposto nei primi minuti della puntata, dove la splendida scena nello stadio ripropone immediatamente tutti gli elementi che hanno contraddistinto la serie fino ad ora: la potenza visiva e simbolica della fotografia e, soprattutto, la costante angoscia scaturita dalla visione del crudo trattamento che le Ancelle sono costrette a subire. La vicenda della finta impiccagione riesce a colpire e a lasciarci senza fiato nonostante la palese prevedibilità del suo esito, e questo non può che sottolineare ancora l’ottima costruzione della serie, incrementata dall’interpretazione impeccabile di Elisabeth Moss che, con poche battute a disposizione, riesce sempre a bucare lo schermo con un’espressività capace di rendersi ancora più poliedrica man mano che il personaggio di June evolve con il susseguirsi degli eventi.

2×02 – “Unwomen”
Una delle novità più incisive di questa doppia premiere è l’intenzione degli autori di allargare i confini di The Handmaid’s Tale e di presentarci nuove ambientazioni e contesti più ampi. In “Unwomen” scorgiamo per la prima volta le terribili Colonie, luoghi tossici e radioattivi che accolgono le donne considerate ormai inutili per la società, costrette a lavorare senza sosta né protezione e, per questo, destinate in gran parte ad ammalarsi e a morire.

Anche la stessa June, seppur non costretta a sopportare le atrocità delle colonie, dovrà fare i conti con le conseguenze di ciò che ha vissuto: il ritrovamento della propria sessualità con Nick acquista ben presto un tono quasi ossessivo che sembra voler suggerire la presenza – dietro alla riappropriazione della propria vita e delle proprie scelte sessuali – di una probabile ed irrazionale voglia di offuscare con il sesso le emozioni, i traumi e i ricordi che la donna porta di certo ancora con sé. Ricordi appartenenti non solo alla sua vita da Ancella, ma anche e soprattutto a quella vita che le è stata portata via all’improvviso senza che lei potesse far nulla per evitarlo.
Dopotutto, il ritorno di Emily permette agli autori di compiere un ulteriore approfondimento dell’America precedente al regime di Gilead e di confrontare il presente e il passato attraverso l’utilizzo dei flashback: usati anche nella prima stagione, questi continuano a rivelarsi un ottimo strumento per narrare la deriva degli eventi che ha portato alla nascita di un sistema così brutale. Giovane e promettente professoressa universitaria, anche Emily è infatti costretta a veder scivolare in modo lento ma inesorabile tutti i diritti fondamentali che la caratterizzano in quanto essere umano. La gestione dei flashback si rivela, come al solito, molto sottile ed intelligente, in quanto attenta a dimostrare che ogni atto sessista (e, nel suo caso, anche ogni atto omofobo) non è mai un caso isolato e sporadico, ma fa parte di una dimensione ben più ampia che si nutre anche e soprattutto degli episodi più sottovalutati. La scena della lezione in cui viene mostrato l’atteggiamento di mansplaining, per esempio, concorre da spia di avvertimento per Emily e per le altre donne riguardo le tendenze poco incoraggianti che caratterizzano il loro ambiente lavorativo (e non solo). Si tratta di un piccolo ma deciso passo verso quell’escalation coercitiva che vedrà ben presto le donne private di ogni autonomia e libertà e che, infine, aprirà la strada alla tremenda teocrazia mostrataci in tutta la sua crudeltà.È sempre ben evidente, dunque, l’intenzione degli autori di illustrare non solo i meccanismi brutali di tale sistema, ma soprattutto quegli eventi più sottili e silenziosi che, trattati con eccessiva leggerezza, hanno avuto la possibilità di crescere fino a trasformarsi in mattoni di un muro sempre più alto e spesso, ormai quasi impossibile da abbattere.

Per concludere, The Handmaid’s Tale ritorna con una doppia premiere che riconferma l’intensa carica emotiva e la potenza visiva di una serie che ha tutta l’aria di avere ancora tanto altro da dire. Non ci resta che aspettare con impazienza i prossimi episodi per confermare l’avvio positivo di questa nuova annata.
Voto 2×01: 8
Voto 2×02: 7/8
The Handmaid’s Tale – 2×03/04 Baggage & Other Women

Nella prima stagione il mezzo attraverso il quale raccontare questa storia è stato lo sguardo di Offred, il cui nome porta in sé già la definizione di un’identità che non appartiene a se stessa ma a qualcun altro. Come fosse un’incubatrice vivente, l’ancella deve difatti vivere in virtù del suo ruolo di procreatrice e null’altro, annullando ogni caratteristica propria e ogni desiderio di libero arbitrio. La crudeltà di questa schiavitù istituzionalizzata è stata sempre più mitigata, nel corso della prima annata, dalle speranze crescenti che hanno portato infine Offred a fuggire nel primo episodio della seconda stagione e a riappropriarsi del proprio nome e del proprio corpo, come dimostrano i gesti che compie (brucia gli abiti, si auto-mutila). “Baggage” riprende la narrazione proprio da June, non più Offred, che si libera dalle catene del regime di Gilead e comincia ad assaporare la possibilità di fuggire definitivamente in Canada.
2×03 “Baggage”

Il bagaglio di June è principalmente la sua maternità: se la fuga infatti diviene per lei una possibilità sempre più tangibile, lo stesso non si può dire per Hannah, che rimane prigioniera di Gilead. Da qui si origina la dolorosa scelta della protagonista nel finale dell’episodio, costretta ad abbandonare le pochissime chance di rivedere la figlia in virtù dell’abbandono di quella terra maledetta che l’ha privata anche di tante altre cose, tra cui la dignità.
Prima di arrivare a questa decisione, però, la traiettoria del viaggio di June passa attraverso la vita della famiglia di Omar, utile soprattutto a mostrare un aspetto della società che ancora mancava nella serie, e il ricordo di Holly, quest’ultima nell’ottica di un parallelismo un po’ forzato sul rapporto madre-figlia. Dal primo incontro il personaggio di Elisabeth Moss entra in contatto con un punto di vista nuovo sulle figure delle ancelle (la moglie di Omar, infatti, dice di non capire come si possa cedere il proprio figlio, dimostrando come non sia ben chiaro all’esterno ciò a cui le ancelle sono sottoposte e soprattutto la loro impossibilità di decidere a riguardo); allo stesso tempo June capisce anche la difficoltà di un nucleo familiare – che oltretutto è molto simile a quello di cui faceva parte lei – a sopravvivere, essendo costretti a crearsi una routine “di facciata”, che lasci tutte le pratiche considerate anti-regime ben nascoste sotto il letto. Il ricordo di sua madre, invece, vuole in parte raccontare per la prima volta la dimensione di “figlia” di June – dopo che l’abbiamo vista in tutti i modi in quella di genitore – e in seconda battuta mostrare la delusione delle aspettative che Holly, attivista e convinta femminista, aveva per lei.
Laddove Kari Skogland, regista sia di questo episodio che del successivo, fa un ottimo lavoro – non facile visto che ci si allontana dalle atmosfere e dagli ambienti tipici della serie –, è la scrittura di Dorothy Fortenberry a difettare, rendendo questo episodio, seppur buono e in linea con la qualità media dello show, meno scorrevole e meno interessante di quanto avrebbe potuto essere. Per esempio, avrebbe avuto senso esplorare maggiormente la mitologia interna che regola la vita delle famiglie medie di Gilead – cioè quelli che non appartengono all’èlite, come Omar – e la figura semisconosciuta per i non lettori delle Economogli, che nell’episodio viene a malapena accennata; allo stesso modo sarebbe stato meglio donare maggiore profondità e armonia alla combinazione tra la fuga di June e i flashback sul rapporto con la madre, alle volte poco utili e pesanti sull’economia dell’episodio.
2×04 “Other Women”

Il ritorno in casa Waterford può sembrare un vero e proprio reset narrativo, ma chi pensava davvero che June sarebbe riuscita a fuggire in Canada? Certo, avendo scelto di lasciar fuggire la protagonista e avendola portata ad un passo, letteralmente, dalla libertà, gli autori avrebbero anche potuto sfruttare il maggior tempo a disposizione – tredici episodi invece dei dieci dello scorso anno – per sviluppare una parte di racconto “on the road”; con June incinta in fuga ne avrebbe giovato un lato più action che, sebbene non sia nelle corde dello show, avrebbe rappresentato una divertente variazione di ambienti e di narrazione.
Niente da fare, dunque; con la promessa di buona condotta June – che rivendica con forza il suo vero nome anche nel faccia a faccia con Aunt Lydia – può tornare a vivere nella casa da cui era fuggita, con la famiglia a cui sarà costretta a lasciare il bambino che porta in grembo. Forte della protezione garantitale dal suo stato interessante, la protagonista è un personaggio più sicuro di sé – si permette addirittura di contro-minacciare la signora Waterford – ma anche disilluso, sapendo che non avrà facilmente un’altra possibilità di andarsene da Gilead. In questo precario equilibrio psicologico si insinua la scaltrezza e l’opportunismo del regime che estrae una delle armi più potenti che ha a disposizione: il senso di colpa. Un cadavere appeso non è un’apparizione rara per June, ma in questo caso si tratta di qualcuno che si trova in una situazione conseguente ad una sua azione. La donna comprende che ogni suo passo, ogni suo desiderio, per quanto legittimo, ha portato con sé una serie di conseguenze inimmaginabili per qualcun altro; esattamente come i flashback riportano alla sua storia d’amore con Luke, che distrusse la vita della moglie.

Il finale di questo ottimo episodio, che richiama le atmosfere più canoniche dello show, lascia presagire un futuro quanto mai incerto sulla condizione di June. È possibile che casa Waterford torni ad essere il palcoscenico privilegiato della serie come lo scorso anno, ed è ancora più probabile che tutta questa annata sarà concentrata sull’intero periodo della gravidanza dell’ancella. Per quanto riguarda la sua salute psicofisica, nulla è pronosticabile.
Voto episodio 3: 7–
Voto episodio 4: 7/8
The Handmaid’s Tale – 2×05/06 Seeds & First Blood

In verità, con l’eccezione dell’esplosiva conclusione di “First Blood”, sia questo episodio che “Seeds” si sviluppano prevalentemente in un senso più attento ai singoli personaggi e alle proprie difficoltà. L’attenzione ad una narrativa generale sull’intera Gilead era stata messa da parte (ma d’altronde non ha mai formato il nucleo principale del racconto) in favore di uno sguardo più intimistico, ma sempre a fuoco, sulle diverse personalità in campo; ed è proprio il loro modo di interagire a creare il grosso del piacere della visione.
È dal rapporto June/Offred e Serena Joy che si possono capire moltissime cose sul trattamento che questa serie riesce a dare al mondo femminile. Nonostante, infatti, alcuni temi sul ruolo della donna siano più urlati e per questo, pur essendo molto efficaci, non altrettanto eleganti, ben più potenti sono i commenti che possono sorgere se al centro poniamo il rapporto tra le due donne, le loro dinamiche, la loro impossibile relazione. Ciò che funziona è che nessuno è davvero un puro carnefice, ciascuno è, a suo modo, anche un po’ una vittima. Ed in attesa di lanciare uno sguardo al passato di Aunt Lydia, che sarà indubbiamente interessante, con “First Blood” possiamo assistere ad alcuni momenti fondamentali della vita precedente di Serena, la sua personalissima partecipazione alla formazione di questo nuovo mondo e lo stallo nel quale si ritrova adesso. Andiamo per gradi.

Sull’altro versante, June è travolta dalla sensazione di aver perso, dall’incapacità di combattere dopo il clamoroso e doloroso fallimento che è stata la sua fuga, a cui non è nemmeno stato dato l’onore del riconoscimento. “Seeds” è tutto basato sul suo arrendersi temporaneo, su quel volersi lasciar andare ad un destino che si palesa attraverso le perdite di sangue di cui non comunica l’entità. Sarà solo il risvegliarsi in una sala d’ospedale, viva ed ancora incinta, che le permetterà di ritrovare se stessa e capire fino in fondo le proprie necessità. L’intero episodio sancisce la resurrezione di una donna che trova nella forza del proprio figlio non ancora nato quella forza di cui si era privata: la sua voglia di rialzarsi è ciò che le permette di affrontare ancora una volta Serena e tutte le falsità e le ipocrisie di cui la loro vita è ammantata. Nella loro danza d’avvicinamento e di improvviso rifiuto, June non può e non vuole lasciarle dimenticare che la priorità nella sua vita è Hannah, la figlia di cui ha perso le tracce e che l’altra donna ha già minacciato una volta. La speranza in una “decenza” che non arriva è il momento in cui la maschera di finzione e circuizione che le coinvolge deve esser fatta cadere definitivamente: June non ha alcuna intenzione di essere Offred fino in fondo.

Se l’arrivo di Eden funziona anche per generare nuove tensioni all’interno della casa, è con “First Blood” che lo sguardo si amplia sensibilmente e l’azione kamikaze finale è l’apripista a quello che sarà, ne siamo certi, un nuovo corso nel racconto futuro. A prescindere, infatti, dall’esito incerto e dalla conta dei morti, si tratta di un fallimento da parte del Comandante Waterford (difficile credere che sia morto), a partire da quello che doveva essere il suo grande successo, l’inizio forse di una nuova carriera. Il personaggio interpretato da Joseph Fiennes non è stato molto presente finora in questa seconda stagione, ma in questo episodio abbiamo intravisto che nulla è davvero cambiato: scalpita per più potere, è sedotto dalla forza delle donne, è succube dei propri istinti. Si tratta chiaramente di un uomo che ha sfruttato fino in fondo la situazione a proprio vantaggio ma che probabilmente non è in grado di farlo con la necessaria dedizione. E così questo nuovo colpo non potrà che aprire voragini anche all’interno della propria famiglia.

The Handmaid’s Tale poteva trasformarsi in un disastro, in questa stagione, ma finora si mantiene su ottimi livelli. Nonostante il ritmo sia talvolta imperfetto, la serie non arranca mai e riesce ancora a produrre momenti di grande bellezza. I suoi personaggi, poi, sono potenti e multisfaccettati, impossibili da chiudere in etichette prestabilite e semplici. Ciò che stupisce di questa scrittura è la sua vitalità che non cede mai al facile gusto per lo shock e il dolore: nonostante The Handmaid’s Tale sia difficilissimo da guardare, nondimeno è impossibile staccarsi dalla sua visione perché è in grado di toccare corde che poche altre serie riescono ad individuare.
Voto 2×05: 8½
Voto 2×06: 8
The Handmaid’s Tale – 2×07/08 After & Women’s Work

I need a pen
L’episodio che ha forse spostato definitivamente gli equilibri di Gilead è stata appunto la violenta esplosione durante un’importante conferenza del Partito, che ha visto tra le sue vittime anche decine di Ancelle, costrette a partecipare all’evento. Oltre a questo turning point importante, l’altro aspetto interessante dell’evento è come lo si legge: al di là delle opinioni lineari e scontate (condanna del partito, nuova speranza per chi subisce soprusi), è il punto di vista di Janine che sorprende un po’: leggerlo come la volontà di Dio per un disegno più grande fa quasi sorridere, specie per la mente della persona che lo ha partorito. Ma la lettura di Janine risulta sorprendente se la interpretiamo rispetto al canovaccio che si dipana in queste due puntate: alcune delle Ancelle vengono “salvate” dalle Colonie e riportate in città, si dà loro la possibilità di conoscersi meglio, di fare quasi comunella come non era mai capitato prima, e Janine ricoprirà un ruolo fondamentale nella questione della sua figlia neonata che è malata e quasi senza speranza. Insomma, i morti – soprattutto tra le Ancelle – non sarebbero altro che un disegno divino per qualcosa di più grande e importante: molto interessante che questa lettura venga appunto da una persona che ha subito di tutto e di più da quando esiste la Repubblica Divina.
Proprio l’attentato accende in June il senso di colpa di non avere mai saputo il vero nome dell’attentatrice. Si rende conto definitivamente di quanto quello che sta succedendo sia spersonalizzante non solo a livello personale, ma soprattutto a livello sociale. È quindi così che nasce la scena al supermercato, dove a giro tutte le Ancelle si presentano con il loro nome di battesimo, ritornando ad essere delle persone: solo così si può battere l’ignoranza e il dispotismo, alzando la propria voce e dicendo chi siamo. Perché, come dice il cartello finale de Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud, “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”: la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi.

Someone once said: “Man are afraid that women will laugh at them. Women are afraid that men will kill them.”
Con l’ottava puntata si continua il discorso fatto nascere nell’episodio precedente, mettendo al centro Janine e la storia della bambina partorita per i Putnam. È proprio Janine, con il suo quasi ingiustificabile buonumore, il centro del cambiamento in atto: illuminante il dialogo quasi normale che ha con June durante la passeggiata, quando fa riferimenti diretti alle saghe di Star Wars e Alien. Uno di quei dialoghi che si hanno quando si parla del più e del meno, quando si discute di cose futili solo per stare un po’ in compagnia (June che le risponde “Il sequel era molto meglio” suona talmente strano da farci sorridere a trentadue denti), un momento che ci riporta a quella cultura pop che è stata sradicata da questo nuovo Governo, ritornato di colpo indietro di duecento anni. Anche questo episodio ci parla ancora prepotentemente dei diritti delle donne: se finora ci si era concentrati sul ruolo della donna in una società maschilista – portando il tutto all’estremo, ma neanche troppo, se ci pensiamo bene – ora il verso della narrazione sembra cambiato, virando sulla lotte delle donne, che devono ricominciare da capo un percorso cominciato appunto decenni fa e che ancora oggi non ha dato tutti i frutti sperati.

Rinascita che passa anche attraverso l’utilizzo di una Martha come medico imprescindibile nel caso della figlioletta di Janine: una donna, peraltro di colore, che torna al suo lavoro ancora grazie a Serena, che si ammutina pur di dare speranza alla neonata, e di conseguenza anche a Janine, già la seconda Ancella che entra nel campo misericordioso della Waterford. Proprio questa scelta ha ovviamente delle ripercussioni, che si materializzano nella punizione medievale di Fred: veniamo riprecipitati in quel mondo oscuro che è Gilead, troncando forse una speranza che si intravedeva tra le crepe di questa nuova società, che nuova (in senso lato) non lo è affatto.
The Handmaid’s Tale sforna quindi due puntate degne di nota, che danno una svolta importante alla stagione e alla serie stessa, tenendo fede alla sua qualità e al suo ritmo, suggerendoci che forse, più forte della morte, della scienza e persino di Dio, c’è solo l’amore.
Voto 2×07: 7
Voto 2×08: 7½
The Handmaid’s Tale – 2×09/10 Smart Power & The Last Ceremony

La difficoltà deriva dal dover decidere cosa mostrare e fino a che punto mettere in scena le crudeltà di una dittatura come quella di Gilead; non è facile trovare la misura, né il punto di rottura nella valutazione della differenza che si trova fra una esposizione narrativamente giustificata e una provocazione fatta e finita ai danni dello spettatore. E non è neanche qualcosa che abbia degli standard oggettivi riconosciuti: al di là della giustificazione narrativa, è poi nella sensibilità di ciascuno che risiedono i limiti di sopportazione e, di conseguenza, di contestualizzazione di una violenza messa in scena come necessaria o sentita come “di troppo”. “Smart Power” e “The Last Ceremony” sono puntate che hanno entrambe il compito di ricordarci (e riportarci a) cosa sia davvero Gilead e non perché qualcuno possa essersene dimenticato; ma perché purtroppo l’abitudine è la peggior nemica della memoria emotiva, e quello che all’inizio può sconvolgere – lo stupro delle Ancelle come base della comunità di Gilead – rischia di diventare non certo normale amministrazione, ma qualcosa che fa male senza più impressionare, che ferisce ma che viene allontanato per autodifesa, o perché “ormai lo sappiamo bene cosa succede” e dunque possiamo permetterci il lusso di non pensarci più con la stessa intensità.

It’s sad what they’ve done to you.
Dopo un inizio di stagione piuttosto altalenante, soprattutto nel tratteggiare il personaggio di June/Offred, a seguito dell’esplosione della bomba nel sesto episodio il racconto è riuscito a ritrovare la sua strada grazie a un temporaneo rimescolamento delle carte che, con Fred lontano dai giochi, ha permesso a June e a Serena di avvicinarsi e di iniziare a porre le basi di un’alleanza tutta al femminile, che nell’ottavo episodio ha raggiunto il suo punto più alto.

È per questo che, nonostante le umiliazioni ricevute in Canada – non ultimo il sottile ma devastante attacco alla sua formazione, che è in realtà molto alta, mentre lei viene scambiata per analfabeta con la consegna di un programma giornaliero fatto di soli disegni –, nonostante i dubbi suscitati dall’arrivo di Luke con la foto che lo ritrae insieme a June e ad Hannah, nonostante tutto questo Serena non si muove di un millimetro. Non accetta nessun tipo di aiuto e non lo chiede; ed è solo per zittire quella voce interiore che le dice che sta sbagliando (quella stessa che la porta a guardare fuori dal finestrino una città viva e soprattutto libera) che la donna arriverà, con l’episodio successivo, ad estremizzare ancora di più il suo comportamento. Lo farà lei ma anche Fred, che subisce un processo simile – con la differenza che i suoi dubbi non sono certo sul sistema, ma causati dal suo punto debole, di nuovo June – e che dall’umiliazione del Canada farà derivare un identico inasprimento del comportamento. Tutto questo, però, non prima di aver subito entrambi altri due colpi bassi dalla stessa June.

Mrs. Waterford wants to see you.
L’abitudine all’orrore, si diceva all’inizio: forse per questo “The Last Ceremony” si apre su una “cerimonia” che altro non è se non l’ennesimo stupro cui una donna, Emily, è sottoposta e da cui si aliena – e ce lo ricorda, sottolineando il concetto di allontanamento da sé, non la voce di Emily ma quella di June (“You pretend not to be present, not in the flesh You leave your body”), che ci riporta di colpo a quei rituali che non vedevamo da un po’ ma che non per questo devono essere dimenticati. La ripetizione dell’atto, delle parole con la voce di June, è un ricordo vivente del fatto che mentre eravamo impegnati a guardare altro (la gravidanza, l’esplosione, i tentativi di fuga, le temporanee alleanze) tutto questo non ha mai smesso di andare avanti, esattamente come, in migliaia di altri posti del mondo, ora, mentre leggete questa recensione, si stanno consumando atti di violenza ai danni di altri esseri umani (spesso donne, per il solo fatto di essere tali).


I just wanna tell you that I will always be your mommy. You know that?
And Daddy and I will always love you.
È un divieto che non conta solo per le violenze perpetrate ai danni delle Ancelle e delle donne in generale a Gilead, ma anche (con una tempistica impressionante se si pensa alla risonanza mondiale in questi giorni riguardo agli eventi al confine Messico-USA) per quelle ai danni dei bambini, strappati dai genitori e soprattutto dalle loro madri ancora e ancora, prima come figli della vita precedente e poi come figli della dittatura, quei bambini che centinaia di Ancelle mettono al mondo e che sono costrette ad abbandonare. La tortura cui viene sottoposta June in questo episodio non si conclude infatti con lo stupro, ma si perpetua con quella che pare essere “la ricompensa” di Fred e che invece si rivela un altro drammatico momento di separazione per la donna, forse uno dei più devastanti visti fino ad ora.

Come riporta Chang, i genitori separati dai figli tendono ad accumulare verso la fine migliaia di consigli, perché dopo lo shock arriva il momento della consapevolezza, quello in cui il genitore si ricorda del suo ruolo e cerca di concentrarlo in pochissimi minuti, lasciando il figlio con un sorriso e parole di conforto; ed è in effetti quello che vediamo da parte di June, che all’inizio è sconvolta dalla visione di sua figlia dopo così tanti anni e che solo alla fine le riserva quelle parole che vorrebbe la bambina ricordasse per tutta la vita. Il suo stesso inseguire la figlia in mezzo alla neve non è solo per l’ultimo abbraccio; ma perché l’ultima separazione non può essere, di nuovo, un uomo che la strappa dalle sue mani, come accade nella casa e come era già accaduto, anni prima, nel bosco. Deve essere un lento separarsi, con il tempo di decidere quando staccarsi dall’abbraccio (e in quest’ottica fa ancora più impressione la contemporaneità delle notizie di questo periodo) con serene parole di conforto (“So, what you’re gonna do, is you’re gonna take your Martha’s hand. You’re gonna get in the car. And you’re gonna go home”).

Ciò che accade in seguito, il rapimento di Nick e l’abbandono di June da sola in quella casa, rappresenta forse l’unica nota stonata dell’episodio, che si conclude con un cliffhanger non necessario dopo una puntata simile – non solo perché già incredibilmente intensa, ma anche perché quello che dovrebbe essere un plot twist importantissimo diventa, a seguito di tutto quello che abbiamo visto, ridondante e svuotato del suo significato.

Voto 2×09: 8
Voto 2×10: 8½
The Handmaid’s Tale – 2×11/12 Holly & Postpartum

Sta diventando ormai chiaro – anche a quelli che sono i più fervidi sostenitori del regime teocratico – che non c’è assolutamente nulla che possa giustificare tutto questo: il confronto con il passato e, soprattutto, con un presente in altri luoghi libero dalle “regole” di Gilead non può che mostrare in tutta la sua evidenza la tremenda insensatezza di quel mondo costruito sul terrore e sul dolore altrui. June, in questo delicato contesto, ha di fronte la terribile sfida di dover dare alla luce una figlia che verrà strappata ben presto dalle sue braccia e per cui sarà costretta a rivivere e a sopportare di nuovo il trauma della separazione già vissuto più volte con la piccola Hannah.
Abbiamo lasciato, con il cliffhanger finale in “The Last Ceremony”, la nostra June in una situazione a dir poco disperata: rimasta in una casa sconosciuta e priva di elettricità, la donna potrebbe partorire da un momento all’altro in completa solitudine. Sarà proprio questa solitudine a caricare “Holly” di un’intensità tale da imporlo come uno degli episodi più belli e significativi di questa seconda annata: la casa in disuso, circondata dalla neve e dal silenzio, è il palcoscenico ideale per mostrare una nuova trasformazione di June; il punto di arrivo di un percorso interiore che, dopo il tentativo mal riuscito di fuga a inizio stagione, sembrava essersi arrestato sotto il peso dei tremendi traumi vissuti dalla donna, il cui slancio vitale si era ormai arenato per lasciare il posto ad una sottomissione apatica ed umiliante, unita al temporaneo distacco dai suoi affetti.

Dopotutto, questo filo che riesce a legare June alla persona che era in passato sembra ormai reciso, invece, (com’è chiaro tanto in “Holly” quanto in “Postpartum”) in Serena e Fred: la bellissima scena che vede il loro arrivo irruento in casa alla ricerca dell’Ancella e lo scontro che ne consegue dimostrano in pochissimi minuti quanto la tremenda routine che i due impongono – ma a cui sono a loro volta sottoposti – sia fondata su un’ipocrisia così dilagante da non poter essere più ignorata come prima. E il fatto che, per la prima volta, Serena utilizzi senza timore la parola “stupro” dimostra quanto il castello di gesti, formule e cerimonie religiose costruito da Gilead per ritualizzare quelle che in realtà sono violenze inaccettabili stia soccombendo sotto il peso insostenibile della gravità di queste azioni.
Nonostante questo, però, Serena è ancora furiosa per aver rischiato di perdere di nuovo June e, con lei, la possibilità di diventare madre: sembra essere stata proprio la disperata voglia di avere un figlio a muovere, almeno inizialmente, il personaggio interpretato da Yvonne Strahovski verso questa strada; un desiderio, questo, che si è tradotto – con l’assuefazione prolungata ai sistemi di Gilead – in una delle forme più crudeli e sconsiderate di egoismo, contribuendo al nascere di quelle contraddizioni che costruiscono l’animo stesso di Serena, che oscilla in maniera sempre più forte fra la crudeltà e la tenerezza, fra l’empatia e l’indifferenza. Non stupisce, dunque, che June abbia preferito evitare il suo “soccorso” e restare nel pericolo e nella solitudine di un posto sconosciuto. Anche il momento in cui la ragazza rinuncia a sparare col fucile verso i suoi odiati vessatori segna una decisa presa di distanza dal loro modus operandi: June non può fare a meno di avvertire la disperazione di Serena, e forse è stato proprio questo piccolo slancio di empatia a farla desistere dal premere il grilletto.

Tuttavia, il terribile destino di Eden – condannata a morire per il solo motivo di essersi innamorata di un altro uomo – sembra aver reso chiaro anche alla fredda Serena l’entità della follia di Gilead. Il “sacrificio” della giovanissima Eden potrebbe essere stato il colpo decisivo per scuotere la donna dalle proprie illusioni: la decisione finale in cui permette finalmente a June di allattare Holly è sicuramente una delle conseguenze delle considerazioni e delle emozioni sgorgate a seguito di quella terribile condanna a morte. Dopotutto, lasciare il segno attraverso la propria storia – positiva o negativa che sia – viene considerata, in entrambe le puntate, come l’azione più importante e significativa. La trasformazione del celebre pensiero di Cartesio: “penso, dunque sono” in “racconto, dunque sono” è un’immediata quanto efficace messa a fuoco dell’intento principale che sorregge l’intero The Handmaid’s Tale: la condivisione, l’ascolto e la considerazione di ogni vita, di ogni storia. Finché ci sarà qualcuno che ascolta le nostre storie e che crede alle nostre emozioni, nessuna vicenda, neanche la più triste e crudele, sarà insensata e insuperabile. Il raccontare e l’ascoltare, il fidarsi e il credere diventano allora i pilastri di ogni tipo di resistenza e un solido aiuto per risollevarsi da qualunque situazione.

Per concludere, “Holly” e “Postpartum” sono due episodi significativi e di grande intensità che preparano bene il campo all’ultima puntata, coronando la parte finale della stagione con la classe e bellezza che hanno da sempre contraddistinto The Handmaid’s Tale e che, ancora una volta, non cessano di brillare.
Voto 2×11: 8½
Voto 2×12: 8
The Handmaid’s Tale – 2×13 The Word

È lo stesso creatore Bruce Miller – affiancato dal regista Mike Barker – l’autore di questo struggente “The Word” che fa calare il sipario sulla seconda stagione dello show, un’annata che, nelle intenzioni, doveva essere quella della conferma definitiva per The Handmaid’s Tale. Al termine della visione, si può affermare tranquillamente che le aspettative non sono state per niente deluse, seppur con qualche piccola riserva.
Riserve che sono – quasi – tutte destinate alla prima metà della stagione: fino al plot twist finale di “First Blood” la sensazione era che il potenziale narrativo della serie derivante dall’escalation finale dello scorso anno non fosse stato sfruttato a pieno. Tecnicamente la serie si è sempre mantenuta ottima, ma le idee e le soluzioni di trama cominciavano a scarseggiare, portando lentamente The Handmaid’s Tale ad una pericolosa ripetizione di temi e momenti già affrontati che rischiavano di impantanare lo show. La prima fuga di June – protagonista dei primi episodi – si esaurisce subito, fin troppo velocemente, e il ritorno alla routine di casa Waterford è un campanello di allarme che però, fortunatamente, gli autori avevano preventivato e messo in conto. Infatti, la scelta di non focalizzare interamente la storia sulla protagonista ma di esplorare anche la condizione in cui si trovano Emily e Janine – la vita delle unwomen nelle Colonie – riesce a tenere viva l’attenzione e a non far perdere di vista il focus dello show: non quello di raccontare semplicemente la storia della resistenza a un regime tirannico e oppressivo, ma soprattutto quello di creare un dialogo con la contemporaneità sul ruolo sociale della donna e sulla storica subordinazione del genere femminile a quello maschile, che nella serie viene portato alle estreme conseguenze.
Dall’attentato che chiude il sesto episodio, dunque, il ritmo aumenta considerevolmente e la varietà di situazioni di moltiplica: dalla conclusione della gravidanza di June – nello splendido “Holly” – alla figura tormentata di Eden, uno dei migliori nuovi personaggi della stagione, e al relativo percorso che la porterà alla morte. Un’accelerazione che si porta dietro la crescita della qualità di scrittura degli episodi e alcune scelte azzeccate; soprattutto il confronto di Gilead con la società canadese e la trasformazione radicale di Serena, che si eleva a protagonista assoluta di questa annata al fianco di June.

La rivoluzione più difficile da portare a compimento è, tuttavia, quella personale: la voce off-screen di Elisabeth Moss ricorda, difatti, del lento processo di spersonalizzazione dell’individuo che il regime opera. Ancelle, mogli, figlie, nessuna sfugge all’epiteto che le è stato assegnato; non c’è spazio per la definizione della personalità, perché non è lecito che ne possa esistere alcuna. Esistono solo ruoli e compiti da svolgere in questo grande meccanismo sociale in linea teorica perfetto per garantire la sopravvivenza della razza umana – si ricordi che l’ambientazione è quella di una crisi della fertilità. Laddove però l’imposizione da parte dell’autorità diventa più importante e la crudeltà insostenibile, ecco emergere la forza reazionaria che da silenziosa – come era stata sinora nella maggior parte dei casi – in questo finale viene finalmente urlata a pieni polmoni. E così assistiamo al già citato intervento delle mogli nei confronti dei gerarchi di Gilead, al piano delle “Martha” per far fuggire June e Holly, ad Emily che pugnala improvvisamente Aunt Lydia e alla scelta inaspettatamente umana del comandante Lawrence, che si dimostra il primo teorico del regime ad avere dei ripensamenti.


The Handmaid’s Tale chiude così la sua seconda annata con un buon finale che sceglie consapevolmente di concludersi in modo ambiguo, nell’ottica di alimentare ulteriormente l’hype per la terza stagione. La gravidanza di June, che è stato il filo rosso sul quale è stata edificata la trama stagionale, ha rappresentato un ottimo pretesto per riprendere le tematiche che già la prima annata aveva ben esplorato e vederle sotto un altro aspetto, inciampando tuttavia più di una volta nella trappola della ripetizione. Una stagione a due facce e a due velocità, che si mantiene su ottimi livelli ma che non riesce a eguagliare la prima, che però, è giusto dirlo, aveva dalla sua l’effetto della novità inaspettata.
Voto episodio: 8
Voto stagione: 7/8
The Handmaid’s Tale – Stagione 3 Episodi 1-3

La scelta che nello scorso season finale aveva visto June lasciare Nichole nelle mani di Emily e rifiutare una fuga da Gilead aveva fatto legittimamente storcere il naso a più di una persona, soprattutto perché la – seppur comprensibilissima – necessità di salvare la sua prima figlia si scontrava col fatto che non ci fosse dietro di lei alcuna rete di supporto, alcun alleato da cui tornare. Si è trattato di una decisione che ha visto nella narrazione la sua esigenza più forte (tenere June a Gilead per mantenere qui il centro del racconto) ma che ha costretto il personaggio ad una decisione davvero troppo impulsiva, soprattutto visto che non era la prima volta che provava a scappare. Ed è per questo che, con la nuova stagione, vediamo subito Lawrence tornare indietro: perché introdurre un deus ex machina che intervenisse per togliere June da una strada letteralmente senza uscita (i controlli sono ovunque) era l’unico modo per non rendere la sua scelta una mossa suicida. La questione dell’occasione perduta torna quindi a ripetersi a partire dalle prime scene: di nuovo, The Handmaid’s Tale ci pone davanti alla speranza – June che va a casa dei McKenzie per prendere sua figlia – solo per togliercela (ormai in modo prevedibile) dopo pochissimi minuti.

La scelta di Fred di non punire in alcun modo le due donne potrebbe apparire ancora completamente fuori contesto (come tutte le volte in cui ha salvato June), a meno che non la si voglia interpretare come una necessità (ormai potremmo dire esistenziale) di Fred di negare il più possibile tutto ciò che esce dal suo schema “Gilead-casa-famiglia”: è questo ciò che sembra emergere dal suo dialogo con Serena, in cui la confessione della moglie di aver dato via la bambina viene riletta come un errore dello stesso Fred, che avrebbe portato la moglie alla disperazione con il suo comportamento e le sue punizioni. Se c’è un fattore effettivamente interessante nella dinamica tra i due è proprio la differenza tra chi è ancora immerso nella filosofia di Gilead e chi invece ha – dopo aver a lungo rifiutato – sollevato il velo e visto il disastro che questo nascondeva. Non è difficile vedere come Serena sarà una parte fondamentale della resistenza da qui in poi, ma forse il semplice fatto di poterlo prevedere è già di per sé un elemento che non gioca a favore della serie. La fine della coppia Waterford, almeno per come la si è intesa fino ad ora, si trova simbolicamente nella messa a fuoco della casa e in particolare del letto, una scena che se sulla carta poteva funzionare, nella pratica patisce di alcuni dettagli semplicemente irrealistici (Serena che rimane minuti interi in una stanza che sta andando a fuoco a pochi centimetri dal letto in fiamme) o assoggettati ad una regia che vede in un certo modo di raccontare (ad esempio il rallentamento con cui June osserva il fumo prima di cercare, con calma, di capirne l’origine) uno sguardo di alto prestigio e che invece risulta semplicemente fuori posto e non necessaria.



Ci sono sicuramente dei momenti che possono far sperare, ma fino ad ora questi tre episodi della nuova stagione di The Handmaid’s Tale tendono a riprodurre schemi già osservati nelle scorse annate: qualche accenno a quello che sarà il tema della stagione – ovviamente la resistenza – apre il campo a delle possibilità narrative nuove, ma a meno di qualche importante scossone nella trama sembra che la serie sia ormai bloccata nel suo stesso modus narrandi, che ne ha fatto la fortuna durante la prima stagione ma che ormai, giunti alla terza, mostra la corda anche quando le interpretazioni sono di altissimo livello. Tempo per migliorare ce n’è, ma da ben tre episodi ci si poteva aspettare molto di più.
Voto 3×01 “Night”: 6-
Voto 3×02 “Mary and Martha”: 6+
Voto 3×03 “Useful”: 7
The Handmaid’s Tale – Stagione 4

La prima ipotetica parte in cui sono suddivise queste nuove dieci puntate – e diciamo fin da subito che il ritorno alle origini di lunghezza stagionale non può che avere giovato al prodotto – possiamo definirla quella della quiete prima della tempesta, ovvero un nascondiglio sicuro dove leccarsi le ferite prima e decidere come contrattaccare poi.
La scelta di inserire nel racconto una giovanissima moglie di un decrepito Comandante è già una delle decisioni azzeccate di questa nuova stagione: non solo ovviamente per il contrasto che ancora una volta sottolinea quanta ipocrisia stia dietro al credo di Gilead, ma soprattutto perché comincia la trasformazione in dea assetata di sangue di June Osborne. Avere come specchio una così giovane donna che fiammeggia dagli occhi la sua voglia di vendetta fa scattare dentro qualcosa dentro June, che forse si era sopito sotto una coltre di stanchezza e di senso di sconfitta che si stavano depositando sull’animo di una delle Ancelle più combattive di tutte. Il vedere questo sacro fuoco, la rabbia con cui la ragazzina deve convivere e la sete di vendetta che la animano rimette in moto June e fa da miccia al tema principale di questa annata: fin dove è giusto spingersi nel cercare conforto in una vendetta violenta e dove diventa violenza fine a se stessa?

In questa parte viene cementato il rapporto che c’è tra June e Janine, un rapporto quasi tra sorelle dove la prima tenta in tutti i modi di proteggere l’altra ma nello stesso tempo non riesce a farne a meno, perché Janine rappresenta ancora quel lato quasi bambinesco e spensierato che inevitabilmente si perde nell’età adulta, figurarsi in un contesto del genere. Janine è l’altro modo di affrontare una tragedia: può sembrare un po’ stupida, ma la ragazza non lo è affatto; quello che le riesce è estraniarsi il più possibile dal contesto, vedere in ogni cosa che le succede un lato che quasi tutti gli altri non vedono. È per questo che Janine completa in modo evidente June, ed è per questo che la sequenza del bombardamento su Chicago e la successiva divisione delle due spalanca la porta dell’essere vendicatore che è dentro June, tenuto sopito fin troppo, quasi come se la sola presenza di Janine – e l’importanza di preservarle la vita – tenesse a guinzaglio questo mostro che ora, dopo il salvataggio e la traversata salvifica del Lago Michigan, è libero di fare ciò che ritiene più opportuno. E che soprattutto sente benissimo l’odore del sangue.

Tutta la parte che si svolge in Canada è infatti la chiusura del cerchio aperta con il pilot, un destino per le parti in causa che fino a qualche puntata fa sembrava non potesse mai verificarsi: i Waterford sul banco degli imputati e June come testimone d’accusa. Gli autori sono stati bravi a rendere la protagonista via via sempre più arrabbiata, sempre più vendicativa – importante in questo senso la sequenza nella fattoria ad inizio stagione, quando viene giustiziato uno dei soldati di Gilead dalla furia cieca di un gruppo di donne – per farla arrivare qui al punto di rottura, ad un punto di non ritorno che lei sembra bramare e che quelli che stanno attorno a lei non capiscono, perché non hanno vissuto in prima persona tutto quello che abbiamo visto.
Il gruppo delle sopravvissute e l’inserimento del pentimento di una Zia sono il prologo di quanto vedremo nel finale, soprattutto la reazione di Emily alla notizia del suicidio della pentita: quel suo “sto benissimo” accompagnato da un sorriso soddisfatto è il perfetto ribaltamento dei personaggi – soprattutto quelli femminili – a cui ci siamo affezionati.
È questo forse il vero lascito della stagione, una questione morale già ampiamente dibattuta in altri show ma che qui rende ancora meglio per la crudezza con cui molte sequenze sono state messe in scena, specie quelle delle violenze sia fisiche che psicologiche sulle donne: fino a dove ci si può spingere nella vendetta? È sempre giustificata la violenza in risposta alla violenza?
L’immagine fugace di Waterford impiccato nel bosco è sicuramente lo screen più bello e pregno di significato dell’intera stagione, insieme alla sequenza in cui June abbraccia sua figlia ancora sporca di sangue: è questa la vera essenza di The Handmaid’s Tale; la crudezza con cui affronta determinate scene è la cifra stilistica perfetta di questa serie, che ogni tanto si era persa, mentre è tornata prepotente in questa quarta stagione che, come detto, chiude un capitolo gigantesco della storia per aprirne uno totalmente nuovo e imprevedibile.

Tutto sommato sono state poche anche le sequenze in cui June e le sue compagne di viaggio andavano incontro a una fortuna sfacciata: la serie è stata spesso criticata in passato per questi particolari che inficiavano un po’ la bontà del racconto. Per fortuna in questa annata di situazioni del genere se ne possono contare poche, rendendo il tutto più fluido e soprattutto credibile.
The Handmaid’s Tale è quindi tornata sugli ottimi livelli della prima stagione, giocando ancora di più sulla tensione e sul dispiegamento in alcuni casi sorprendente degli eventi: per questo la quinta stagione, vista fino a qualche mese fa come di troppo, potrebbe essere l’inizio di un nuovo modo di raccontare questa storia.
Voto: 7+
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