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The Handmaid’s Tale – 1×01 Offred / 1×02-03 Birth Day & Late
“Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!».
Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?».
Allora ella rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei».
Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei.”

(Genesi 30, 1-4)

Questo precetto biblico rappresenta la base ideologica che sorregge e giustifica il terrificante sistema presentato in The Handmaid’s Tale, la nuova serie prodotta da Hulu e ideata da Bruce Miller, basata sull’omonimo romanzo distopico scritto da Margaret Atwood nel 1985. La storia è ambientata in un futuro prossimo in cui il pianeta, devastato dai precedenti conflitti, è ormai preda di un feroce inquinamento chimico e radioattivo che, fra le innumerevoli conseguenze, ha causato un calo esponenziale della fertilità, portando la popolazione a raggiungere in poco tempo la crescita zero. Allo scopo di sedare i disordini e le rivolte, viene concesso ai vari governi di scegliere autonomamente i mezzi considerati necessari per ripristinare l’ordine senza l’intromissione di forze esterne. È in questo contesto che, nel Nord America, viene alla luce la “Repubblica di Gaalad”, una vera e propria teocrazia totalitaria di ispirazione biblica che si propone di assoggettare completamente le donne all’uomo, privandole di ogni diritto e proprietà, per poi classificarle in un sistema gerarchico basato sul rapporto di queste ultime con gli uomini e, soprattutto, sulla loro capacità di concepire. Tra queste troviamo le Handmaid (Ancelle), giovani donne fertili costrette ad abbandonare la loro vita precedente e ad essere addestrate per vivere al servizio di coppie ricche e sterili (composte da un Comandante e dalla rispettiva Moglie), con il solo e unico scopo di procreare uno o più figli sani unendosi, alla fredda presenza della consorte, al marito di quest’ultima.

1×01 – “Offred”

La protagonista, Offred, interpretata da una strabiliante Elisabeth Moss (che abbiamo avuto già il piacere di ammirare in serie come Mad Men e Top of the Lake), è una delle tante Handmaid che sono state private violentemente di ogni traccia di autonomia e di possibilità di scelta. Il destino che spetta infatti a coloro che cercano di ribellarsi o che semplicemente dimostrano di non essere fertili, è quello di essere classificate come “Unwomen” (non-donne); appellativo che porta, nella maggior parte dei casi, alla condanna a morte. Non stupisce, quindi, che la rappresentazione assuma fin da subito un carattere estremamente angosciante, claustrofobico, alienante: lo spettatore, la cui visione accompagna Offred nella repentina decadenza della sua vita, non può fare a meno di empatizzare con la donna e di osservare, con la sua stessa insopportabile impotenza, la privazione di qualunque cosa possa permetterle di essere classificata ancora come un essere umano a tutti gli effetti. Il lavoro, gli affetti, la famiglia e, infine, il suo stesso corpo non le appartengono più; ora l’unica cosa che conta è la sua fertilità. Perfino il vero nome le è negato per essere sostituito da un altro che sottolinea ulteriormente la sua appartenenza al Comandante (interpretato da Joseph Fiennes): Offred sta infatti per “of-Fred”, di Fred. Strappata violentemente al marito e alla figlia, Offred diventa vittima e strumento di un regime crudele e bigotto che, con la decisione di essere ambientato in un periodo storico non lontano dal nostro – la vita precedente alla sua trasformazione in Handmaid non è infatti diversa dalla vita di una comune donna occidentale odierna –, si presenta estremamente ambiguo e controverso, mostrando la chiara intenzione di suggerire che al progresso tecnologico non segue necessariamente un uguale progresso etico, sociale e culturale, anzi: la storia ha dimostrato spesso che quest’ultimo tende a crescere molto più lentamente del primo, aprendo la strada a meccanismi capaci di dare luogo a brutalità di ogni tipo.

La terribile realtà in The Handmaid’s Tale è quindi un distopico esempio dell’estremizzazione di alcune delle tendenze e convinzioni che, negli ultimi tempi, sono tornate ad essere parte integrante di vari dibattiti sociali e politici. Questo permette alla serie di inserirsi sottilmente in questi dibattiti, assumendo l’aspetto di una vera e propria provocazione che riesce ad incastrarsi bene nelle fila della contemporaneità, aprendosi a numerose chiavi di lettura che porteranno lo show ad essere spunto e oggetto di ogni sorta di analisi.

Al di là di queste possibili implicazioni, la serie di Miller si distingue, già a partire dai primi minuti, per la sua bellezza tecnica e visiva: la lentezza che pervade il pilot, lungi dall’essere un difetto, si rivela invece un ottimo strumento atto a introdurre la visione dei sadici meccanismi della Repubblica di Gaalad e a inserirli, insieme all’uso splendido e simbolico di luce e colori, in una dimensione dai toni quasi onirici, concorrendo ad amplificare il senso di inquietudine e di estraniazione provato dalla protagonista. Inquietudine alimentata anche dagli insistenti primi piani del volto di Offred, le cui espressioni terrorizzate e disgustate diventano la traccia di un profondo rifiuto che, per ora, non ha alcuna possibilità di manifestarsi se non attraverso i pensieri della donna sussurrati allo spettatore. Tuttavia, la cruda realtà del sistema distopico non aspetta a farsi sentire con l’insistente e disturbante messa in scena delle angherie subite dalle Handmaid, attraverso cui la serie scatena immediatamente un’angoscia quasi insopportabile; un’angoscia alimentata anche e soprattutto dalla credibilità stessa della rappresentazione, le cui scene di violenza e di sottomissione non risultano mai gratuite, ma s’inseriscono con maturità nell’economia generale del racconto, dando luogo a un pilot sofisticato e promettente.

Voto 1×01: 8

1×02/03 – “Birth Day” & “Late”

Le puntate successive confermano la direzione positiva presa in “Offred”, esplorando con maggiore intensità alcuni temi fondamentali e mostrando con più sottigliezza le dinamiche relazionali che vanno ad instaurarsi in un contesto così soffocante.

“Birth Day” esplora più a fondo la dimensione della maternità, aprendo lo spazio – attraverso il parto di Janine – a molteplici chiavi di lettura. Ciò che salta immediatamente all’occhio è la terribile ipocrisia del sistema di Gaalad, che tratta le Handmaid in maniera sempre brutale fino al momento in cui si scoprono incinte: è solo in questo caso che le ragazze vengono trattate con una cura così meticolosa da risultare eccessiva e grottesca. Ovviamente, l’unico motivo di questa gentilezza è quello di preservare esclusivamente la salute del nascituro; dopo aver dato alla luce la bambina, infatti, Janine è costretta a cederla immediatamente alla Moglie, entrando in un vortice di sofferenza e desolazione che sembra portarla alla pazzia più totale.

Questa situazione si riflette anche nel rapporto controverso che Offred instaura con Serena (Yvonne Strahovski), la Moglie del Comandante: quest’ultima, anche se in una posizione più favorevole rispetto alle Handmaid, è ugualmente costretta a sottomettersi a un sistema che di certo non la rende felice. Il suo comportamento ambiguo nei riguardi di Offred rispecchia la sua stessa disperazione, e l’instabilità emotiva che ne consegue è un’ulteriore testimonianza di quanto sia dannoso essere costretta a recitare un ruolo prestabilito che non prevede alcuna autonomia, anche se si tratta di quello del carnefice. Attraverso i continui richiami alla maternità, Offred non può fare a meno di pensare con dolore alla sua piccola Hannah. In questo contesto terrificante, la speranza di ritrovarla rappresenta la sola ed unica roccia a cui la donna si aggrappa per non cedere alla disperazione – “Because I intend to survive for her”. Tuttavia, la possibilità di una resistenza sfuma via ogni volta che la donna sembra anche soltanto pensarci: qualsiasi speranza viene eliminata prima che abbia il tempo di prendere forma. Quindi, come è possibile ribellarsi a un sistema che tiene tutto sotto controllo e che si impegna con ogni strumento a mettere le stesse donne l’una contro l’altra?

La terza puntata, “Late”, non ci offre alcuna risposta, ma sembra piuttosto suggerire un’altra domanda ancora più spinosa, e cioè: come si è arrivati fino a questo punto? I bellissimi flashback della vita precedente di Offred ci dimostrano che nessuno avrebbe mai potuto immaginare la gravità della piega che stavano prendendo gli eventi – “You’d be boiled to death before you knew it”. A partire dall’improvvisa eliminazione dal luogo di lavoro fino alle rivolte represse brutalmente con il fuoco, il mondo presentatoci in The Handmaid’s Tale decade velocemente seguendo la scia delle continue privazioni di diritti fondamentali; privazioni che, evidentemente, sono state sottovalutate fino a che non è diventato troppo tardi, appunto. Eppure, a soffrirne non sono solo le donne: medici, esponenti di altre religioni, omosessuali e gli stessi uomini sono vittime di questo barbaro sistema.

Non a caso, quindi, il livello più alto della puntata viene raggiunto nella narrazione dell’agghiacciante destino di Ofglen (interpretata da Alexis Bledel) e della sua amante, condannate brutalmente per essere omosessuali. Proprio quando pensavamo che non potesse esserci nulla di peggio, ci troviamo invece ad osservare con impotenza la sadica e fredda crudeltà con cui le due donne vengono separate e condannate. Ad Ofglen è permesso di continuare a vivere solo perché è fertile, ma il prezzo che deve pagare è a dir poco terribile: in seguito a una brevissima sentenza è costretta ad osservare, senza poter far nulla, la devastazione della sua persona, dei suoi affetti e, infine, della sua stessa sessualità. L’interpretazione della Bledel qui è eccellente: impossibilitata a parlare, attraverso i suoi occhi esprime tutta la sua disperazione e l’incredulità, in un tragico crescendo che non può fare a meno di coinvolgere lo spettatore; quest’ultimo viene così inserito nella stessa folle (ma bella) inquietudine di una serie che, fino ad ora, dimostra una maturità e una bellezza che fanno ben sperare nel successivo andamento della narrazione.

Per concludere, i primi tre episodi di The Handmaid’s Tale spiccano positivamente per la loro potenza qualitativa e narrativa, presentando uno show sofisticato e ricco di spunti di riflessione, che concorre a posizionarsi fra i prodotti distopici più interessanti e promettenti del momento.

Voto: 1×02: 7½
Voto: 1×03: 8½
The Handmaid’s Tale – 1×04 Nolite Te Bastardes Carborundorum
Con pochissimi episodi già andati in onda, The Handmaid’s Tale si è già imposta come una delle novità più belle ed interessanti dell’anno, guadagnandosi anche il rinnovo per una seconda stagione. Il quarto episodio non fa che confermarne l’enorme qualità, ma soprattutto la capacità di saper sia raccontare che mostrare in maniera naturale una storia così abilmente complessa.

Complessa non è ovviamente sinonimo di difficile o complicato, quanto di stratificato, ovvero qualcosa che si lascia intendere sì al primo sguardo ma che ne richiede poi almeno un secondo o un terzo, perché è al di sotto di una superficie già di per sé molto bella che si nasconde il vero cuore pulsante. Gli episodi che sono stati rilasciati tutti insieme, componendo una sorta di pilot a trittico, hanno concorso soprattutto ad impostare l’architettura del racconto, a spiegare cos’è questa “Repubblica di Gaalad” e come si compone la società al suo interno: non a caso il primo episodio si è concentrato su Offred e su chi siano le Ancelle, il secondo sulla loro vita “domestica” e infine sulle atrocità che questa società integralista riserva al suo “popolo”.

In maniera sottile però, gli ultimi due episodi hanno iniziato a delineare quello che appare sempre di più l’argomento principale della serie: la solidarietà. Nel pilot la sensazione costante e pressante era la claustrofobia, determinata dalla condizione di prigionia totalizzante vissuta dalle Ancelle, che vivono una quotidianità fatta di passeggiate in città e shopping al supermercato, ma sotto la costante supervisione di silenziosi uomini armati fino ai denti. Da qui la perfetta resa visiva che ne mette in risalto il paradosso: soprattutto con il personaggio di Offred/June, viviamo l’immersione in questa luce bianca, sovraesposta, isterica, dove spunta il rosso pesante e sanguigno dei loro abiti, e in contrasto con i colori “reali”, sfumati, non solo monocromatici dei ricordi del passato. Dove passato e presente si incontrano però è nella sapiente scelta di dilatare letteralmente il tempo, con scene che appaiono rallentate, come sospese, quasi congelate tra il reale e il fantastico, esattamente come la serie in generale.

In questo “Nolite Te Bastardes Carborundorum” assistiamo ad una virata interessante, dove appunto prende corpo il senso di aggregazione, l’effetto indesiderato che un regime totalitario necessariamente innesca, cioè la nascita di una resistenza, di una società nella società. Se Ofglen/Emily aveva parlato di un network e lasciato intendere l’esistenza di una organizzazione reale parallela alla Repubblica, qui l’aspetto diventa ancora più interessante in quanto fenomeno spontaneo di mutuo soccorso, dove il costante stato di emergenza e necessità porta alla naturale ricerca della rivalsa, della ribellione e quindi alla nascita della più genuina solidarietà nella sofferenza. In questo senso si inseriscono i vari movimenti della puntata, dominati soprattutto dal rapporto tra June e Moira che tentano la fuga prima di essere assegnate alle loro famiglie e dopo aver scoperto qual era l’agghiacciante incarico che avrebbero preso. In questa lunga sequenza è riversato il senso primigenio dell’amicizia, prima visto nel dolce gesto di un dito inserito in una fessura del bagno e poi nello sguardo di Offred/June che lascia andare l’amica verso (spera) la libertà.

Non a caso il racconto di quel momento viene inserito quando proprio Offred/June sta vivendo il momento più basso e sconfortante in casa Waterford, costretta a rimanere reclusa nella sua stanza dopo aver rivelato a Serena di non essere incinta. Il rapporto tra le due donne è forse un altro degli aspetti più interessanti della serie, costruito su due attrici bravissime che riescono a rendere perfettamente come in realtà vivano la stessa identica condizione, dove però alla dignitosa fermezza dell’ancella corrisponde l’algida insicurezza di una donna che vive nell’attesa di un miracolo. Le parole che Offred/June legge incise nel suo armadio le raccontano di una vita precedente e della sua sconfitta, parole che, simili a quelle che aveva impresso Moira, hanno l’immenso valore di trascendere il loro significato e diventare portatrici di un messaggio ben più profondo, prendendo la forma finale di un atto di coraggio. Il passato e il presente si legano nuovamente e, dopo le punizioni corporali seguite alla mancata fuga dell’ancella, ecco che tutte le altre le offrono il loro aiuto, nella forma di piccole rinunce che diventano enormi per loro ed insostituibili per Offred/June; allo stesso modo le parole “Nolite Te Bastardes Carborundorum” le ricordano di far parte di un gruppo forte ed arrabbiato, per cui alla negazione di un’individualità corrisponde la consapevolezza di appartenere ad una gigantesca unità.

All’interno di questo assetto tutto al femminile, hanno la loro parte anche gli uomini, che si inseriscono come paradossali portatori di sollievo, panacee di un misero distacco surrogato rispetto all’orrore che hanno concorso a creare. Per quanto mostruoso e insensibile, il comportamento di Serena è la conseguenza diretta del malessere che lei prova in primis verso se stessa, imprigionata da un lato nel desiderio di qualcosa che non può avere e dall’altro in un matrimonio che non funziona, dipinta come una sorta di compagna di stanza e poco più. L’impotenza occasionale, ma soprattutto l’infertilità del Colonnello rappresentano inoltre la sconfitta che il genere maschile tenta di nascondere con questa organizzazione sociale: al loro fallimento in quello che è il loro primo dovere di uomini, quello che ne definisce la virilità, corrisponde l’asservimento della donna che seppur infeconda è pura, mentre è definita sgualdrina chi paradossalmente ha ancora il dono di mettere al mondo un figlio.

Il gioco dello scarabeo assume una forma ed un significato ancora più definiti in questo contesto, perché sarà infatti durante l’appuntamento serale tra il Colonnello Waterford ed Offred/June che quest’ultima scopre il destino di chi l’ha preceduta, comprendendo di avere forse una vera leva dalla sua parte, una chance che non può assolutamente sprecare. A chiudere il cerchio vediamo la comparsa del Dottore, interpretato perfettamente da Kristian Brunn, che riesce a rendere dall’ennesimo punto di vista il grande paradosso di questa società, per cui alla solidarietà e ad una proposta assurdamente ragionevole, corrisponde il losco e volgare opportunismo dello sciacallo sul cadavere – una mors tua, vita mea da brividi.

The Handmaid’s Tale è una serie da non perdere, che va seguita puntata per puntata, capace di descrivere contemporaneamente cose così distanti come l’orrore e la speranza, l’amicizia e l’integralismo ideologico, e sorretto da un cast eccezionale su cui emerge ancora una volta l’immensa bravura di Elisabeth Moss, una delle attrici più brave ed interessanti in circolazione.

Voto: 8½
The Handmaid’s Tale – 1×05 Faithful
Quattro puntate sono bastate a The Handsmaid’s Tale per solidificare le sue forti tematiche e formulare un contratto tra la verità raccontata dallo schermo e la boccheggiante incredulità dello spettatore. Contratto che, al quinto episodio, si rivela ancora garante del grandeur espositivo, di un impatto emotivo disarmante e in ultima analisi della necessità di questo racconto.

Contando sull’attenzione degli spettatori, “Faithful” si appoggia meno del solito sul voice over della protagonista. È il sotteso tentativo di spostare l’attenzione dal chiostro mentale di June all’inesplorata fauna psicologica dei membri del contesto esteriore e ostile. Questa scelta, investigare la psicologia dei personaggi secondari, si confronta con le necessarie conseguenze di comportamenti inusuali: l’affabilità del Comandante e i progetti segreti della moglie. L’episodio, pur non distinguendosi dai precedenti per novità o stranezze, a favore di una continuità stilistica e tematica, aggiunge nuovi dettagli e allo stesso tempo si ambienta in coordinate ormai riconoscibili. Per gli eventi di forza maggiore (a parte l’importante scena al mercato) infatti non serve allontanarsi dal campo di concentramento domestico e in questo caso l’azione si svolge in nome di due poli principali: la fuga dal dolore, pericolosamente attecchito al quotidiano, e la ricerca del male minore; un patto col diavolo da un parte, una dolorosissima “scorciatoia” dall’altra. Subito si capisce che non può funzionare, che le ideologie estremiste non comprendono né mezze misure né simpatie da salotto o soluzioni facili con chi si sporge fuori dallo schema preconfezionato.

L’empatia che nasce dalle dimensioni umane vere, quell’empatia in cui June e Luke nuotano riconoscendosi protagonisti di una fulminante alchimia, non sì può sillabare a scarabeo, ideare a tavolino, trovare nelle pieghe di una rivista. Invece nasce da un raro concerto di bontà, connotato che, nella Repubblica di Galaad, per non estinguersi nei “buoni” ha dovuto cambiare pelle e tramutarsi in rivalsa: la rivalsa rabbiosa di chi ha perso e vuole ritrovare, ricostruire, rivivere e ribaltare lo status quo. Figlia quindi del desiderio di ribellione, l’empatia diventa moto anarchico comune, dubbio verso la società e verso la fede nel sistema a cui si è obbligati. Circumnavigando questo macro concetto – intelligentemente richiamato da un montaggio che forma confronti tra un passato perduto e il presente appeso a un cappio –, la puntata lentamente costringe i personaggi a venire a patti con se stessi e con il concetto di fedeltà. Fedeltà che quindi, a seconda del focus, è ora auto-conservativa, carburante per una corsa a mantenersi integri in un mondo dalla moralità frantumata; ora ultimo barlume di se stessi, quando la propria individualità è minacciata da uno shock dietro l’altro; ora coerenza con un mondo deviato e comandato da un’oligarchia arroccata sui propri privilegi.

Allo stesso tempo però, su un livello più semplice, si misurano i gradi di fedeltà tra i personaggi e se ne pesa il valore in relazione alle loro scelte. A disdetta della gerarchia inflessibilmente biblica della casa, June è ormai una abitué dello studio del Comandante e si è quasi abituata al leggero flirt serale che intercorre alle chiacchierate o ai giochi. È una realtà completamente diversa (seppur adiacente alle stanze piene di regole e formule), positiva e per questo fragile; ma anche illusoria perché fondata non sul rispetto ma sulla ferma convinzione di Waterford della natura mondana dell’amore e quindi del suo opportunismo, della sua facilità e istintività. Tanto è vero che il crollo delle speranze della protagonista si innesca dopo una confessione che, cercando la compassione e la comprensione dell’altro, trova la freddezza della differenza di classe e la superiorità nel considerare i propri principi come assoluti. E anche se la frase finale suona quasi come una ammissione di colpa, il Comandante rimane molto distante da qualsiasi annacquata definizione di amico.

Non suona meno terribile l’invito alla salvezza offerto da Mrs Waterford. La serie ancora non si è addentrata nelle dinamiche della coppia di padroni, ma l’ambiguità e la tensione sembrano superare la sola Cerimonia e incrinare la solida impostazione patriarcale. La donna dubita del marito e, fidandosi di Nick (altro personaggio da approfondire viste le ultime rivelazioni), intraprende la strada ufficiosamente più battuta anche se ufficialmente illecita. L’azione comporta una serie di variabili da considerare, dal ruolo di Occhio dell’autista alle priorità di Mrs. Waterford, per non parlare delle ripercussioni su June; ma soprattutto rivela che i meccanismi ad occhio granitici della nuova società sono facili a incepparsi. L’atto compiuto a insaputa del marito è da un lato un facile egoismo, dall’altro una mano tesa verso un aiuto contorto, certo, ma sincero, a testimoniare la presenza di dicotomie nascoste nella sua personalità.

La puntata è eccellente nel congiungere forma (con primi piani a tappeto) e contenuto (ricco di messaggi sempre più definiti) nei momenti dove è necessaria questa forma di coralità. Così sul viso immobile di June si riversano l’orrore, la coscienza che emerge dal dolore, la rabbia che rende invincibili; così nella magnifica scena al marcato si riconosce come questa rabbia, quel “nolite te bastardes carborundorum”, elevi la perdita (sia essa fisica, psicologica o psicofisica) a motore di combattimento, a sacrificio per un leggero fremito nella terra, a qualcosa di più grande. La scena dell’auto è speculare con l’ultima: anche se la prima si contiene dentro se stessa e invece l’altra è tesa a un ipotetico piano futuro, entrambe sono centrate sulla volontà di recuperare, di demolire, di far risorgere una umanità soffocata sotto gli strati monocromatici. Il guizzo di un sorriso, prima delle lacrime e della preoccupazione, è libertà. L’episodio si chiude con la decisione di June di lottare per ciò che le è stato tolto; non esiste il destino biologico, non esistono posti dove si dovrebbe stare, non esiste la fede obbligata. Il risultato è un improvviso e forse lungimirante cambiamento nelle dinamiche tra lei e Nick, per accostarsi all’unico diritto ancora salvabile; la scelta, che alla fine distanzia chi si abbandona e chi invece cerca una via di uscita dentro un inferno a porte chiuse, a colpi di incisioni nel legno, motti e seduzioni.

“Faithful” è un episodio eccellente. Spinge in avanti la trama, che ora dovrà fare i conti con il misterioso Mayday e la natura evoluta dei rapporti di June con gli altri personaggi; spinge in alto la forza dei temi, che raggiungono vette invidiabili da buona parte del panorama televisivo concorrente; spinge contro lo spettatore una esperienza faticosa ma importante. Difficile ora accontentarsi di meno: la partenza è stata prorompente, adesso siamo a metà di un volo grandioso.

Voto: 8½
The Handmaid’s Tale – 1×06 A Woman’s Place
L’ottimo percorso compiuto dalla serie di Bruce Miller nelle precedenti puntate è stato sostenuto da un apparato narrativo così solido da permettere a The Handmaid’s Tale, in questo sesto episodio, di allargare ulteriormente i propri orizzonti con la decisione di raccontare le subdole macchinazioni del sistema di Galaad attraverso occhi diversi da quelli della protagonista, senza però perdere – anche e soprattutto grazie alla bravura di Elisabeth Moss – l’intensità che caratterizza la storia e la messa in scena delle vicende di June.

L’intera puntata gira attorno all’imminente incontro del Comandante Waterford con una delegazione commerciale proveniente dal Messico, dandoci così l’occasione di osservare per la prima volta i comportamenti assunti a Galaad in previsione di visitatori esterni. Com’era da aspettarsi, ciò che affiora fin da subito è la disgustosa ipocrisia con cui si cerca di tenere accuratamente nascosta ogni traccia della fredda crudeltà che invece caratterizza appieno il sistema, coprendola con una torbida e grottesca imitazione di un paese civile, morale e illuminato. In particolare, è ben percepibile la paura che attanaglia i coniugi Waterford non solo nel temere di non concludere l’affare previsto, ma soprattutto nei confronti della terribile possibilità che i visitatori possano in qualche modo scoprire le brutalità che si celano dietro i comportamenti di ogni singolo membro della casa. In questo contesto, ci viene presentata l’Ambasciatrice Castillo (interpretata da Zabryna Guevara), una donna la cui figura indipendente e autorevole stona volutamente con le donne presenti in casa Waterford, sottomesse completamente al volere dei Comandanti e impossibilitate – qualunque sia il loro rango – a prendere ogni tipo di iniziativa. La sincera curiosità dell’Ambasciatrice nei confronti dei meccanismi di Galaad e le sue legittime (e scomode) domande rivolte direttamente a Serena e a Offred rischiano infatti di scoprire il vaso di Pandora, rivelando le atrocità in esso contenute.

Are you happy?

Come in ogni sistema autoritario, anche qui – in occasione di visitatori esterni – le vittime sono costrette a mentire e a mostrarsi soddisfatte del tipo di vita che compiono, tenendo gli ospiti all’oscuro di ciò che invece subiscono quotidianamente. Le terribili bugie che la nostra protagonista è costretta, suo malgrado, a raccontare alla delegazione messicana mettono però a dura prova la sua resistenza. È infatti palpabile quanto, dietro la maschera fredda e composta di Offred, si celi una June che lentamente inizia a sgretolare la gabbia di ghiaccio in cui è intrappolata, affiorando sottilmente attraverso le sempre più frequenti espressioni sfacciate della Moss e inserendosi subdolamente in alcuni dialoghi con una punta di cinico sarcasmo che rischia di tradirne il profondo disgusto. Sempre più vicina al limite della sopportazione, quindi, non stupisce la fatica con la quale Offred risponde alle semplici domande dell’Ambasciatrice: il peso di quelle bugie è insopportabile ed è ben evidente nello sguardo teso e disperato della ragazza, l’unico a negare fermamente ciò che le sue labbra sono invece costrette a pronunciare.

Tuttavia, Offred non è la sola a tentennare quando è costretta a mentire: la visita dell’Ambasciatrice ci permette infatti di gettare più luce sul controverso personaggio di Serena (Yvonne Strahovski), vera protagonista di “A Woman’s Place”. I flashback a lei dedicati scavano nel suo passato, mostrandoci una donna completamente diversa da quella figura severa e glaciale che abbiamo conosciuto finora: Serena era infatti una persona vivace, impegnata, appassionata al suo lavoro e sinceramente preoccupata per le sorti della società. Cosa ne è stato, dunque, di questa donna così intraprendente?

Never mistake a woman’s meekness for weekness.

Quella che sembrava solo l’ennesima vittima del sistema autoritario venutosi a creare, ne è in realtà una delle artefici. L’ideale che Serena condivideva (prima in modo paritario) con il marito nascondeva infatti i semi di quella che poi sarebbe diventata la Repubblica di Galaad: la necessità di mettere al mondo sempre più bambini per sconfiggere l’infertilità dilagante ha portato la donna a impegnarsi attivamente – attraverso, appunto, la scrittura di un libro dedicato al “femminismo domestico” – nell’arginare questo problema, cercando di invogliare le donne a sacrificare la vita lavorativa per occuparsi a tempo pieno delle proprie famiglie.

La serie continua in questo modo a utilizzare astutamente i flashback con l’intento di dimostrare quanto alcune misure eccezionali considerate necessarie, tendenti a limitare la libertà di scelta degli individui, possano svilupparsi nel peggiore dei modi, anche scostandosi di molto dall’intento iniziale. È evidente, infatti, che la situazione prospettata da Serena sia andata crescendo in modo sempre più incontrollabile dal momento in cui gli uomini hanno preso il comando e le hanno proibito di prendere parte a quelli che erano i suoi stessi programmi – “They put so much focus on academic pursuits and professional ambitions, we let them forget their real purpose. We won’t let that happen again”. Le stesse misure volute e introdotte dalla donna le si sono quindi ritorte contro con una crudele ironia, contribuendo alla costruzione di una personalità che, nel presente, si rivela complessa e contraddittoria, capace di imporsi solo a favore della sua stessa sottomissione (come dimostra il carismatico discorso durante la cena). La regia si rivela molto capace nel sussurrare allo spettatore – attraverso la visione della donna che spesso indugia pensierosa allo specchio – il probabile senso di colpa che l’attanaglia per aver contribuito a mettere a repentaglio non solo la sua libertà, ma anche quella di tantissime altre donne che, a causa delle sue convinzioni, sono ora costrette a vivere in un modo a dir poco terribile.

“My country is dying.”
“My country is already dead.”


Fin dall’inizio della puntata, si avverte qualcosa di strano nell’ossessiva celebrazione del “contributo” delle Handmaid di fronte alla delegazione messicana: l’attenzione concentrata su di loro e l’improvvisa e inaspettata dolcezza con cui Aunt Lydia si rivolge alle ragazze sono infatti i sintomi di qualcosa di ben più sinistro. È solo verso la fine dell’episodio che questi timori assumono concretezza, quando veniamo a scoprire (insieme a una sconvoltissima June) che la merce che i Waterford stanno cercando di vendere all’Ambasciatrice sono proprio le Handmaid.

Ci troviamo al punto più intenso della puntata: il punto in cui la sottomissione delle Handmaid è arrivata a un livello tale da permettere che possano essere utilizzate come un mero prodotto di scambio, al pari dei cioccolatini messicani. Per June, la cui resistenza stava vacillando già in precedenza, questa è la goccia che fa traboccare il vaso, e lo dimostra il disperato e rischioso tentativo di chiedere aiuto all’Ambasciatrice, l’unica che potesse capire e forse fare qualcosa per migliorare la situazione delle Handmaid. Il dialogo fra le due è reso splendido grazie alla straziante interpretazione della Moss che, attraverso la cruda sincerità delle sue parole, riesce a rendere palpabile la disperazione di June, ormai senza più nulla da perdere. Il terribile rifiuto dell’Ambasciatrice si posiziona nella stessa esatta linea di comportamento assunto da Serena: il comportamento, talvolta masochistico, di chi è ormai disposto a sacrificare davvero qualunque cosa pur di “risollevare” il proprio paese, senza considerare che così, invece, si contribuisce ad alimentare quella stessa degradazione da cui si cerca di fuggire. È in questa situazione di dolorosa ed insopportabile impotenza che, inaspettato, arriva il primo barlume di speranza per la nostra protagonista, che molto probabilmente condurrà la serie a un importante cambio di direzione.

Per concludere, “A Woman’s Place” è uno splendido episodio, capace di indagare a fondo nelle complesse personalità dei suoi personaggi e di riuscire ad analizzare con intelligenza gli aspetti più controversi del sistema dispotico che si propone di raccontare, confermando la qualità visiva e narrativa di una serie che, fin dall’esordio, si è immediatamente distinta per la sua bellezza e per la sua intensità.

Voto: 8/9
The Handmaid’s Tale – 1×07 The Other Side
Il finale di “A Woman’s Place”, tanto inaspettato quanto di impatto, ha sicuramente ridefinito il modo in cui lo spettatore si approccerà alla serie di Bruce Miller d’ora in avanti. Dopo tanta crudeltà e ingiustizia nei confronti della protagonista, delle donne e della società, la rivelazione che sconvolge June ha la forza e l’esplosività di una speranza inattesa, un grido di sfogo nel silenzio a cui i personaggi, volenti o nolenti, sono costretti.

Se, infatti, i primi episodi dello show di Hulu sono serviti, oltre a presentarci il dramma dell’ancella di cui si racconta la storia, a costruire e a far conoscere un ambiente distopico tanto surreale quanto non così incredibile a noi contemporanei, con “The Other Side” è evidente la scelta di cominciare a cementificare una trama orizzontale di più ampio respiro, che possa uscire dai confini di casa Waterford e della repubblica di Galaad. Lynn Renee Maxcy (scrittura) e Floria Sigismondi (regia) ci accompagnano, dunque, nel viaggio di Luke verso il confine, un percorso di dolore e di ricordi che occupa tutto questo sesto episodio, il meno ispirato e interessante della stagione, ma sicuramente quello di cui si sentiva più il bisogno arrivati a questo punto della storia.

I promise you, we’re gonna be all right.

La grande sicurezza di questo segmento narrativo è, senza dubbio, la buona interpretazione di O. T. Fagbenle che, anche se non supportata da una densità di trama adeguata, riesce a trasmettere in modo chiaro e sentito la drammaticità della separazione che ha dovuto affrontare il suo personaggio. È soprattutto attraverso i silenzi di cui si compone l’episodio – e la serie stessa – che emerge il dolore di Luke, un marito e un padre che ha fallito nel compito di proteggere la propria famiglia e che tuttavia, quasi egoisticamente, riesce a salvarsi rifugiandosi in Canada. C’è da dire che la distopia religiosa di The Handmaid’s Tale non fa sconti ai personaggi dello show, che sono continuamente messi alla prova e privati di ciò che più sta loro a cuore – dallo strappare una figlia ad una coppia di genitori, al distruggere la dignità e l’integrità, fisica e mentale, di una donna, trasformandola in merce di scambio al centro di commerci internazionali.

“The Other Side” è, quindi, un episodio a due volti – come accennato sopra – ed esprime in questa dualità tutti i suoi pregi e i suoi difetti. Se, infatti, giunti ben oltre il giro di boa della prima stagione, e con una seconda confermata, si sentiva l’estrema necessità di esplorare una sezione narrativa alternativa e, in un certo senso, liberatoria rispetto all’insostenibilità visiva delle vicende che affliggono June, dall’altro lato cinquanta minuti poco sostanziosi completamente dedicati a Luke possono sembrare effettivamente troppi, visto e considerato che la scena finale – che mostra dove l’uomo si trova nel presente in cui è ambientata la trama principale – viene dopo un salto temporale di tre anni rispetto alla fuga. Certo, è importante che i diversi universi temporali su cui si dipana il racconto, e a cui lo show ci ha abituato – anche attraverso i flashback –, collidano quanto prima per favorire il proseguimento della storia nel presente narrativo, ma il rischio di un episodio così strutturato è quello di risultare, a conti fatti, una parte di racconto che aggiunge pochissimo alla totalità della stagione, non un filler ma quasi. Agli autori, nei prossimi episodi, il compito di smentire questa sensazione che la visione non riesce ad eliminare mai del tutto.

I love you so much. Save Hannah.

Rispetto al resto della puntata, non v’è invece il minimo dubbio sul grande impatto emotivo della scena che la conclude: il famoso messaggio di June arriva ad un Luke molto diverso da quello che ha affrontato il suo personale viaggio all’inferno cercando di avere salva la pelle. L’uomo pare essersi costruito una nuova vita a Little Toronto ma il ricordo dei giorni bui che ha affrontato tre anni prima è ancora limpido nella sua memoria; non per niente sembra essere impegnato anche a distanza nella lotta al totalitarismo di Galaad e nel tentativo estremo di salvare quante più persone possibili dalla crudeltà della teocrazia. Quelle poche, ma significative, parole scritte da June rappresentano la consapevolezza di non aver del tutto fallito nel suo ruolo di padre e marito ma, anzi, che esiste ancora una flebile speranza per la sua famiglia. Il primo piano finale che la Sigismondi dedica a Fagbenle sembra non appartenere neanche a The Handmaid’s Tale tanto è carico di positività e fiducia nei confronti del futuro, un futuro che i personaggi finora avevano visto completamente buio e privo di luce.

“The Other Side” è un episodio tutto sommato buono e godibile, che sopperisce ad una carenza di trama e ad un generale calo di interesse progressivo nei confronti delle sorti di Luke con una regia ispirata e un confronto passato-presente attraverso il sistema dei flashback, ormai intrinseco allo show ma mai fine a se stesso. In generale si può dire che tirare il fiato dalla cruda rappresentazione dello status in cui è costretta June, sebbene si spera solo per questo episodio, non può non essere una buona idea, anche in vista di un finale di stagione sempre più vicino.

Voto: 7–
The Handmaid’s Tale – 1×08 Jezebels
Giunta al suo ottavo episodio, The Handmaid’s Tale continua ad arricchire di dettagli l’inquietante e attualissimo affresco distopico nato dalla mente di Margaret Atwood, e lo fa procedendo su un doppio binario: da un lato con la lenta ma inesorabile scoperta dei meccanismi (istituzionali e non) che governano Gilead, dall’altro con l’ampliamento dei punti di vista attraverso i quali il racconto prende forma.

“Jezebel” prosegue sulla strada intrapresa dal meraviglioso “A Woman’s Place” e da “The Other Side” – il capitolo più debole fino ad ora; dopo una prima metà di stagione interamente filtrata dagli occhi di Offred/June, gli autori hanno infatti operato una scelta rischiosa ma al tempo stesso necessaria per dare più ampio respiro alla narrazione e favorire così la serializzazione del materiale letterario, concedendo spazio, con risultati altalenanti, alle storie di Serena, Luke e Nick.

I don’t have any choice.

Al contrario dei capitoli precedenti, l’episodio presenta però una struttura ibrida, in apparenza poco coesa ma che trae la sua forza proprio dal continuo alternarsi tra la prospettiva di Nick (e, in seconda battuta, di Fred) e quella di June: l’apparente reazione di gelosia di Nick di fronte a quello che è a tutti gli effetti uno stupro, per giunta spogliato del rituale della Cerimonia, così come la convinzione di Fred di aver compiuto nei confronti della sua ancella un gesto di gentilezza vestendola di tutto punto e portandola al club delle Jezebel, si scontrano con la reale condizione di totale oppressione e sottomissione in cui si trova la donna, e che entrambi gli uomini sembrano incapaci di mettere del tutto a fuoco. Sia l’autista che il Comandante emergono come figure ambigue e sfuggenti: se nel caso di Nick è ancora difficile decifrare quanto le sue azioni siano dovute a una sincera preoccupazione, al senso del dovere o a sentimenti incontrollabili, la figura di Mr. Waterford assume contorni sempre più inquietanti proprio per il modo in cui si ostina – con quale grado di consapevolezza non ci è dato sapere – a mascherare la dominazione e la violenza con le sembianze di un rapporto paritario, chiedendo un consenso che sa che non gli potrà essere rifiutato – “Enjoying that?” “Yeah”.

It’s like walking in the past, don’t you think?

Al centro del discorso troviamo di nuovo, naturalmente, il rapporto impari tra l’uomo-soggetto (dotato di potere e libertà d’azione) la donna-oggetto (costretta a interpretare i rigidi ruoli di moglie, ancella e prostituta che le vengono imposti), vero e proprio perno concettuale su cui si fonda il regime di Gilead; “Jezebels” però fa un ulteriore passo avanti, mettendo in scena in maniera quanto mai esplicita non tanto le differenze, quanto i punti di contatto tra il passato e il presente, e quindi, indirettamente, tra la nostra realtà e la distopia. Il rasoio, i trucchi, i vestiti e lo stesso club divengono infatti al contempo simboli di un passato di (maggiore) libertà e un richiamo al controllo operato, prima come ora, sul corpo della donna, sottolineando così un’inquietante continuità tra il “pre” e il “post” Gilead.

“Tutto cambia perché nulla cambi”: scavando sotto la complessa architettura di regole e cerimonie di Gilead troviamo infatti l’ipocrisia dei potenti, che infrangono le leggi che loro stessi hanno contribuito a creare, nonchè la conferma di come questa non sia altro che una struttura vuota, creata appositamente per controllare le donne in maniera più efficace. Emblematico in quest’ottica è il flashback in cui assistiamo alla nascita della Cerimonia: la sconvolgente naturalezza con cui il rituale prende forma, quasi per caso, durante un breve tragitto in macchina, riassume infatti alla perfezione non solo il totale disinteresse nei confronti del punto di vista femminile (“That’s a non issue”), ma anche il modo in cui gli uomini dello show amano dipingersi, come degli eroi che, in nome della sopravvivenza della razza umana e forti della giustificazione fornita dal “precedente biblico”, si sentono autorizzati a negare al genere femminile i più basilari diritti umani – “Sounds good. Nice and godly”.

I will not be that girl in the box.

L’unico barlume di luce in questo affresco dai toni sempre più cupi e disperati è rappresentato dall’inaspettato incontro con Moira: la gioia e la capacità di scherzare delle due donne nonostante l’incubo in cui sono costrette a vivere rappresentano una vera e propria boccata d’aria fresca per lo spettatore, la quale viene però subito bilanciata dai cambiamenti che il tempo e gli eventi hanno avuto sulla donna. Se in passato era stata Moira a credere fermamente nella possibilità di una fuga e di riacquistare la libertà perduta, ora la vediamo totalmente priva di speranze, ormai incapace di reagire anche di fronte alla notizia che Luke è vivo e rassegnata all’idea di essere una “ragazza intrappolata nella scatola”. Lo stesso non può dirsi invece di June, la quale sembra anzi sempre più determinata a scardinare la sua prigione: il fatto che stia apparentemente ripercorrendo le orme dell’ancella che l’ha preceduta – la relazione con Waterford, la scritta all’interno dell’armadio – gettano un’ombra allarmante sul suo futuro ma, parafrasando le parole che lei stessa rivolge a Nick, la possibilità di tornare a sentirsi una persona, e quindi di avere qualcuno che si ricorderà di lei, forse valgono più di qualsiasi pericolo.

Nel complesso “Jezebels”, pur non rappresentando un’eccellenza all’interno della stagione, porta avanti in maniera coerente ed efficace le tematiche cardine della serie, confermando come The Handmaid’s Tale sia senza ombra di dubbio uno degli show più rilevanti di quest’anno televisivo.

Voto: 7/8
The Handmaid’s Tale – 1×09 The Bridge
Ad un solo episodio dalla conclusione della sua prima stagione, The Handmaid’s Tale (già rinnovato poco dopo il pilot per una seconda annata) si sta rivelando non solo uno dei più importanti show della programmazione attuale, ma anche il biglietto da visita di Hulu per entrare nella rosa dei big player con un drama prestigioso e di forte impatto.

Parte del merito va senz’altro attribuito alla confezione: una protagonista come Elizabeth Moss, non soltanto attrice di talento ma anche capace di incarnare con grande sensibilità e riempire di chiaroscuri il ruolo di Offred (la Moss, tra l’altro, non solo è sotto contratto per 5-7 stagioni ma si è anche ritagliata un ruolo piuttosto attivo come produttrice); una serie di registe – tutte donne con l’eccezione del veterano Mike Barker – che hanno diretto coppie e terzetti continuativi di episodi, regalando un’impronta decisamente autoriale alla messa in scena, in particolare Floria Sigismondi che ha diretto l’accoppiata “A Woman’s Place” e “The Other Side“; e non ultimi, gli evocativi e geniali costumi di Ane Crabtree, che si è ispirata ai contemporanei culti religiosi come Amish, scintoisti giapponesi e i neozelandesi Gloriavale per disegnare uniformi e abiti semplicissimi e senza tempo, che come gabbie colorate al tempo stesso evidenziano e intrappolano gli attori.

“One of my rules was that I would not put any events into the book that had not already happened in what James Joyce called the ‘nightmare’ of history, nor any technology not already available. No imaginary gizmos, no imaginary laws, no imaginary atrocities. God is in the details, they say. So is the Devil.” (Margaret Atwood – The New York Times, 10 marzo 2017)

Sarebbe superficiale però analizzare soltanto la qualità di The Handmaid’s Tale senza tenere conto della coincidenza tra la messa in onda dello show e il dibattito politico, altamente incendiario negli States, a proposito dei diritti delle donne sotto la nuova Presidenza. The Handmaid’s Tale sarebbe stato uno show di tale successo se non fosse arrivato nel momento giusto per solleticare quella che gli americani chiamano “liberal anxiety” nei confronti dell’amministrazione Trump? Forse no, anche se la casualità qui c’entra probabilmente molto poco: la storia della televisione ci dice che, almeno in parte, ciò che rende uno show iconico e rilevante è la sua capacità di intercettare lo zeitgeist, entrando a far parte del dibattito pubblico. La plausibilità di una Repubblica di Gilead – o comunque di qualcosa di molto simile in termini di regressione su diritti che per le donne sembravano acquisiti – sembra improvvisamente più concreta e paurosa a tutti i liberal degli Stati Uniti, e questo è il motivo dell’enorme mole di discorsi sociali che si sta producendo a proposito della serie, ma è difficile non constatare anche in questo caso l’autoreferenzialità Made in USA per tutto ciò che riguarda l’attualità e la storia. Basta sapere infatti ciò che accade in Arabia Saudita ogni giorno, o leggere gli agghiaccianti racconti delle donne che vivono nei cosiddetti “Stati Terroristici” (pensiamo ai rapimenti delle donne Yazidi da parte dell’ISIS, ad esempio), per capire che la parità dei diritti non è solo qualcosa di fragile e tutt’altro che scontato, ma soprattutto che il corpo della donna è terreno di battaglia per qualsiasi regime in qualsiasi momento della storia, indipendentemente dal credo religioso o dalla posizione geografica. Certo, immaginare l’America sotto un regime integralista e totalitario è una prospettiva inquietante, ma se guardiamo all’Iran (nel ’79, in quella che allora era la progressiva Persia, furono anche le donne stesse a rovesciare lo Scià, aprendo inconsapevolmente la strada a un regime che le vedeva come l’incarnazione della seduzione sessuale e del vizio e che in brevissimo tempo le privò di qualsiasi diritto e incarico pubblico) è inevitabile che la meraviglia e lo sgomento lascino spazio alla constatazione che anche nel mondo contemporaneo siamo ben oltre la plausibilità e completamente dentro alla realtà delle cose.

“Without women capable of giving birth, human populations would die out. That is why the mass rape and murder of women, girls and children has long been a feature of genocidal wars, and of other campaigns meant to subdue and exploit a population. Kill their babies and replace their babies with yours, as cats do; make women have babies they can’t afford to raise, or babies you will then remove from them for your own purposes, steal babies — it’s been a widespread, age-old motif. The control of women and babies has been a feature of every repressive regime on the planet.” (Margaret Atwood – The New York Times, 10 marzo 2017)

Uno degli aspetti più interessanti della seconda metà di questa prima stagione di The Handmaid’s Tale è stato il passaggio (che segna peraltro anche il vero distanziamento dal libro della Atwood) dalla prospettiva personale di Offred all’approfondimento degli altri personaggi, che ci ha aiutato non solo ad ampliare il nostro sguardo su di loro ma anche a capire meglio la genesi e il funzionamento di Gilead. “The Bridge” prosegue su questa strada di apertura verso l’esterno pur facendo anche avanzare il plot in maniera consistente, concentrandosi da una parte sulla storyline di Offred/June, sempre più marcatamente legata agli eventi storico/politici, e lasciando al personaggio di Janine lo spazio per far deflagrare la tensione di quella situazione – ovvero la maternità e il rapporto con i Putnam – che fin dai primi episodi sapevamo avrebbe rappresentato una problematica importante che coinvolgeva non solo Handmaids e Aunts, ma anche gli intoccabili Commander e le loro mogli.

Janine rappresenta il lato più fragile e manipolabile della femminilità, quello che nella contemporaneità vediamo come il tipo di donna che deve essere guidato verso una consapevolezza di sé e dei propri diritti e doveri; il genere di donna che non problematizzava, probabilmente, la propria condizione e la propria libertà per mancanza di interesse o cultura e che subisce più violentemente i danni di un cambiamento impossibile da affrontare senza una forte autocoscienza. Janine è continuamente oscillante tra l’adempimento dei propri doveri, non per senso di responsabilità ma per lo status che questi garantiscono, e un vago desiderio di libertà e amore che non prende mai la forma più “politica” e consapevole, ma resta confinata a una rabbia e una frustrazione che pian piano la fanno sfociare verso il crollo nervoso. Il tentativo di suicidio, a quel punto, non è altro che la scelta impotente della fuga, alla luce della constatazione della propria impossibilità di gestire in altro modo una situazione che Janine non è in grado, fondamentalmente, di capire. Non è difficile infatti immaginare come il tentativo di Offred di manipolare Fred per tornare alle Jezebel, che tanto costa alla protagonista in termini di angoscia – e che peraltro risulta una inquietante parodia della manipolazione del maschio da parte della donna che va convenzionalmente sotto il triste nome di “arti femminili” –, vista dalla prospettiva di Janine potrebbe essere concepita come la normalità della seduzione, messa in atto da un punto di vista più sottomesso del normale, ma neanche tanto impensabile persino nella libera società del passato e del sessismo benevolo e inconsapevole; probabilmente la stessa seduzione che pensava di esercitare sul Commander Putnam, ritrovandosi però manipolata a propria volta, esattamente come accade a June.

Lo stesso scambio di punti di vista e la stessa dicotomia tra problematizzazione e accettazione si può ritrovare nella dialettica tra Serena e Naomi: la prima, costretta alla sottomissione di propria mano e forzata quindi a razionalizzare, dolorosamente, il proprio fallimento come donna e come intellettuale oltre che a subire il comportamento del marito; la seconda, così adagiata sul proprio potere e sul proprio benessere da non prendere neanche per un momento in considerazione che a Gilead per le donne (e anche, in parte minore, per gli uomini) l’obbedienza non è una scelta e i privilegi non sono mai duraturi. Il dialogo nella camera d’albergo tra Moira e June, che con la fuga sanguinosa di Moira arriva a conclusione quasi liberatoria dell’episodio, problematizza invece la lotta interiore tra desiderio di rivalsa e paura, regalandoci un momento intenso e drammatico tra le due ottime interpreti, ma anche il vero turning point della serie, il vero ponte (non a caso l’episodio si intitola “The Bridge”) verso un finale che presumibilmente getterà le basi per una seconda stagione più ricca d’azione. Quel biglietto e il “Praised be, bitch” di Moira chiudono il penultimo capitolo con una nota ironica e decontestualizzante, finale ad effetto per un episodio che, pur non essendo tra i punti più alti della serie, continua un percorso ben gestito di approfondimento dei caratteri, gettando basi solide per uno show che sembra decisamente fatto per durare.

Voto: 7½
The Handmaid’s Tale – 1×10 Night
Con “Night”, un decimo episodio profondamente coerente col lavoro svolto in tutta la stagione, si chiude questa prima annata di The Handmaid’s Tale, la serie creata da Bruce Miller e basata sull’omonimo libro di Margaret Atwood che si candida a diventare una delle migliori novità dell’anno, non solo per la qualità insita in tutti e dieci questi primi episodi, ma anche per la sua portata simbolica in tempi come i nostri.

Ogni volta che una serie o un film ripropongono attraverso un altro medium una storia tratta da un libro, è abbastanza frequente che quest’ultimo subisca delle riedizioni e abbia una conseguente impennata nelle vendite. Nel caso di The Handmaid’s Tale però c’è di più: sono stati diversi in questi mesi i casi in cui una manifestazione sui diritti delle donne ha visto comparire attiviste vestite come le ancelle – la più recente è una protesta in Ohio contro una proposta di legge che comporterebbe delle restrizioni nell’accesso alle interruzioni di gravidanza. È un fenomeno interessante perché in questo caso si va al di là della citazione fine a se stessa per lanciare invece un messaggio di più ampia portata, un segnale che inviti l’opinione pubblica a riflettere su quanto quelle situazioni che leggiamo nel libro o vediamo nella serie non siano poi così lontane da quelle che le donne già vivono ogni giorno. Molti purtroppo ritengono che la propria cultura (bianca) occidentale sia lontana da certi estremismi, che appartengano al passato o ad altre culture, a loro volta tacciate di essere retrograde, a differenza della propria; ma è sul corpo delle donne che ancora si combattono le guerre più difficili, tanto subdole quanto più si pensa di essere “evoluti”, lontani da “certe barbarie”, che invece si perpetrano ogni giorno, anche tra chi crede di esserne ben distante.

Perché in fondo tutto nasce da una sorta di schizofrenia sociale, che ha da sempre visto nella donna un dualismo irrisolvibile: la portatrice di vita e la portatrice di peccato (“You brought lust and temptation back into this house”, dirà Fred Waterford a sua moglie); ed è su questa dissociazione percettiva, degli uomini nei confronti delle donne, ma anche delle donne nei confronti di loro stesse, che si è lavorato in tutte queste dieci puntate della serie. Entrare, volontariamente o meno, a far parte di un sistema come quello di Gilead che non solo sostiene, ma che alimenta quella duplicità portandola all’estremo, è talmente innaturale per una donna (per qualunque donna) che richiede in cambio una scissione interiore obbligata: ogni personaggio femminile della serie, infatti, conserva in sé una duplicità straziante, che conduce a comportamenti disorientanti al punto da sembrare appartenere a persone diverse.

Boy, look at these outfits. It’s a parade of sluts.

Il disordine percettivo che soggiace alla creazione stessa della Repubblica di Gilead sta proprio nel suo principio fondante: le donne fertili salveranno la nazione, ma sono al contempo impure. Come è possibile relazionarsi a delle persone che portano in sé la salvezza dell’umanità e al contempo la distruzione della morale? Solo con comportamenti costantemente contraddittori. Ne abbiamo visto esempi lungo tutta la stagione, ma soprattutto nella dinamica tra Offred e Serena Joy: le violenze, fisiche e psicologiche, si sono affiancate a gesti amorevoli con un’alternanza agghiacciante, che tocca in questo finale i picchi più alti soprattutto con la visita alla figlia di June. Quella che dalle prime parole sembra essere una rassicurazione sul destino della bambina, proprio quando June è incinta del suo secondo figlio, si trasforma in minaccia nel giro di pochissime battute, nel momento in cui la salvezza della prima viene strettamente collegata a quella del secondo. Abbiamo visto cosa Serena sia disposta a fare pur di avere un figlio, proprio lei che ha sacrificato se stessa per un progetto che l’ha tagliata fuori quanto più lei lo creava; l’abbiamo vista consapevole del fatto che siano gli uomini ad avere un problema di fertilità, eppure convinta di dover ancora aderire a quel sistema, come a mantenere l’unica facciata possibile per salvare la nazione – intimamente convinta che gli uomini non accetterebbero mai una tale debolezza.

Ed è in questa puntata che la dicotomia esplode, nei confronti di June ma anche di Fred: perché per quanto si possa credere che basti essere presente durante l’atto del concepimento per farne davvero parte, è solo con quel test di gravidanza finalmente positivo che si verifica la più grande speranza di Serena e anche il più grande dolore, quello di non poter essere colei che porterà la vita nel mondo. L’ha sempre saputo, sin da quando ha cominciato a sferruzzare maglioncini e coperte per un nascituro che non arrivava mai, ma, ora che le cose si fanno concrete, tutto ciò che è stato a lungo più o meno sopito esplode in tutta la sua contraddizione: perché il figlio non è suo, ma nemmeno di quel marito che continua a vivere la propria vita senza pagare neanche un decimo dello scotto che sta scontando lei; e, in fondo, perché sarà colei che l’umanità ritiene una puttana a mettere al mondo suo figlio.

They should have never given us uniforms if they didn’t want us to be an army.

Il flashback di inizio puntata, che ci riporta là dove tutto è cominciato (“I’m sorry, Aunt Lydia”), si riflette come in uno specchio nella potentissima scena della lapidazione, in cui per la prima volta le ancelle si comportano davvero come un’armata, anzi, come una sola donna: le hanno rese uguali – nei vestiti, nelle funzioni – ed è proprio per questo che non possono in alcun modo uccidere una di loro, perché sarebbe come ammazzare se stesse. Sono state private di tutto, umiliate, picchiate e stuprate, e qualcuna di loro non è riuscita a sopportarne il peso; in questo caso, però, lapidare Janine non è “solo” l’uccisione di un individuo, bensì l’atto di estremo annichilimento di uno dei due generi umani, il cortocircuito di quel dualismo che crea la figura dell’ancella distruggendone l’umanità per sempre, salvo poi punirla proprio quando raggiunge il punto di rottura di una follia impossibile da sostenere.

“Night” lavora ad un livello molto profondo (sia concettuale che visivo) sull’unione delle ancelle, non solo perché forse insieme possono davvero abbattere questo sistema dall’interno, ma anche perché sono tutte nella stessa situazione: sono Maria Navarro e Greer Ladestro, sono Alison, Riley, Caroline, Aubrey e tutte le donne di quelle lettere che June legge piangendo, perché sono diverse eppure sono tutte uguali, tutte alla ricerca dei loro amati, dei loro figli, di aiuto e soprattutto del ricordo. Come in ogni guerra, e questa lo è, l’arma più forte di tutte è proprio la memoria, la testimonianza di chi resiste e di chi è anche disposto a morire affinché però qualcosa cambi. La speranza nel cambiamento June l’ha avuta per molto tempo, quando non riusciva a rimanere incinta e sperava accadesse – per essere trattata meglio, per non dover cambiare casa ed essere stuprata da un altro uomo, per non essere decretata non fertile ed essere spedita a morire nelle colonie; ma proprio ora che incinta lo è davvero, è impossibile – per lei, ma anche per lo spettatore – esserne davvero contenti. La rinuncia alla lapidazione di Janine è il primo vero atto rivoluzionario di June e di tutte le ancelle, che porterà di sicuro a conseguenze per ognuna di loro, ma che per la prima volta le fa sentire libere per aver compiuto una scelta davvero voluta, che le fa “sentire bene” (come sottolinea Nina Simone con la sua “Feeling Good”) e che ha permesso loro per la prima volta di trasformare il rosso del peccato delle loro vesti non nel rosso del sangue di Janine, ma nel colore dell’amore per loro stesse, che si staglia più forte che mai sullo sfondo nevoso della città che attraversano come un corpo solo.

“They called me when your name came up, and you’re on my list.”
“List? List of family?”


Non c’è donna nel racconto che non sia passata attraverso sentimenti contrapposti e contraddittori al punto da perdere pezzi di umanità, diventata irriconoscibile in se stesse e negli altri. Ne è un esempio Moira, il cui percorso è passato dalla reazione, alla fuga, alla rinuncia, fino all’estremo urlo di autopreservazione che l’ha portata fino in Ontario, a salvarsi fisicamente ma soprattutto mentalmente, proprio quando era sul punto di perdersi per sempre. Lo vediamo quando fatica a capire l’umanità che il Canada le offre e osserva stupefatta gli atti di pura e umana condivisione che pensava di aver dimenticato per sempre, ma soprattutto quando Luke la ritrova perché “lei è famiglia” e non è stata dimenticata. Ma lo osserviamo anche, in misura diversa, in Aunt Lydia, che forse più di qualunque altro personaggio è riuscita ad incarnare anime così opposte da sembrare davvero appartenenti ad una donna mentalmente instabile – e del resto, come si può svolgere quel lavoro rimanendo sane di mente? Donna capace delle più terribili punizioni e mutilazioni, è anche quella che ha lottato per il giusto riconoscimento di quelle donne mutilate per la sua causa; è lei che con le lacrime agli occhi dice alle sue ancelle che devono lapidare Janine e che impedisce alle guardie di uccidere quelle donne che lei stessa punirà in modi ancora sconosciuti. Aunt Lydia è l’incarnazione della follia di Gilead, l’umana rappresentazione della sua perversa legge morale.

Furthermore, I, Warren Putnam, did knowingly engage in the sin of lust and covetousness.
And by doing so, I rent the sacred covenant that exists between myself and my country, my brothers, and God Almighty.


Nessuna donna si salva da una scissione che miete vittime sia tra le innocenti che tra le colpevoli. E gli uomini? Il cambiamento che ha investito anima e corpo di tutte le donne della storia non ha toccato la vita degli uomini se non nelle apparenze: a poco a poco abbiamo visto come quella che sembrava una distopia per tutti sia stata in realtà solo un’illusione ottica per la controparte maschile, che, pur essendo in realtà la base del problema della fertilità, non ha fatto altro che spostare la questione sulle donne e modificare la loro di vita, mantenendo invece le proprie abitudini pressoché intatte. Lavoro, sesso, potere: al di sotto della superficie la vita per loro è rimasta la stessa, e se qualcuno non è abbastanza attento a mantenere la cosa nascosta deve essere punito per coerenza, ma con la consapevolezza che tutti, di fatto, sono rimasti uguali a loro stessi, e che, se errore c’è stato, è stato verso il Paese, i Fratelli e Dio – non certo verso le donne. La scena dell’amputazione di Warren è atroce proprio per il suo essere così asettica, cosa che trasferisce la punizione alla sfera dell’umiliazione più che del dolore, ma rimane l’extrema ratio, un caso su un milione, che serve per mantenere la facciata di comunità interamente devota alla causa. Niente impedirà agli uomini di continuare a illudere le ancelle, di portarle nei bordelli, e al contempo di punire le mogli per la loro supposta infertilità, anche quando chiedono quell’amore e quella passione che vengono poi additate come lussuria e peccato.

La puntata si conclude con un enorme punto di domanda sul destino fisico di June, ma non certo su quello morale: il rifiuto di uccidere Janine è stato fare “il suo dovere”, finalmente non quello di ancella ma quello di essere umano, di donna e di madre che vuole lasciare alla figlia un mondo migliore del suo; e per questo, per la prima volta, non prova terrore davanti all’ignoto. Ritrovare l’umanità è ciò che la ricongiunge a se stessa, che la riporta ad essere una e che forse riapre la speranza davanti ad un mondo che pare non averne più, sospeso in un’atemporalità – sottolineata dall’impeccabile lavoro sulle luci – che sembra rifuggire il cambiamento ad ogni inquadratura.

Questa prima stagione di The Handmaid’s Tale è stata quasi perfetta nel raccontare cosa abbia condotto a questa situazione e come essa si sia evoluta; tolte forse alcune scelte poco efficaci da un punto di vista strutturale – gli episodi con focus sui personaggi sono arrivati tutti in blocco, allentando un po’ troppo la presa sulla vicenda di June –, la serie ha saputo raccontare la storia da ogni punto di vista, con interpretazioni eccezionali (su tutte Elizabeth Moss e Yvonne Strahovski), montaggi perfetti nell’alternanza tra passato e presente e una fotografia in grado di esaltare la duplicità insita nella storia. Soprattutto però si è rivelata capace di raccontare uno dei più grandi problemi della nostra società, proprio perché parte da presupposti eternamente attuali per raccontare una vicenda che appare in-credibile solo perché fa troppa paura pensare che non sia poi così lontana dalle nostre vite. Ma non è forse la negazione della realtà a generare le peggiori psicosi?

Voto puntata: 8/9
Voto stagione: 9
The Handmaid’s Tale – 2×01/02 June & Unwomen
La prima stagione dello show ideato da Bruce Miller e dedicato alla rappresentazione delle atrocità del regime di Gilead ci ha rapiti subito e con merito. La bellezza e l’intensità che hanno caratterizzato la prima annata di The Handmaid’s Tale hanno permesso alla serie di imporsi fra i migliori prodotti del 2017 e di vincere numerosi premi, fra cui due Golden Globe. Questi successi, però, hanno alimentato le aspettative per una seconda stagione che adesso ha il difficile compito di eguagliare e superare i livelli raggiunti in passato.

È una sfida che si preannuncia ardua anche perché, d’ora in poi, la narrazione dello show non seguirà più la trama de “Il racconto dell’ancella” (conclusosi con le vicende della prima stagione) e dovrà intraprendere un cammino quasi del tutto autonomo che, in quanto tale, si rivela molto stimolante per le possibilità creative e narrative a cui può aspirare, ma, al tempo stesso, anche tremendamente rischioso. Nonostante ciò, la doppia premiere con cui ha esordito la seconda annata spazza via fin da subito le paure legate al ritorno di The Handmaid’s Tale e non esita a riportarci immediatamente nelle cupe atmosfere di Gilead: dopo pochissimi minuti di visione, infatti, si ha la sensazione che il tempo fra le due stagioni non sia mai trascorso.

2×01 – “June”

Il merito si trova sicuramente nella decisione di far ripiombare gli spettatori proprio lì dove avevamo lasciato June, in quel furgone dalla destinazione ignota che costringe la protagonista interpretata da Elisabeth Moss ad arrancare continuamente nel buio, mero strumento di un meccanismo che trova la sua linfa vitale nello strappare la libertà e l’autonomia di coloro di cui si serve per accrescere il proprio potere. Ed è proprio questo potere coercitivo ad essere riproposto nei primi minuti della puntata, dove la splendida scena nello stadio ripropone immediatamente tutti gli elementi che hanno contraddistinto la serie fino ad ora: la potenza visiva e simbolica della fotografia e, soprattutto, la costante angoscia scaturita dalla visione del crudo trattamento che le Ancelle sono costrette a subire. La vicenda della finta impiccagione riesce a colpire e a lasciarci senza fiato nonostante la palese prevedibilità del suo esito, e questo non può che sottolineare ancora l’ottima costruzione della serie, incrementata dall’interpretazione impeccabile di Elisabeth Moss che, con poche battute a disposizione, riesce sempre a bucare lo schermo con un’espressività capace di rendersi ancora più poliedrica man mano che il personaggio di June evolve con il susseguirsi degli eventi.

Il cambiamento e la “liberazione” di June dai panni di ancella saranno, probabilmente, alcuni degli aspetti più importanti della seconda stagione. È ben chiaro, infatti, che l’emancipazione della protagonista non dovrà limitarsi alla fuga dal regime di Gilead, ma sarà un cambiamento prima di tutto mentale: la sfida più grande per la giovane donna è la riconquista di un’identità perduta e mai dimenticata. Ma quella stessa identità calpestata ed umiliata per così tanto tempo sarà davvero in grado di risorgere intatta dalle ceneri del costume da Ancella di cui June si è finalmente liberata? Oppure saranno proprio le ferite e i traumi subiti a permettere la nascita di una personalità completamente nuova, pronta a riconquistare ciò che ha perduto e a vendicarsi per le ingiustizie subite? Interrogativi, questi, che potranno avere risposta solo nelle prossime puntate, ma non c’è dubbio che la nuova gravidanza di June e il rapporto sempre più stretto con Nick (Max Minghella) condizioneranno non poco l’evoluzione della nostra protagonista, incastrata ora in una sorta di via di mezzo fra la prigionia e la libertà, fra il passato e il futuro.

2×02 – “Unwomen”

Una delle novità più incisive di questa doppia premiere è l’intenzione degli autori di allargare i confini di The Handmaid’s Tale e di presentarci nuove ambientazioni e contesti più ampi. In “Unwomen” scorgiamo per la prima volta le terribili Colonie, luoghi tossici e radioattivi che accolgono le donne considerate ormai inutili per la società, costrette a lavorare senza sosta né protezione e, per questo, destinate in gran parte ad ammalarsi e a morire.

È questo il terribile contesto in cui ritroviamo Emily (Alexis Bledel), spedita nelle colonie dopo il folle e liberatorio atto di ribellione compiuto nella prima stagione. Le esperienze vissute nei panni di Ancella e, soprattutto, l’essere costretta a vivere adesso in luoghi e modi così tremendi ha indubbiamente cambiato qualcosa nella personalità di Emily: l’arrivo di una Padrona (interpretata da un’ottima Marisa Tomei) nelle colonie ci permette, infatti, di osservare impotenti il cupo cambiamento della giovane da vittima a carnefice. Una deriva, questa, dettata dalla rabbia e dalla disperazione di chi non ha ormai più nulla da perdere e per cui la cruda vendetta resta l’ultima possibilità di rivalsa e di blanda soddisfazione. L’Emily del passato, probabilmente, non avrebbe mai deciso di agire così, a dimostrazione del fatto che la disumanizzazione provocata dal regime di Gilead investe chiunque, dai potenti Comandanti fino alle vittime relegate e dimenticate nelle colonie. La giovane interpretata da Alexis Bledel sembra essere diventata il fantasma scolorito e incattivito della ragazza intelligente e altruista che era un tempo: le conoscenze acquisite in passato adesso sono soltanto uno strumento per sopravvivere e per vendicarsi dei soprusi subiti. L’aver ricevuto per così tanto tempo soltanto crudeltà e indifferenza ha spazzato via l’ultima traccia di empatia rimasta nella giovane, immettendola del tutto in questo circuito di morte e disperazione.

Anche la stessa June, seppur non costretta a sopportare le atrocità delle colonie, dovrà fare i conti con le conseguenze di ciò che ha vissuto: il ritrovamento della propria sessualità con Nick acquista ben presto un tono quasi ossessivo che sembra voler suggerire la presenza – dietro alla riappropriazione della propria vita e delle proprie scelte sessuali – di una probabile ed irrazionale voglia di offuscare con il sesso le emozioni, i traumi e i ricordi che la donna porta di certo ancora con sé. Ricordi appartenenti non solo alla sua vita da Ancella, ma anche e soprattutto a quella vita che le è stata portata via all’improvviso senza che lei potesse far nulla per evitarlo.

Dopotutto, il ritorno di Emily permette agli autori di compiere un ulteriore approfondimento dell’America precedente al regime di Gilead e di confrontare il presente e il passato attraverso l’utilizzo dei flashback: usati anche nella prima stagione, questi continuano a rivelarsi un ottimo strumento per narrare la deriva degli eventi che ha portato alla nascita di un sistema così brutale. Giovane e promettente professoressa universitaria, anche Emily è infatti costretta a veder scivolare in modo lento ma inesorabile tutti i diritti fondamentali che la caratterizzano in quanto essere umano. La gestione dei flashback si rivela, come al solito, molto sottile ed intelligente, in quanto attenta a dimostrare che ogni atto sessista (e, nel suo caso, anche ogni atto omofobo) non è mai un caso isolato e sporadico, ma fa parte di una dimensione ben più ampia che si nutre anche e soprattutto degli episodi più sottovalutati. La scena della lezione in cui viene mostrato l’atteggiamento di mansplaining, per esempio, concorre da spia di avvertimento per Emily e per le altre donne riguardo le tendenze poco incoraggianti che caratterizzano il loro ambiente lavorativo (e non solo). Si tratta di un piccolo ma deciso passo verso quell’escalation coercitiva che vedrà ben presto le donne private di ogni autonomia e libertà e che, infine, aprirà la strada alla tremenda teocrazia mostrataci in tutta la sua crudeltà.È sempre ben evidente, dunque, l’intenzione degli autori di illustrare non solo i meccanismi brutali di tale sistema, ma soprattutto quegli eventi più sottili e silenziosi che, trattati con eccessiva leggerezza, hanno avuto la possibilità di crescere fino a trasformarsi in mattoni di un muro sempre più alto e spesso, ormai quasi impossibile da abbattere.

È facile capire perché The Handmaid’s Tale abbia avuto un impatto così forte capace spesso di trascendere la dimensione seriale. Anche nella sua incisiva distopia, la serie strizza l’occhio a tantissime tendenze e avvenimenti dell’attuale realtà storica: e ci riesce proprio nel dimostrare che, prima di Gilead, c’era un mondo non tanto diverso dal nostro, un mondo in cui nulla ci assicura che, in mancanza della dovuta attenzione, i diritti conquistati con fatica in passato non possano essere persi nuovamente.

Per concludere, The Handmaid’s Tale ritorna con una doppia premiere che riconferma l’intensa carica emotiva e la potenza visiva di una serie che ha tutta l’aria di avere ancora tanto altro da dire. Non ci resta che aspettare con impazienza i prossimi episodi per confermare l’avvio positivo di questa nuova annata.

Voto 2×01: 8
Voto 2×02: 7/8
The Handmaid’s Tale – 2×03/04 Baggage & Other Women
Di culti e di sette ne è pieno il mondo e ne è stata piena la storia, anche quella recente. Lo ricorda amaramente Wild Wild Country, il recente documentario dei Duplass sulla vicenda Osho che ha scosso l’America degli anni Ottanta, per esempio. Dalla realtà alla fiction il passo è breve, anzi brevissimo: The Handmaid’s Tale, infatti, ha messo in scena in modo egregio tutte le caratteristiche dell’isteria religiosa nella forma narrativamente vincente – e avvincente – della distopia, dipingendo la macabra rappresentazione di un mondo dove la figura femminile è oppressa e privata di ogni diritto naturale.

Nella prima stagione il mezzo attraverso il quale raccontare questa storia è stato lo sguardo di Offred, il cui nome porta in sé già la definizione di un’identità che non appartiene a se stessa ma a qualcun altro. Come fosse un’incubatrice vivente, l’ancella deve difatti vivere in virtù del suo ruolo di procreatrice e null’altro, annullando ogni caratteristica propria e ogni desiderio di libero arbitrio. La crudeltà di questa schiavitù istituzionalizzata è stata sempre più mitigata, nel corso della prima annata, dalle speranze crescenti che hanno portato infine Offred a fuggire nel primo episodio della seconda stagione e a riappropriarsi del proprio nome e del proprio corpo, come dimostrano i gesti che compie (brucia gli abiti, si auto-mutila). “Baggage” riprende la narrazione proprio da June, non più Offred, che si libera dalle catene del regime di Gilead e comincia ad assaporare la possibilità di fuggire definitivamente in Canada.

2×03 “Baggage”

Non è tuttavia così facile liberarsi dei “bagagli” a cui allude il titolo dell’episodio. La fuga da Gilead deve essere prima di tutto una liberazione della mente, un lasciarsi alle spalle il dolore e i traumi del periodo vissuto nella gabbia della teocrazia monoteista. È un percorso difficile anche per chi si trova già fisicamente al sicuro come Moira che, pur non dovendo temere più per la sua vita e potendo vivere la sua sessualità in completa libertà e autonomia, non riesce ancora a farsi una ragione della sofferenza indicibile a cui è stata costretta fino a pochi mesi prima. Anche in questo caso torna prepotente il discorso sull’identità: Moira è ancora in parte Ruby e, per quanto possa sperare di liberarsene, probabilmente non ci riuscirà mai del tutto.

Il bagaglio di June è principalmente la sua maternità: se la fuga infatti diviene per lei una possibilità sempre più tangibile, lo stesso non si può dire per Hannah, che rimane prigioniera di Gilead. Da qui si origina la dolorosa scelta della protagonista nel finale dell’episodio, costretta ad abbandonare le pochissime chance di rivedere la figlia in virtù dell’abbandono di quella terra maledetta che l’ha privata anche di tante altre cose, tra cui la dignità.

Prima di arrivare a questa decisione, però, la traiettoria del viaggio di June passa attraverso la vita della famiglia di Omar, utile soprattutto a mostrare un aspetto della società che ancora mancava nella serie, e il ricordo di Holly, quest’ultima nell’ottica di un parallelismo un po’ forzato sul rapporto madre-figlia. Dal primo incontro il personaggio di Elisabeth Moss entra in contatto con un punto di vista nuovo sulle figure delle ancelle (la moglie di Omar, infatti, dice di non capire come si possa cedere il proprio figlio, dimostrando come non sia ben chiaro all’esterno ciò a cui le ancelle sono sottoposte e soprattutto la loro impossibilità di decidere a riguardo); allo stesso tempo June capisce anche la difficoltà di un nucleo familiare – che oltretutto è molto simile a quello di cui faceva parte lei – a sopravvivere, essendo costretti a crearsi una routine “di facciata”, che lasci tutte le pratiche considerate anti-regime ben nascoste sotto il letto. Il ricordo di sua madre, invece, vuole in parte raccontare per la prima volta la dimensione di “figlia” di June – dopo che l’abbiamo vista in tutti i modi in quella di genitore – e in seconda battuta mostrare la delusione delle aspettative che Holly, attivista e convinta femminista, aveva per lei.

Laddove Kari Skogland, regista sia di questo episodio che del successivo, fa un ottimo lavoro – non facile visto che ci si allontana dalle atmosfere e dagli ambienti tipici della serie –, è la scrittura di Dorothy Fortenberry a difettare, rendendo questo episodio, seppur buono e in linea con la qualità media dello show, meno scorrevole e meno interessante di quanto avrebbe potuto essere. Per esempio, avrebbe avuto senso esplorare maggiormente la mitologia interna che regola la vita delle famiglie medie di Gilead – cioè quelli che non appartengono all’èlite, come Omar – e la figura semisconosciuta per i non lettori delle Economogli, che nell’episodio viene a malapena accennata; allo stesso modo sarebbe stato meglio donare maggiore profondità e armonia alla combinazione tra la fuga di June e i flashback sul rapporto con la madre, alle volte poco utili e pesanti sull’economia dell’episodio.

2×04 “Other Women”

È chiaro dunque che questa seconda stagione si vuole configurare come una lotta per la riappropriazione di sé, laddove il continuo passaggio di identità di June/Offred è paragonabile a quello di un tiro alla fune. Dove la forza d’animo e la volontà di essere libera spingono la donna a cercare la fuga, la forza soggiogante e psicologicamente temibile delle gerarchie di Gilead cerca di riportarla nel proprio sistema di rigide leggi volte ad annullarne l’umanità. Queste forze sono rappresentate da Lydia e Serena, le donne di cui si parla nel titolo dell’episodio.

Il ritorno in casa Waterford può sembrare un vero e proprio reset narrativo, ma chi pensava davvero che June sarebbe riuscita a fuggire in Canada? Certo, avendo scelto di lasciar fuggire la protagonista e avendola portata ad un passo, letteralmente, dalla libertà, gli autori avrebbero anche potuto sfruttare il maggior tempo a disposizione – tredici episodi invece dei dieci dello scorso anno – per sviluppare una parte di racconto “on the road”; con June incinta in fuga ne avrebbe giovato un lato più action che, sebbene non sia nelle corde dello show, avrebbe rappresentato una divertente variazione di ambienti e di narrazione.

Niente da fare, dunque; con la promessa di buona condotta June – che rivendica con forza il suo vero nome anche nel faccia a faccia con Aunt Lydia – può tornare a vivere nella casa da cui era fuggita, con la famiglia a cui sarà costretta a lasciare il bambino che porta in grembo. Forte della protezione garantitale dal suo stato interessante, la protagonista è un personaggio più sicuro di sé – si permette addirittura di contro-minacciare la signora Waterford – ma anche disilluso, sapendo che non avrà facilmente un’altra possibilità di andarsene da Gilead. In questo precario equilibrio psicologico si insinua la scaltrezza e l’opportunismo del regime che estrae una delle armi più potenti che ha a disposizione: il senso di colpa. Un cadavere appeso non è un’apparizione rara per June, ma in questo caso si tratta di qualcuno che si trova in una situazione conseguente ad una sua azione. La donna comprende che ogni suo passo, ogni suo desiderio, per quanto legittimo, ha portato con sé una serie di conseguenze inimmaginabili per qualcun altro; esattamente come i flashback riportano alla sua storia d’amore con Luke, che distrusse la vita della moglie.

A far scattare qualcosa nella psiche, già messa a dura prova, dell’ancella si aggiunge l’inquietante baby shower organizzato da Serena, volto a celebrare la miracolosa gravidanza. La moglie del comandante appare nel suo momento di massima tensione, sull’orlo di una crisi e di un’invidia sempre crescente nei confronti di June; da brividi la scena in cui accarezza il ventre della protagonista per poter provare quelle sensazioni che la natura le ha precluso.

Il finale di questo ottimo episodio, che richiama le atmosfere più canoniche dello show, lascia presagire un futuro quanto mai incerto sulla condizione di June. È possibile che casa Waterford torni ad essere il palcoscenico privilegiato della serie come lo scorso anno, ed è ancora più probabile che tutta questa annata sarà concentrata sull’intero periodo della gravidanza dell’ancella. Per quanto riguarda la sua salute psicofisica, nulla è pronosticabile.

Voto episodio 3: 7–
Voto episodio 4: 7/8
The Handmaid’s Tale – 2×05/06 Seeds & First Blood
Questa seconda stagione di The Handmaid’s Tale raggiunge infine un momento topico della sua annata televisiva: con la conclusione del sesto episodio, la vicenda personale di June/Offred entra ancor più al centro di un racconto generale che avrà di certo sviluppi ed evoluzioni profonde e prolifiche di novità.

In verità, con l’eccezione dell’esplosiva conclusione di “First Blood”, sia questo episodio che “Seeds” si sviluppano prevalentemente in un senso più attento ai singoli personaggi e alle proprie difficoltà. L’attenzione ad una narrativa generale sull’intera Gilead era stata messa da parte (ma d’altronde non ha mai formato il nucleo principale del racconto) in favore di uno sguardo più intimistico, ma sempre a fuoco, sulle diverse personalità in campo; ed è proprio il loro modo di interagire a creare il grosso del piacere della visione.

È dal rapporto June/Offred e Serena Joy che si possono capire moltissime cose sul trattamento che questa serie riesce a dare al mondo femminile. Nonostante, infatti, alcuni temi sul ruolo della donna siano più urlati e per questo, pur essendo molto efficaci, non altrettanto eleganti, ben più potenti sono i commenti che possono sorgere se al centro poniamo il rapporto tra le due donne, le loro dinamiche, la loro impossibile relazione. Ciò che funziona è che nessuno è davvero un puro carnefice, ciascuno è, a suo modo, anche un po’ una vittima. Ed in attesa di lanciare uno sguardo al passato di Aunt Lydia, che sarà indubbiamente interessante, con “First Blood” possiamo assistere ad alcuni momenti fondamentali della vita precedente di Serena, la sua personalissima partecipazione alla formazione di questo nuovo mondo e lo stallo nel quale si ritrova adesso. Andiamo per gradi.

Dal ritorno di Offred all’interno della propria casa, le cose per Serena non sono state affatto facili: non solo perché avrà un figlio che ella stessa non potrà percepire né sentir crescere dentro di sé, ma soprattutto perché colei che deve funzionare come incubatrice non ha alcuna intenzione di comportarsi da oggetto inanimato; persino quando lo fa, quando Offred prova a comportarsi secondo tutte le regole, Serena è ugualmente insoddisfatta dal suo comportamento. In altre parole, la Moglie non ha idea di quel che vuole, e non riesce ad esprimere la sua insofferenza se non attraverso costanti e continui atti di cattiveria che alterna a momenti di tenerezza con una umanità di cui forse è persino spaventata. I suoi tentativi di formare un’amicizia con June partono da un punto di partenza malato, che vorrebbe la costruzione di qualcosa a partire da un rapporto impari e che non è certo destinato a durare. Serena, ingabbiata in una vita che lei stessa ha contribuito a costruire, non riesce a imbrigliare la propria stessa vitalità, quell’energia che anni prima l’aveva resa ardente sostenitrice delle proprie politiche, anche se questo aveva voluto dire affrontare a viso aperto i propri detrattori (ironia straordinaria, tra l’altro, il lamentarsi di non poter esprimere liberamente l’opinione che le donne non debbano più esser libere, con una proiezione sulla nostra contemporaneità quasi spaventosa). Adesso, però, Serena si ritrova a dover cucire, a badare alle piante, a dover gestire relazioni di pura apparenza e a dover chiedere al marito il permesso per ogni cosa.

Sull’altro versante, June è travolta dalla sensazione di aver perso, dall’incapacità di combattere dopo il clamoroso e doloroso fallimento che è stata la sua fuga, a cui non è nemmeno stato dato l’onore del riconoscimento. “Seeds” è tutto basato sul suo arrendersi temporaneo, su quel volersi lasciar andare ad un destino che si palesa attraverso le perdite di sangue di cui non comunica l’entità. Sarà solo il risvegliarsi in una sala d’ospedale, viva ed ancora incinta, che le permetterà di ritrovare se stessa e capire fino in fondo le proprie necessità. L’intero episodio sancisce la resurrezione di una donna che trova nella forza del proprio figlio non ancora nato quella forza di cui si era privata: la sua voglia di rialzarsi è ciò che le permette di affrontare ancora una volta Serena e tutte le falsità e le ipocrisie di cui la loro vita è ammantata. Nella loro danza d’avvicinamento e di improvviso rifiuto, June non può e non vuole lasciarle dimenticare che la priorità nella sua vita è Hannah, la figlia di cui ha perso le tracce e che l’altra donna ha già minacciato una volta. La speranza in una “decenza” che non arriva è il momento in cui la maschera di finzione e circuizione che le coinvolge deve esser fatta cadere definitivamente: June non ha alcuna intenzione di essere Offred fino in fondo.

June non è la classica vittima, Serena non è la classica carnefice: ciascuna di loro è molto più di quello che si vede e la loro complessità è celebrata e confermata dalla serie stessa che del ruolo femminile ha fatto il centro della discussione, ma anche il suo carburante da declinare in numerosissime sfumature, l’una più ricca dell’altra. Le donne della serie sono madri, schiave, incubatrici e premi: ai migliori servitori dei Comandanti e della Repubblica vengono infatti date in dono delle mogli (che ricevono l’anello ancor prima d’esser viste in volto, tanto la singola persona è del tutto secondaria), il cui scopo è la soddisfazione del marito e la generazione della prole, il momento più alto della loro essenza in quanto donna. La profondità della solitudine di questi personaggi – tutti, compresi gli uomini, paiono afflitti da schemi e strutture che li lasciano e li abbandonano alla loro solitudine – è espressa dal costante e vuoto formulario di saluti e di frasi fatte che esplodono in tutta la loro ipocrisia laddove si pretende di voler uscire dagli schemi preimpostati: si veda l’assurdità dell’incontro (sorvegliato) fra Ancelle, in cui la finzione di una comunicazione quotidiana, a mo’ delle loro passeggiate, porta Serena ad interagire con la donna a cui è stata amputata la lingua proprio per la propria libertà di parola. Anche gli uomini, che in verità hanno un ruolo un po’ defilato (ma è un bel cambio di prospettiva) devono sottostare a delle regole che li vogliono dei privilegiati, a patto che si uniformino alla massa: e dunque senza attività sessuale con la propria moglie il rischio di essere tacciati per “traditori del genere umano” è troppo grave per essere ignorato.

Se l’arrivo di Eden funziona anche per generare nuove tensioni all’interno della casa, è con “First Blood” che lo sguardo si amplia sensibilmente e l’azione kamikaze finale è l’apripista a quello che sarà, ne siamo certi, un nuovo corso nel racconto futuro. A prescindere, infatti, dall’esito incerto e dalla conta dei morti, si tratta di un fallimento da parte del Comandante Waterford (difficile credere che sia morto), a partire da quello che doveva essere il suo grande successo, l’inizio forse di una nuova carriera. Il personaggio interpretato da Joseph Fiennes non è stato molto presente finora in questa seconda stagione, ma in questo episodio abbiamo intravisto che nulla è davvero cambiato: scalpita per più potere, è sedotto dalla forza delle donne, è succube dei propri istinti. Si tratta chiaramente di un uomo che ha sfruttato fino in fondo la situazione a proprio vantaggio ma che probabilmente non è in grado di farlo con la necessaria dedizione. E così questo nuovo colpo non potrà che aprire voragini anche all’interno della propria famiglia.

Ciò che non manca a questa serie e che le permette di respingere le accuse di pornografia del dolore è la costante presenza di un filo di speranza che non si spezza mai: questa volta si tratta della toccante luce di amore che appare in quel coacervo di dolore e sofferenza che è il lager in cui il personaggio di Alexis Bledel è stata spedita. L’arrivo di Janine, in tutta la sua innocenza stralunata, è la spinta a celebrare un matrimonio, un’oasi di serenità che si apre dinanzi a loro nonostante il pericolo costantemente incombente. Emily è inizialmente atterrita da tutto questo: tutta tesa alla cura dei malati e al mantenimento dello status quo (la sopravvivenza), aveva dimenticato che cosa volesse dire provare qualcosa che possa essere umanamente più luminoso. Si prospettano anche per lei stimolanti opportunità narrative.

The Handmaid’s Tale poteva trasformarsi in un disastro, in questa stagione, ma finora si mantiene su ottimi livelli. Nonostante il ritmo sia talvolta imperfetto, la serie non arranca mai e riesce ancora a produrre momenti di grande bellezza. I suoi personaggi, poi, sono potenti e multisfaccettati, impossibili da chiudere in etichette prestabilite e semplici. Ciò che stupisce di questa scrittura è la sua vitalità che non cede mai al facile gusto per lo shock e il dolore: nonostante The Handmaid’s Tale sia difficilissimo da guardare, nondimeno è impossibile staccarsi dalla sua visione perché è in grado di toccare corde che poche altre serie riescono ad individuare.

Voto 2×05: 8½
Voto 2×06: 8
The Handmaid’s Tale – 2×07/08 After & Women’s Work
Se la prima parte di stagione si era chiusa con un vero e proprio botto, la seconda parte si apre con due episodi che sembrano indirizzare in maniera decisa il racconto verso una direzione, ovvero quella della rinascita delle donne, in ogni sua concezione, ergendo – finalmente – a vera e propria co-protagonista Serena Waterford.

I need a pen

L’episodio che ha forse spostato definitivamente gli equilibri di Gilead è stata appunto la violenta esplosione durante un’importante conferenza del Partito, che ha visto tra le sue vittime anche decine di Ancelle, costrette a partecipare all’evento. Oltre a questo turning point importante, l’altro aspetto interessante dell’evento è come lo si legge: al di là delle opinioni lineari e scontate (condanna del partito, nuova speranza per chi subisce soprusi), è il punto di vista di Janine che sorprende un po’: leggerlo come la volontà di Dio per un disegno più grande fa quasi sorridere, specie per la mente della persona che lo ha partorito. Ma la lettura di Janine risulta sorprendente se la interpretiamo rispetto al canovaccio che si dipana in queste due puntate: alcune delle Ancelle vengono “salvate” dalle Colonie e riportate in città, si dà loro la possibilità di conoscersi meglio, di fare quasi comunella come non era mai capitato prima, e Janine ricoprirà un ruolo fondamentale nella questione della sua figlia neonata che è malata e quasi senza speranza. Insomma, i morti – soprattutto tra le Ancelle – non sarebbero altro che un disegno divino per qualcosa di più grande e importante: molto interessante che questa lettura venga appunto da una persona che ha subito di tutto e di più da quando esiste la Repubblica Divina.

Proprio l’attentato accende in June il senso di colpa di non avere mai saputo il vero nome dell’attentatrice. Si rende conto definitivamente di quanto quello che sta succedendo sia spersonalizzante non solo a livello personale, ma soprattutto a livello sociale. È quindi così che nasce la scena al supermercato, dove a giro tutte le Ancelle si presentano con il loro nome di battesimo, ritornando ad essere delle persone: solo così si può battere l’ignoranza e il dispotismo, alzando la propria voce e dicendo chi siamo. Perché, come dice il cartello finale de Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud, “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”: la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi.

Oltre a questi interessanti e importanti sviluppi, prende piede il personaggio di Serena, come già anticipato: la signora Waterford sta lentamente iniziando a tornare quella che era prima di Gilead, un’attivista e una donna dedita al lavoro, una donna forte che sa quello che vuole e soprattutto come ottenerlo. La miccia è l’incidente del marito, che lo relega forzatamente a letto, lasciando campo a Serena di esprimere tutto il suo valore, di non essere più costretta a fare lavori a maglia per passare il tempo, di elevare la pari dignità della donna a quella dell’uomo. È una ribellione fatta e finita, che sorprendentemente coinvolge anche June, “promossa” ad aiutante in una delle sequenze più belle di tutta la serie: due donne che fanno un lavoro da uomini (quantomeno nella concezione del nuovo Stato), concentrate, impegnate e soprattutto realizzate. L’apoteosi del simbolismo poi chiude la puntata, che si specchia nel finale della precedente: anche in questo caso è una donna a schiacciare il bottone dell’innesco di una rivoluzione. Non si tratta di una bomba, ma di una penna: a ben vedere, potrebbero essere la stessa cosa.

Someone once said: “Man are afraid that women will laugh at them. Women are afraid that men will kill them.”

Con l’ottava puntata si continua il discorso fatto nascere nell’episodio precedente, mettendo al centro Janine e la storia della bambina partorita per i Putnam. È proprio Janine, con il suo quasi ingiustificabile buonumore, il centro del cambiamento in atto: illuminante il dialogo quasi normale che ha con June durante la passeggiata, quando fa riferimenti diretti alle saghe di Star Wars e Alien. Uno di quei dialoghi che si hanno quando si parla del più e del meno, quando si discute di cose futili solo per stare un po’ in compagnia (June che le risponde “Il sequel era molto meglio” suona talmente strano da farci sorridere a trentadue denti), un momento che ci riporta a quella cultura pop che è stata sradicata da questo nuovo Governo, ritornato di colpo indietro di duecento anni. Anche questo episodio ci parla ancora prepotentemente dei diritti delle donne: se finora ci si era concentrati sul ruolo della donna in una società maschilista – portando il tutto all’estremo, ma neanche troppo, se ci pensiamo bene – ora il verso della narrazione sembra cambiato, virando sulla lotte delle donne, che devono ricominciare da capo un percorso cominciato appunto decenni fa e che ancora oggi non ha dato tutti i frutti sperati.

La rinascita delle donne è quindi il tema principale di questo spezzone di stagione, tema che si riflette anche sulla figlioletta di Janine, ammalatasi improvvisamente e che sembra non avere più nessuna speranza. Allora qui “rinascita” assume un significato vero, concreto, quasi carnale, la rinascita da un male che sembrava inestirpabile ma che invece sembra essere passato. Grazie a che cosa, però? A prima vista sembra un vero e proprio miracolo: grazie all’amore incondizionato e sincero della sua vera madre, la piccola in punto di morte riprende a vivere come niente fosse, come se qualcuno avesse deciso che non era ancora il momento, che chi crede veramente in un potere superiore che veglia su di noi venga poi ripagato da tutta la sofferenza che ha dovuto patire – abbiamo appena descritto esattamente la figura di Janine.

Rinascita che passa anche attraverso l’utilizzo di una Martha come medico imprescindibile nel caso della figlioletta di Janine: una donna, peraltro di colore, che torna al suo lavoro ancora grazie a Serena, che si ammutina pur di dare speranza alla neonata, e di conseguenza anche a Janine, già la seconda Ancella che entra nel campo misericordioso della Waterford. Proprio questa scelta ha ovviamente delle ripercussioni, che si materializzano nella punizione medievale di Fred: veniamo riprecipitati in quel mondo oscuro che è Gilead, troncando forse una speranza che si intravedeva tra le crepe di questa nuova società, che nuova (in senso lato) non lo è affatto.

The Handmaid’s Tale sforna quindi due puntate degne di nota, che danno una svolta importante alla stagione e alla serie stessa, tenendo fede alla sua qualità e al suo ritmo, suggerendoci che forse, più forte della morte, della scienza e persino di Dio, c’è solo l’amore.

Voto 2×07: 7
Voto 2×08: 7½
The Handmaid’s Tale – 2×09/10 Smart Power & The Last Ceremony
Se c’è una cosa che questa stagione di The Handmaid’s Tale ha dimostrato è sicuramente quanto sia difficile continuare un racconto che viaggia su livelli altissimi per quanto riguarda il trattamento e l’esposizione del dolore, della violenza, di una distopia che risulta vicina a noi molto di più di tante altre – non fosse altro che per il materiale di partenza di Margaret Atwood, che ha dichiarato come tutte le sue “invenzioni” fossero in realtà sempre ispirate a ciò che le donne, in anni e paesi differenti, hanno dovuto davvero subire o subiscono ancora.

La difficoltà deriva dal dover decidere cosa mostrare e fino a che punto mettere in scena le crudeltà di una dittatura come quella di Gilead; non è facile trovare la misura, né il punto di rottura nella valutazione della differenza che si trova fra una esposizione narrativamente giustificata e una provocazione fatta e finita ai danni dello spettatore. E non è neanche qualcosa che abbia degli standard oggettivi riconosciuti: al di là della giustificazione narrativa, è poi nella sensibilità di ciascuno che risiedono i limiti di sopportazione e, di conseguenza, di contestualizzazione di una violenza messa in scena come necessaria o sentita come “di troppo”. “Smart Power” e “The Last Ceremony” sono puntate che hanno entrambe il compito di ricordarci (e riportarci a) cosa sia davvero Gilead e non perché qualcuno possa essersene dimenticato; ma perché purtroppo l’abitudine è la peggior nemica della memoria emotiva, e quello che all’inizio può sconvolgere – lo stupro delle Ancelle come base della comunità di Gilead – rischia di diventare non certo normale amministrazione, ma qualcosa che fa male senza più impressionare, che ferisce ma che viene allontanato per autodifesa, o perché “ormai lo sappiamo bene cosa succede” e dunque possiamo permetterci il lusso di non pensarci più con la stessa intensità.

È un processo che coinvolge lo spettatore, che si abitua al fatto che tale sia la vita in quel mondo, ma è qualcosa che ha a che fare in primo luogo con la mente delle Ancelle, che sin dalle prime puntate della prima stagione ci venivano mostrate nell’atto di estraniarsi da se stesse durante “i cerimoniali”, stupri di massa dipinti come eventi santificati proprio perché ritualizzati fino all’ultima mossa, fino all’ultima parola da pronunciare. Sarà proprio il decimo episodio a riportarci con i piedi per terra, a ricordarci che non dovremmo mai neanche solo per un secondo azzardarci a guardare a queste scene con occhio allenato e cuore anestetizzato. Ma non si può arrivare a quel punto senza passare dal primo, grande ritorno alla realtà dei Waterford e in generale di tutto il sistema di Gilead: il confronto con il Canada.

It’s sad what they’ve done to you.

Dopo un inizio di stagione piuttosto altalenante, soprattutto nel tratteggiare il personaggio di June/Offred, a seguito dell’esplosione della bomba nel sesto episodio il racconto è riuscito a ritrovare la sua strada grazie a un temporaneo rimescolamento delle carte che, con Fred lontano dai giochi, ha permesso a June e a Serena di avvicinarsi e di iniziare a porre le basi di un’alleanza tutta al femminile, che nell’ottavo episodio ha raggiunto il suo punto più alto.

Non poteva ovviamente durare a lungo e, dopo la punizione di Serena, quest’ultima non ha più possibilità di decidere per sé, ma soprattutto non lo desidera più; accetta il viaggio in Canada, pur con qualche remora, ma non ha alcun dubbio circa il destino di June a seguito del parto. E non c’è da sbagliarsi in questo senso se si legge la sua scelta come una autoprotezione più che come una salvaguardia del bambino in arrivo: June è diventata il punto debole di Serena, quella che rischia di portarla dal lato giusto della storia (sbagliato però per il regime) e che dunque incarna in tutti i sensi la tentazione più alta: quella della ribellione.

È per questo che, nonostante le umiliazioni ricevute in Canada – non ultimo il sottile ma devastante attacco alla sua formazione, che è in realtà molto alta, mentre lei viene scambiata per analfabeta con la consegna di un programma giornaliero fatto di soli disegni –, nonostante i dubbi suscitati dall’arrivo di Luke con la foto che lo ritrae insieme a June e ad Hannah, nonostante tutto questo Serena non si muove di un millimetro. Non accetta nessun tipo di aiuto e non lo chiede; ed è solo per zittire quella voce interiore che le dice che sta sbagliando (quella stessa che la porta a guardare fuori dal finestrino una città viva e soprattutto libera) che la donna arriverà, con l’episodio successivo, ad estremizzare ancora di più il suo comportamento. Lo farà lei ma anche Fred, che subisce un processo simile – con la differenza che i suoi dubbi non sono certo sul sistema, ma causati dal suo punto debole, di nuovo June – e che dall’umiliazione del Canada farà derivare un identico inasprimento del comportamento. Tutto questo, però, non prima di aver subito entrambi altri due colpi bassi dalla stessa June.

È infatti in “The Last Ceremony” che si completa la trasformazione dei Waterford. Per Serena si tratta ovviamente del giorno perfetto e al contempo rovinato, quel giorno così atteso – e così tante volte visto con altre donne protagoniste – che viene devastato da un’incolpevole June, vittima delle note “false” contrazioni di Braxton Hicks, la quale tuttavia risulta non certo dispiaciuta di quanto accaduto: lo sguardo con cui June, vestita di bianco sul letto del parto e circondata dall’amore delle sue amiche, investe la presenza di Serena è di quelli legittimamente vendicativi, ma è anche l’ultima provocazione che Serena può accettare. Allo stesso modo, con Fred il problema risiede non certo nella richiesta dello specifico distretto in cui andare a finire, e nemmeno nel riferimento alla sua non paternità – di cui Waterford è già al corrente; ma nella suggestione che qualcosa non sia in suo potere, in quell’apparentemente inoffensivo “If it is at all, within your power to do that” che in realtà esplode come una bomba a mano, e che colpisce Fred tanto quanto sua moglie. Le stilettate finiscono nell’ego di due persone che non hanno per niente la situazione sotto controllo, l’uno dal punto di vista politico dopo il rifiuto da parte del Canada a seguito della pubblicazione delle lettere (“We believe the women”, con un neanche troppo velato riferimento al movimento #MeToo); l’altra a livello personale e interiore, in quel luogo dell’anima in cui una parte di lei le dice sempre più spesso quanto tutto a Gilead sia profondamente sbagliato e a cui lei risponde con un irrigidimento direttamente proporzionale alle vulnerabilità in aumento. Ed è così che si giunge alla terribile decisione dei due.

Mrs. Waterford wants to see you.

L’abitudine all’orrore, si diceva all’inizio: forse per questo “The Last Ceremony” si apre su una “cerimonia” che altro non è se non l’ennesimo stupro cui una donna, Emily, è sottoposta e da cui si aliena – e ce lo ricorda, sottolineando il concetto di allontanamento da sé, non la voce di Emily ma quella di June (“You pretend not to be present, not in the flesh You leave your body”), che ci riporta di colpo a quei rituali che non vedevamo da un po’ ma che non per questo devono essere dimenticati. La ripetizione dell’atto, delle parole con la voce di June, è un ricordo vivente del fatto che mentre eravamo impegnati a guardare altro (la gravidanza, l’esplosione, i tentativi di fuga, le temporanee alleanze) tutto questo non ha mai smesso di andare avanti, esattamente come, in migliaia di altri posti del mondo, ora, mentre leggete questa recensione, si stanno consumando atti di violenza ai danni di altri esseri umani (spesso donne, per il solo fatto di essere tali).

Che cos’è quindi l’ultima cerimonia? È l’ultima di Emily in quella casa, data la morte del suo Commander (decesso su cui tra l’altro non sarebbe insensato intravedere una qualche responsabilità della stessa Emily, se seguiamo il suo sviluppo a partire dalle colonie con la morte della Padrona interpretata da Marisa Tomei). Ovviamente no: l’ultima cerimonia all’inizio pare a tutti gli effetti essere il parto di Offred, ma come sappiamo non avverrà nemmeno quello. Ecco che quindi il senso di quell’ultima cerimonia comincia ad intuirsi quando Aunt Lydia parla dei rimedi per accelerare il parto in una donna quasi a termine; ed è vero, è scientificamente dimostrato: lunghe camminate e cibi piccanti possono aiutare l’arrivo del travaglio, così come dei consensuali e delicati rapporti sessuali. “The most natural way”, appunto, che però viene, come tutte le cose a Gilead, preso e ribaltato, portato all’estremo e trasformato nell’atto più mostruoso cui si possa pensare; un atto che in realtà accade tutti i giorni a Gilead, e che viene superato nella maggior parte dei casi alienandosi da sé, come dice June a inizio puntata, ma come la stessa June non può fare in questa “ultima cerimonia”, dove la violenza ricevuta è amplificata dalla completa follia raggiunta dai Waterford, i quali sfogano la loro vendetta su un corpo che dovrebbe dare la vita da lì a pochi giorni e che invece viene stuprato e infine abbandonato come un cadavere sul letto. Veniamo riprecipitati, di colpo, in un mondo che però è sempre stato lì. Ce lo hanno detto al meglio che potevano, che quella cosa a cui preferiamo non pensare e che lasciamo in seconda traccia è invece il marchio fondante della dittatura: un regime che si basa, prima che su ogni altra cosa, sullo stupro come unico e solo mezzo per continuare la razza umana; sulla considerazione dell’Ancella come corpo di proprietà altrui, da cui ne consegue che la violenza su quest’ultima non ha nessun valore, nessuno se quel corpo non è di nessun altro ma della famiglia che lo possiede, che può farci letteralmente ciò che vuole.

Ci sarà chi parlerà ancora di exploitation dell’abuso, del dolore, della violenza, e sicuramente ci sono i termini per iniziare una conversazione a riguardo che non fa di certo mai male: ma lo stupro come rituale, in The Handmaid’s Tale, è pietra d’angolo della formazione del racconto; ed è qualcosa che ultimamente non avevamo più visto, con l’evidente volontà da parte degli autori di risottoporcela per dimostrare che non possiamo, neanche per un secondo, farci anestetizzare dalla quantità di dolore che ci arriva, che sia da una serie tv o da un telegiornale. Abbiamo il dovere morale di ricordare e il divieto più assoluto di voltarci dall’altra parte.

I just wanna tell you that I will always be your mommy. You know that?
And Daddy and I will always love you.


È un divieto che non conta solo per le violenze perpetrate ai danni delle Ancelle e delle donne in generale a Gilead, ma anche (con una tempistica impressionante se si pensa alla risonanza mondiale in questi giorni riguardo agli eventi al confine Messico-USA) per quelle ai danni dei bambini, strappati dai genitori e soprattutto dalle loro madri ancora e ancora, prima come figli della vita precedente e poi come figli della dittatura, quei bambini che centinaia di Ancelle mettono al mondo e che sono costrette ad abbandonare. La tortura cui viene sottoposta June in questo episodio non si conclude infatti con lo stupro, ma si perpetua con quella che pare essere “la ricompensa” di Fred e che invece si rivela un altro drammatico momento di separazione per la donna, forse uno dei più devastanti visti fino ad ora.

Ovviamente l’intento al momento della scrittura non poteva essere ispirato agli eventi di questi giorni, ma le separazioni tra genitori e figli soprattutto in casi di migrazione non sono certo una novità. Come dichiarato da Yahlin Chang, che ha scritto questo episodio, c’è stato un lungo lavoro con psicologi ed esperti delle Nazioni Unite prima di pensare all’incontro tra Hannah e June; ciò che ne è emerso è un concentrato di quelle che sono le reazioni dei bambini e dei genitori stessi durante il ricongiungimento o la separazione.

Come riporta Chang, i genitori separati dai figli tendono ad accumulare verso la fine migliaia di consigli, perché dopo lo shock arriva il momento della consapevolezza, quello in cui il genitore si ricorda del suo ruolo e cerca di concentrarlo in pochissimi minuti, lasciando il figlio con un sorriso e parole di conforto; ed è in effetti quello che vediamo da parte di June, che all’inizio è sconvolta dalla visione di sua figlia dopo così tanti anni e che solo alla fine le riserva quelle parole che vorrebbe la bambina ricordasse per tutta la vita. Il suo stesso inseguire la figlia in mezzo alla neve non è solo per l’ultimo abbraccio; ma perché l’ultima separazione non può essere, di nuovo, un uomo che la strappa dalle sue mani, come accade nella casa e come era già accaduto, anni prima, nel bosco. Deve essere un lento separarsi, con il tempo di decidere quando staccarsi dall’abbraccio (e in quest’ottica fa ancora più impressione la contemporaneità delle notizie di questo periodo) con serene parole di conforto (“So, what you’re gonna do, is you’re gonna take your Martha’s hand. You’re gonna get in the car. And you’re gonna go home”).

La reazione di Hannah, a cui è stato ovviamente cambiato il nome – perché tutte le donne devono essere “altro” a Gilead, anche le bambine – si articola come si diceva in diversi passaggi che, pur nel loro essere affrettati per tempistiche televisive, ripercorrono tutti gli step di un possibile riavvicinamento dopo tanti anni: la paura come prima reazione; il pensiero che torna al giorno della separazione, con quella domanda – “Did it hurt?” – che suona come un richiamo all’ultimo momento vissuto insieme; la rabbia e il dolore dell’abbandono; la gelosia per un nuovo bambino – e quell’agghiacciante consapevolezza che Hannah ha già sul destino del nascituro; infine il crollo, quello di una bambina che non vuole essere separata di nuovo da sua madre, e che risulta tanto più straziante quanto più Hannah capisce ciò che sta accadendo, di nuovo (e questo anche grazie alla performance della giovanissima Jordana Blake, che insieme ad Elisabeth Moss mette in scena uno dei momenti più intensi dell’intera serie).

Ciò che accade in seguito, il rapimento di Nick e l’abbandono di June da sola in quella casa, rappresenta forse l’unica nota stonata dell’episodio, che si conclude con un cliffhanger non necessario dopo una puntata simile – non solo perché già incredibilmente intensa, ma anche perché quello che dovrebbe essere un plot twist importantissimo diventa, a seguito di tutto quello che abbiamo visto, ridondante e svuotato del suo significato.

“Smart Power” e “The Last Ceremony” sono due episodi molto diversi tra loro, che hanno tuttavia in comune un elemento fondamentale: il sistema di Gilead sta perdendo colpi, da un punto di vista sia esterno, come mostra la nona puntata, che interno, con la totale follia dei Waterford, incapaci ormai di tenere il controllo di loro stessi e delle loro azioni. L’ultimo episodio, in particolare, è quello destinato a suscitare più reazioni da parte del pubblico a causa delle violenze messe in scena; eppure non è possibile considerarla sovraesposizione del dolore, non quando ciascuna scena ha il preciso compito di riportarci alla natura di base della dittatura nel momento in cui sta raggiungendo il suo più folle apice, per mostrarci che ciò che ritenevamo già mostruoso di per sé può essere distorto ancora e ancora quando ci si avvicina al baratro, e che paradossalmente questo non cambia di una virgola quello che le donne stanno continuando a subire a Gilead. Lo stupro ai danni di June ci appare istintivamente come il più crudele di tutti, perché è incinta ma soprattutto perché urla e si rifiuta; ed è nel momento in cui realizziamo questo subitaneo pensiero che ci rendiamo conto che non possiamo permetterci di giudicare uno stupro da questo, dalla reazione della donna, dalla contingenza del momento. È per questo, e solo per questo, che “The Last Ceremony” prevede un doppio stupro: non per exploitation, ma per farci riflettere in modo ancora più profondo sulla percezione delle violenze contro le donne; sugli atti di giudizio involontari che compiamo mentre vediamo una puntata del genere e, di conseguenza, sul nostro comportamento quando ascoltiamo notizie reali. Uno stupro è uno stupro, sempre; e continuano, in ogni momento e in ogni luogo, anche quando siamo impegnati a pensare ad altro.

Voto 2×09: 8
Voto 2×10: 8½
The Handmaid’s Tale – 2×11/12 Holly & Postpartum
Manca ormai una sola puntata per concludere il percorso di una seconda annata che, con pazienza e dedizione, sta scoprendo una ad una le debolezze di Gilead e di un sistema che sembra stia prendendo sempre più consapevolezza delle barbarie e della crudeltà perpetrate ai danni di numerosi innocenti. Si tratta di un accenno di presa di coscienza che non avviene soltanto nei riguardi della mera malvagità di alcuni atti divenuti ormai legge, ma che riguarda soprattutto la ricerca di un senso e di una motivazione che possano giustificare questi meccanismi.

Sta diventando ormai chiaro – anche a quelli che sono i più fervidi sostenitori del regime teocratico – che non c’è assolutamente nulla che possa giustificare tutto questo: il confronto con il passato e, soprattutto, con un presente in altri luoghi libero dalle “regole” di Gilead non può che mostrare in tutta la sua evidenza la tremenda insensatezza di quel mondo costruito sul terrore e sul dolore altrui. June, in questo delicato contesto, ha di fronte la terribile sfida di dover dare alla luce una figlia che verrà strappata ben presto dalle sue braccia e per cui sarà costretta a rivivere e a sopportare di nuovo il trauma della separazione già vissuto più volte con la piccola Hannah.

Abbiamo lasciato, con il cliffhanger finale in “The Last Ceremony”, la nostra June in una situazione a dir poco disperata: rimasta in una casa sconosciuta e priva di elettricità, la donna potrebbe partorire da un momento all’altro in completa solitudine. Sarà proprio questa solitudine a caricare “Holly” di un’intensità tale da imporlo come uno degli episodi più belli e significativi di questa seconda annata: la casa in disuso, circondata dalla neve e dal silenzio, è il palcoscenico ideale per mostrare una nuova trasformazione di June; il punto di arrivo di un percorso interiore che, dopo il tentativo mal riuscito di fuga a inizio stagione, sembrava essersi arrestato sotto il peso dei tremendi traumi vissuti dalla donna, il cui slancio vitale si era ormai arenato per lasciare il posto ad una sottomissione apatica ed umiliante, unita al temporaneo distacco dai suoi affetti.

Il distaccamento emotivo rispetto alle persone, alle situazioni e ai ricordi che ha caratterizzato la prima fase della gravidanza di June le ha permesso di erigere una sorta di muro difensivo contro ciò che Gilead avrebbe potuto farle proprio sfruttando quelli che, in questo contesto, sarebbero visti come i suoi “punti deboli”. Tuttavia, la forza della protagonista è riaffiorata proprio grazie alle emozioni e agli affetti che, nonostante tutto, hanno continuato a resistere anche in un luogo così crudele. Alla luce di ciò, la nottata passata nella casa vuota e sconosciuta assume il significato di una vera e propria riappropriazione di quelle emozioni e di quei ricordi troppo a lungo soffocati: un ricongiungersi, seppur temporaneo, con la parte più intima dell’individualità di June, in cui passato e presente riescono ad incontrarsi e a confondersi anche in presenza di situazioni così distanti l’una dall’altra da dare l’impressione che si tratti di due vite differenti. La splendida scena del parto, con la protagonista che ripercorre con la mente quello di Hannah avvenuto in passato, è una meravigliosa dimostrazione della resilienza di June, della sua capacità di dare alla luce, in tutti i sensi, un legame con il passato impossibile da cancellare (anche in un inferno come Gilead) rappresentato, in questo caso, dal ricordo della madre di June, Holly, che dona il nome alla puntata e alla nascitura.

Dopotutto, questo filo che riesce a legare June alla persona che era in passato sembra ormai reciso, invece, (com’è chiaro tanto in “Holly” quanto in “Postpartum”) in Serena e Fred: la bellissima scena che vede il loro arrivo irruento in casa alla ricerca dell’Ancella e lo scontro che ne consegue dimostrano in pochissimi minuti quanto la tremenda routine che i due impongono – ma a cui sono a loro volta sottoposti – sia fondata su un’ipocrisia così dilagante da non poter essere più ignorata come prima. E il fatto che, per la prima volta, Serena utilizzi senza timore la parola “stupro” dimostra quanto il castello di gesti, formule e cerimonie religiose costruito da Gilead per ritualizzare quelle che in realtà sono violenze inaccettabili stia soccombendo sotto il peso insostenibile della gravità di queste azioni.

Nonostante questo, però, Serena è ancora furiosa per aver rischiato di perdere di nuovo June e, con lei, la possibilità di diventare madre: sembra essere stata proprio la disperata voglia di avere un figlio a muovere, almeno inizialmente, il personaggio interpretato da Yvonne Strahovski verso questa strada; un desiderio, questo, che si è tradotto – con l’assuefazione prolungata ai sistemi di Gilead – in una delle forme più crudeli e sconsiderate di egoismo, contribuendo al nascere di quelle contraddizioni che costruiscono l’animo stesso di Serena, che oscilla in maniera sempre più forte fra la crudeltà e la tenerezza, fra l’empatia e l’indifferenza. Non stupisce, dunque, che June abbia preferito evitare il suo “soccorso” e restare nel pericolo e nella solitudine di un posto sconosciuto. Anche il momento in cui la ragazza rinuncia a sparare col fucile verso i suoi odiati vessatori segna una decisa presa di distanza dal loro modus operandi: June non può fare a meno di avvertire la disperazione di Serena, e forse è stato proprio questo piccolo slancio di empatia a farla desistere dal premere il grilletto.

Si tratta di una disperazione che in “Postpartum” è messa ancora più in luce tramite l’attaccamento dai tratti morbosi di Serena alla piccola Holly. L’impedire a June di avere ogni tipo di contatto con la bambina tradisce la profonda paura della donna di non poter stringere con Holly quel legame materno che, invece, June avverte. La scena, significativa e di forte impatto, in cui finge di allattare la neonata riversa sullo schermo tutte le paure e tutto il disagio emotivo di una donna che sembra non riuscire più a sentirsi a suo agio nel proprio ruolo, cercando così di distorcere la realtà per piegarla ai suoi desideri.

Tuttavia, il terribile destino di Eden – condannata a morire per il solo motivo di essersi innamorata di un altro uomo – sembra aver reso chiaro anche alla fredda Serena l’entità della follia di Gilead. Il “sacrificio” della giovanissima Eden potrebbe essere stato il colpo decisivo per scuotere la donna dalle proprie illusioni: la decisione finale in cui permette finalmente a June di allattare Holly è sicuramente una delle conseguenze delle considerazioni e delle emozioni sgorgate a seguito di quella terribile condanna a morte. Dopotutto, lasciare il segno attraverso la propria storia – positiva o negativa che sia – viene considerata, in entrambe le puntate, come l’azione più importante e significativa. La trasformazione del celebre pensiero di Cartesio: “penso, dunque sono” in “racconto, dunque sono” è un’immediata quanto efficace messa a fuoco dell’intento principale che sorregge l’intero The Handmaid’s Tale: la condivisione, l’ascolto e la considerazione di ogni vita, di ogni storia. Finché ci sarà qualcuno che ascolta le nostre storie e che crede alle nostre emozioni, nessuna vicenda, neanche la più triste e crudele, sarà insensata e insuperabile. Il raccontare e l’ascoltare, il fidarsi e il credere diventano allora i pilastri di ogni tipo di resistenza e un solido aiuto per risollevarsi da qualunque situazione.

E così, anche il ricordo di una vita breve e dal triste destino come quella di Eden è stata in grado di toccare e, forse, cambiare qualcosa nell’animo imperscrutabile e instabile di Serena, che pare ormai stanca della violenza e che quindi concede a June quello che, fino a pochissimo tempo prima, non avrebbe mai dato. Oltretutto, questa è un’ulteriore dimostrazione della capacità di The Handmaid’s Tale di non lasciare quasi nessuna scena violenta al caso o per il solo gusto di impressionare gli spettatori: ogni evento, anche il peggiore, si incastra perfettamente con l’evolversi dei personaggi della serie e, a poco a poco, scava nelle loro personalità, cambiandoli e tenendo le fila di una costruzione coerente e attenta.

Per concludere, “Holly” e “Postpartum” sono due episodi significativi e di grande intensità che preparano bene il campo all’ultima puntata, coronando la parte finale della stagione con la classe e bellezza che hanno da sempre contraddistinto The Handmaid’s Tale e che, ancora una volta, non cessano di brillare.

Voto 2×11: 8½
Voto 2×12: 8
The Handmaid’s Tale – 2×13 The Word
Nell’arco delle sue due stagioni, la serie tratta dal romanzo di Margaret Atwood ha ingigantito la sua fama, da primo show di successo del poco noto servizio streaming Hulu fino alla conquista di un Emmy per miglior serie drammatica lo scorso anno. Ad oggi, conclusa anche la seconda annata, si può ben dire che The Handmaid’s Tale non è solo una serie tecnicamente ottima, con una protagonista interessante e temi importanti, bensì uno dei prodotti più influenti e determinanti della stagione televisiva in corso.

È lo stesso creatore Bruce Miller – affiancato dal regista Mike Barker – l’autore di questo struggente “The Word” che fa calare il sipario sulla seconda stagione dello show, un’annata che, nelle intenzioni, doveva essere quella della conferma definitiva per The Handmaid’s Tale. Al termine della visione, si può affermare tranquillamente che le aspettative non sono state per niente deluse, seppur con qualche piccola riserva.

Riserve che sono – quasi – tutte destinate alla prima metà della stagione: fino al plot twist finale di “First Blood” la sensazione era che il potenziale narrativo della serie derivante dall’escalation finale dello scorso anno non fosse stato sfruttato a pieno. Tecnicamente la serie si è sempre mantenuta ottima, ma le idee e le soluzioni di trama cominciavano a scarseggiare, portando lentamente The Handmaid’s Tale ad una pericolosa ripetizione di temi e momenti già affrontati che rischiavano di impantanare lo show. La prima fuga di June – protagonista dei primi episodi – si esaurisce subito, fin troppo velocemente, e il ritorno alla routine di casa Waterford è un campanello di allarme che però, fortunatamente, gli autori avevano preventivato e messo in conto. Infatti, la scelta di non focalizzare interamente la storia sulla protagonista ma di esplorare anche la condizione in cui si trovano Emily e Janine – la vita delle unwomen nelle Colonie – riesce a tenere viva l’attenzione e a non far perdere di vista il focus dello show: non quello di raccontare semplicemente la storia della resistenza a un regime tirannico e oppressivo, ma soprattutto quello di creare un dialogo con la contemporaneità sul ruolo sociale della donna e sulla storica subordinazione del genere femminile a quello maschile, che nella serie viene portato alle estreme conseguenze.

Dall’attentato che chiude il sesto episodio, dunque, il ritmo aumenta considerevolmente e la varietà di situazioni di moltiplica: dalla conclusione della gravidanza di June – nello splendido “Holly” – alla figura tormentata di Eden, uno dei migliori nuovi personaggi della stagione, e al relativo percorso che la porterà alla morte. Un’accelerazione che si porta dietro la crescita della qualità di scrittura degli episodi e alcune scelte azzeccate; soprattutto il confronto di Gilead con la società canadese e la trasformazione radicale di Serena, che si eleva a protagonista assoluta di questa annata al fianco di June.

È proprio la moglie dell’odioso comandante Waterford a determinare la crisi più profonda in seno alla politica di Gilead. Serena è il personaggio di rottura di questa seconda stagione, la scheggia impazzita che prende coscienza del suo non-ruolo e che prova ad immaginare una realtà diversa, portando avanti la trama e sconvolgendo il punto di vista delle “mogli”, mai come ora così intraprendenti e desiderose di farsi ascoltare. La subordinazione nei confronti dei propri mariti e la loro accondiscendenza verso le scelte degli uomini raggiunge un limite di sopportazione massimo; ne è la dimostrazione l’appello che rivolgono ai comandanti seduti in riunione, un gesto politico significativo che non viene ben accolto da chi detiene il potere. Le preoccupazioni riguardo l’analfabetismo dei bambini, che Serena rivolge agli occhi infuriati del marito, non sono solo la preoccupazione nei confronti del futuro dei figli di Gilead, ma la ferrea volontà delle donne di uscire dalla loro condizione passiva e contribuire alle decisioni politiche e sociali del paese. È una delle tante piccole rivoluzioni che coinvolgono i personaggi nell’episodio, sicuramente la più significativa perché rende evidente l’insostenibilità della vita imposta dal regime e costituisce la presa di coscienza di coloro che erano le più fedeli sostenitrici dei valori su cui si basa il fondamentalismo religioso di Gilead.

La rivoluzione più difficile da portare a compimento è, tuttavia, quella personale: la voce off-screen di Elisabeth Moss ricorda, difatti, del lento processo di spersonalizzazione dell’individuo che il regime opera. Ancelle, mogli, figlie, nessuna sfugge all’epiteto che le è stato assegnato; non c’è spazio per la definizione della personalità, perché non è lecito che ne possa esistere alcuna. Esistono solo ruoli e compiti da svolgere in questo grande meccanismo sociale in linea teorica perfetto per garantire la sopravvivenza della razza umana – si ricordi che l’ambientazione è quella di una crisi della fertilità. Laddove però l’imposizione da parte dell’autorità diventa più importante e la crudeltà insostenibile, ecco emergere la forza reazionaria che da silenziosa – come era stata sinora nella maggior parte dei casi – in questo finale viene finalmente urlata a pieni polmoni. E così assistiamo al già citato intervento delle mogli nei confronti dei gerarchi di Gilead, al piano delle “Martha” per far fuggire June e Holly, ad Emily che pugnala improvvisamente Aunt Lydia e alla scelta inaspettatamente umana del comandante Lawrence, che si dimostra il primo teorico del regime ad avere dei ripensamenti.

È proprio il comportamento di quest’ultimo la grande rivelazione di “The Word” che porta alla discussa scena finale che coinvolge June. Grazie a lui Emily raggiunge l’agognata possibilità di espatriare e provare a ricongiungersi alla famiglia ormai dispersa; la protagonista, invece, si trova davanti ad una scelta molto più difficile e per la prima volta è indecisa sul fatto di lasciarsi indietro la vita di schiavitù che ha caratterizzato i suoi ultimi anni. Miller opta per una soluzione controversa, che non mancherà di suscitare polemiche e dissapori: June rinuncia ad unirsi ad Emily nella fuga ma garantisce a Holly di vivere la sua vita fuori dallo stato di Gilead. Perché l’ancella prende questa decisione? Vuole forse condurre una rivoluzione su vasta scala operando dall’interno? Considerato che è oramai una fuorilegge macchiata di un crimine gravissimo – rapire un neonato – sembra un’ipotesi quantomeno singolare, seppur interessante. O torna indietro per salvare anche Hannah? Da questo punto di vista avrebbe più senso, ma anche in questo scenario sorge qualche dubbio su come gli autori potrebbero gestire gli episodi futuri. Non è facile, quindi, immaginarsi come sarà architettata la terza stagione; è certo che questo cliffhanger è coraggioso e quasi imprevisto. Può rivelarsi una scelta di comodo, un modo per allungare il brodo e non privarsi della possibilità di continuare a raccontare l’universo distopico che ha così ben funzionato in questi due anni, oppure può rivelarsi un ottimo spunto per assistere al risveglio di una vera e propria rivoluzione – come già questi ultimi episodi hanno suggerito – nei confronti dell’ordine costituito dai comandanti di Gilead.

Anche in relazione alla fuga di June non si può non tornare a parlare di Serena, confermando il suo ruolo chiave – oltre alla splendida interpretazione di Yvonne Strahovski. L’ultima scena che la coinvolge è difatti la rappresentazione massima della crescita del personaggio: di fronte alla possibilità di impedire la fuga dell’ancella e riappropriarsi della bambina, decide in ultima istanza di lasciarla andare e di offrire la possibilità a Holly/Nichole di crescere in modo diverso. Una scelta figlia delle numerose vessazioni e umiliazioni – oltrechè punizioni e mutilazioni – perpetrate da Fred nei suoi confronti, ma più di tutto dalla consapevolezza di aver contribuito a costruire uno stato senza futuro e senza amore.

The Handmaid’s Tale chiude così la sua seconda annata con un buon finale che sceglie consapevolmente di concludersi in modo ambiguo, nell’ottica di alimentare ulteriormente l’hype per la terza stagione. La gravidanza di June, che è stato il filo rosso sul quale è stata edificata la trama stagionale, ha rappresentato un ottimo pretesto per riprendere le tematiche che già la prima annata aveva ben esplorato e vederle sotto un altro aspetto, inciampando tuttavia più di una volta nella trappola della ripetizione. Una stagione a due facce e a due velocità, che si mantiene su ottimi livelli ma che non riesce a eguagliare la prima, che però, è giusto dirlo, aveva dalla sua l’effetto della novità inaspettata.

Voto episodio: 8
Voto stagione: 7/8
The Handmaid’s Tale – Stagione 3 Episodi 1-3
Dopo un finale che aveva chiuso una seconda stagione calante rispetto a quella di esordio, ritorna The Handmaid’s Tale con tre episodi che – riprendendo esattamente da dove eravamo rimasti – cercano di restituire delle coordinate ad un racconto che, esaurita la sua carica iniziale e l’ispirazione del libro di Margaret Atwood, ha faticato a trovare un obiettivo che fosse se non altro abbastanza potente da dare una ragione al prosieguo della storia.

La scelta che nello scorso season finale aveva visto June lasciare Nichole nelle mani di Emily e rifiutare una fuga da Gilead aveva fatto legittimamente storcere il naso a più di una persona, soprattutto perché la – seppur comprensibilissima – necessità di salvare la sua prima figlia si scontrava col fatto che non ci fosse dietro di lei alcuna rete di supporto, alcun alleato da cui tornare. Si è trattato di una decisione che ha visto nella narrazione la sua esigenza più forte (tenere June a Gilead per mantenere qui il centro del racconto) ma che ha costretto il personaggio ad una decisione davvero troppo impulsiva, soprattutto visto che non era la prima volta che provava a scappare. Ed è per questo che, con la nuova stagione, vediamo subito Lawrence tornare indietro: perché introdurre un deus ex machina che intervenisse per togliere June da una strada letteralmente senza uscita (i controlli sono ovunque) era l’unico modo per non rendere la sua scelta una mossa suicida. La questione dell’occasione perduta torna quindi a ripetersi a partire dalle prime scene: di nuovo, The Handmaid’s Tale ci pone davanti alla speranza – June che va a casa dei McKenzie per prendere sua figlia – solo per togliercela (ormai in modo prevedibile) dopo pochissimi minuti.

Già da queste prime sequenze quello che comincia a delinearsi è sfortunatamente uno schema ormai già visto, che alterna i momenti di speranza a quelli di fallimento, quelli dell’agognata fuga a quelli in cui la realtà torna a fare capolino per ricordarci che da Gilead non si esce se non in rarissimi casi – e quante volte ancora potrà essere raccontato lo stesso concetto senza che questo perda di sostanza? L’intervento di Lawrence, nella sola premiere, arriva per ben due volte per scopi interamente legati alla trama: nel primo caso, come si diceva, per togliere June dal blocco a cui la sua decisione di rimanere l’avrebbe costretta; la seconda nel diventare il suo Commander, una scelta ampiamente prevedibile dal momento che la dinamica tra June e i Waterford non poteva più dare altro, soprattutto ora che la frattura tra Fred e Serena Joy appare ormai insanabile.

La scelta di Fred di non punire in alcun modo le due donne potrebbe apparire ancora completamente fuori contesto (come tutte le volte in cui ha salvato June), a meno che non la si voglia interpretare come una necessità (ormai potremmo dire esistenziale) di Fred di negare il più possibile tutto ciò che esce dal suo schema “Gilead-casa-famiglia”: è questo ciò che sembra emergere dal suo dialogo con Serena, in cui la confessione della moglie di aver dato via la bambina viene riletta come un errore dello stesso Fred, che avrebbe portato la moglie alla disperazione con il suo comportamento e le sue punizioni. Se c’è un fattore effettivamente interessante nella dinamica tra i due è proprio la differenza tra chi è ancora immerso nella filosofia di Gilead e chi invece ha – dopo aver a lungo rifiutato – sollevato il velo e visto il disastro che questo nascondeva. Non è difficile vedere come Serena sarà una parte fondamentale della resistenza da qui in poi, ma forse il semplice fatto di poterlo prevedere è già di per sé un elemento che non gioca a favore della serie. La fine della coppia Waterford, almeno per come la si è intesa fino ad ora, si trova simbolicamente nella messa a fuoco della casa e in particolare del letto, una scena che se sulla carta poteva funzionare, nella pratica patisce di alcuni dettagli semplicemente irrealistici (Serena che rimane minuti interi in una stanza che sta andando a fuoco a pochi centimetri dal letto in fiamme) o assoggettati ad una regia che vede in un certo modo di raccontare (ad esempio il rallentamento con cui June osserva il fumo prima di cercare, con calma, di capirne l’origine) uno sguardo di alto prestigio e che invece risulta semplicemente fuori posto e non necessaria.

Funzionano invece i momenti di confronto “fra madri”, sia quello tra June e la signora McKenzie in “Night”, sia quello tra June e Serena in “Useful”: complici i sentimenti ambivalenti di queste “madri adottive”, le donne riescono a trovare un terreno comune che fa riemergere un minimo di umanità, quell’umanità che è stata sopita in nome degli ideali di Gilead. Se nel primo caso si tratterà comunque solo di un lieve spiraglio, è nella conversazione tra June e Serena che avviene qualcosa di più. Sentirsi dire che “solo una madre avrebbe fatto” ciò che ha fatto lei, salvando la bambina da Gilead, porta la donna a sentirsi più compresa e, per estensione, a comprendere cosa tutte le altre madri patiscono nel momento in cui i bambini vengono portati via da loro. Serena è in grado di comprenderlo anche perché è completamente sola: la madre, da cui si è rifugiata, è complice del sistema di Gilead e non ha alcun riguardo nei confronti del dolore della figlia; e Fred non è certo qualcuno da cui la donna voglia tornare – anche se non possiamo escluderne un riavvicinamento con il secondo fine della resistenza. Di nuovo, assistiamo ad una scena che sicuramente da sola può funzionare – complice le sempre ottime interpretazioni di Moss e Strahovski – ma che sembra già nascondere tra le righe gli obiettivi per i quali è stata scritta.

È proprio di resistenza che si parla soprattutto nel secondo episodio, in cui June si ritrova (come si diceva, opportunamente scelta da Lawrence) nel mezzo della rete delle Marthas e comincia a comprenderne il funzionamento – nonché i sacrifici che questo comporta. Lo capirà concretamente alla fine, quando la scelta delle cinque donne da salvare verrà prima rifiutata e poi accettata in nome di un ideale più alto – salvare le donne che possano aiutare la resistenza, pagando personalmente il pesantissimo prezzo che comporta una scelta di questo tipo. Al di là tuttavia di questi risvolti, la dinamica del secondo episodio (con il fallimento della fuga di Alison) non è altro che l’ennesima riproposizione, in modi diversi, di quanto abbiamo già avuto modo di vedere soprattutto nella scorsa stagione: una speranza che viene distrutta giusto poco prima di vederla concretizzarsi. Cambiano alcune caratteristiche, ma il nodo del racconto sembra essere comunque sempre lo stesso, preannunciato e chiuso come sempre dai monologhi di June che si accordano al tema della puntata. A rappresentare una novità c’è di sicuro l’ambiguità di Lawrence, un uomo la cui buona azione di salvare Emily aveva fatto supporre una sorta di pentimento nella sua visione di Gilead e che invece si mostra, in queste puntate, molto più stratificata: è proprio perché crede fermamente nella necessità di un “nuovo mondo” che è in grado di accettare determinate eccezioni (la fuga di donne molto intelligenti, come Emily appunto) o di sopportare un minimo livello di insurrezione. Per il resto, il suo rapporto con June si delinea già come quello tra un gatto e un topo, in cui – a differenza che con Fred – non ci sono inganni e tutto è allo scoperto (tutto tranne il ruolo della moglie di Lawrence: perché è in quelle condizioni, e quanto è davvero malata e quanto invece complice?).

In ultimo troviamo la fuga di Emily e il suo arrivo in Canada con Nichole. Se lo straniamento con cui osserva la realtà che la circonda ricorda molto da vicino quello che visse Moira al suo arrivo, è l’attesa tra il suo arrivo e la chiamata alla moglie l’elemento davvero nuovo, che aggiunge nuovi strati alla narrazione – aiutati anche dalle spiegazioni di Moira – di quanto sia difficile rientrare in contatto con i propri cari dopo aver vissuto delle vere e proprie torture, che hanno lasciato segni sia sul corpo che nella mente. È difficile riabituarsi ad una vita in cui si viene visti, trattati e riconosciuti come esseri umani, degni di visite mediche approfondite e di suggerimenti terapeutici: la scena della visita oculistica spicca tra le altre grazie ad una scrittura stratificata, in cui una cosa così scontata come leggere delle lettere su uno schermo diventa il simbolo di ciò che Emily non ha potuto fare per molto tempo – leggere, appunto – e che le fa capire quanto non ci sia altro tempo da perdere. Grazie all’altissima performance di Alexis Bledel, la seconda puntata si chiude con una nota decisamente più positiva del resto dell’episodio: la telefonata alla moglie, in una scena quasi completamente senza parole, rimane tra le poche memorabili parti di queste tre puntate.

Ci sono sicuramente dei momenti che possono far sperare, ma fino ad ora questi tre episodi della nuova stagione di The Handmaid’s Tale tendono a riprodurre schemi già osservati nelle scorse annate: qualche accenno a quello che sarà il tema della stagione – ovviamente la resistenza – apre il campo a delle possibilità narrative nuove, ma a meno di qualche importante scossone nella trama sembra che la serie sia ormai bloccata nel suo stesso modus narrandi, che ne ha fatto la fortuna durante la prima stagione ma che ormai, giunti alla terza, mostra la corda anche quando le interpretazioni sono di altissimo livello. Tempo per migliorare ce n’è, ma da ben tre episodi ci si poteva aspettare molto di più.

Voto 3×01 “Night”: 6-
Voto 3×02 “Mary and Martha”: 6+
Voto 3×03 “Useful”: 7
The Handmaid’s Tale – Stagione 4
Uno e trino è il Signore, direbbero a Gilead. Una e trina è questa quarta stagione di The Handmaid’s Tale, diremmo noi. Già, perché la narrazione mai come quest’anno è stata suddivisa in maniera così decisa, con tre parti ben distinguibili tra loro che hanno un po’ mescolato le “solite” carte di questa serie, con un filo che più rosso di così non si può: quello della vendetta.

La prima ipotetica parte in cui sono suddivise queste nuove dieci puntate – e diciamo fin da subito che il ritorno alle origini di lunghezza stagionale non può che avere giovato al prodotto – possiamo definirla quella della quiete prima della tempesta, ovvero un nascondiglio sicuro dove leccarsi le ferite prima e decidere come contrattaccare poi.
La scelta di inserire nel racconto una giovanissima moglie di un decrepito Comandante è già una delle decisioni azzeccate di questa nuova stagione: non solo ovviamente per il contrasto che ancora una volta sottolinea quanta ipocrisia stia dietro al credo di Gilead, ma soprattutto perché comincia la trasformazione in dea assetata di sangue di June Osborne. Avere come specchio una così giovane donna che fiammeggia dagli occhi la sua voglia di vendetta fa scattare dentro qualcosa dentro June, che forse si era sopito sotto una coltre di stanchezza e di senso di sconfitta che si stavano depositando sull’animo di una delle Ancelle più combattive di tutte. Il vedere questo sacro fuoco, la rabbia con cui la ragazzina deve convivere e la sete di vendetta che la animano rimette in moto June e fa da miccia al tema principale di questa annata: fin dove è giusto spingersi nel cercare conforto in una vendetta violenta e dove diventa violenza fine a se stessa?

La seconda parte del racconto è sicuramente quella più action, più avvincente, ed è quella che potremmo definire della Resistenza: Chicago come orizzonte da raggiungere, un confine verso la libertà, in uno scenario post-apocalittico che ha sicuramente intrigato gli spettatori.
In questa parte viene cementato il rapporto che c’è tra June e Janine, un rapporto quasi tra sorelle dove la prima tenta in tutti i modi di proteggere l’altra ma nello stesso tempo non riesce a farne a meno, perché Janine rappresenta ancora quel lato quasi bambinesco e spensierato che inevitabilmente si perde nell’età adulta, figurarsi in un contesto del genere. Janine è l’altro modo di affrontare una tragedia: può sembrare un po’ stupida, ma la ragazza non lo è affatto; quello che le riesce è estraniarsi il più possibile dal contesto, vedere in ogni cosa che le succede un lato che quasi tutti gli altri non vedono. È per questo che Janine completa in modo evidente June, ed è per questo che la sequenza del bombardamento su Chicago e la successiva divisione delle due spalanca la porta dell’essere vendicatore che è dentro June, tenuto sopito fin troppo, quasi come se la sola presenza di Janine – e l’importanza di preservarle la vita – tenesse a guinzaglio questo mostro che ora, dopo il salvataggio e la traversata salvifica del Lago Michigan, è libero di fare ciò che ritiene più opportuno. E che soprattutto sente benissimo l’odore del sangue.

La terza e ultima parte ha il vero e proprio sapore dell’epilogo di queste prime quattro stagioni, perché chiude un capitolo gigante della storia e lo fa in modo coerente con quanto è stato fatto vedere in questa annata.
Tutta la parte che si svolge in Canada è infatti la chiusura del cerchio aperta con il pilot, un destino per le parti in causa che fino a qualche puntata fa sembrava non potesse mai verificarsi: i Waterford sul banco degli imputati e June come testimone d’accusa. Gli autori sono stati bravi a rendere la protagonista via via sempre più arrabbiata, sempre più vendicativa – importante in questo senso la sequenza nella fattoria ad inizio stagione, quando viene giustiziato uno dei soldati di Gilead dalla furia cieca di un gruppo di donne – per farla arrivare qui al punto di rottura, ad un punto di non ritorno che lei sembra bramare e che quelli che stanno attorno a lei non capiscono, perché non hanno vissuto in prima persona tutto quello che abbiamo visto.
Il gruppo delle sopravvissute e l’inserimento del pentimento di una Zia sono il prologo di quanto vedremo nel finale, soprattutto la reazione di Emily alla notizia del suicidio della pentita: quel suo “sto benissimo” accompagnato da un sorriso soddisfatto è il perfetto ribaltamento dei personaggi – soprattutto quelli femminili – a cui ci siamo affezionati.
È questo forse il vero lascito della stagione, una questione morale già ampiamente dibattuta in altri show ma che qui rende ancora meglio per la crudezza con cui molte sequenze sono state messe in scena, specie quelle delle violenze sia fisiche che psicologiche sulle donne: fino a dove ci si può spingere nella vendetta? È sempre giustificata la violenza in risposta alla violenza?
L’immagine fugace di Waterford impiccato nel bosco è sicuramente lo screen più bello e pregno di significato dell’intera stagione, insieme alla sequenza in cui June abbraccia sua figlia ancora sporca di sangue: è questa la vera essenza di The Handmaid’s Tale; la crudezza con cui affronta determinate scene è la cifra stilistica perfetta di questa serie, che ogni tanto si era persa, mentre è tornata prepotente in questa quarta stagione che, come detto, chiude un capitolo gigantesco della storia per aprirne uno totalmente nuovo e imprevedibile.

La stagione è anche da segnalare per le doti da regista di Elizabeth Moss, che specie negli episodi con più violenza fisica e psicologica si dimostra assolutamente in grado di tenere testa a registi più esperti; una bella sorpresa che potrebbe portarla a un nuovo capitolo della sua già brillante carriera.
Tutto sommato sono state poche anche le sequenze in cui June e le sue compagne di viaggio andavano incontro a una fortuna sfacciata: la serie è stata spesso criticata in passato per questi particolari che inficiavano un po’ la bontà del racconto. Per fortuna in questa annata di situazioni del genere se ne possono contare poche, rendendo il tutto più fluido e soprattutto credibile.
The Handmaid’s Tale è quindi tornata sugli ottimi livelli della prima stagione, giocando ancora di più sulla tensione e sul dispiegamento in alcuni casi sorprendente degli eventi: per questo la quinta stagione, vista fino a qualche mese fa come di troppo, potrebbe essere l’inizio di un nuovo modo di raccontare questa storia.

Voto: 7+
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