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Westworld – 1×01 The Original
Presentata in anteprima da SKY Atlantic in occasione del Roma Web Fest 2016, arriva finalmente la tanto attesa serie Westworld con cui la HBO spera di trovare un’altra gallina dalle uova d’oro, com’è stata e sarà ancora per poco Game of Thrones.

Le vicende produttive di questa serie sono state molto complesse: lo show è stato infatti più volte sul punto di incappare in problemi irrisolvibili, con vari rinvii ed interruzioni su cui non si è mai fatta luce a sufficienza; qualcosa nella stanza dei bottoni non è sembrato funzionare ed i timori che questi problemi potessero inevitabilmente riversarsi anche sul prodotto seriale in lavorazione erano leciti. A giudicare da questo pilot, però (e la critica americana che ha potuto seguire le prime quattro puntate sembra confermare), possiamo candidamente ammettere che nessuna di quelle tensioni pare scivolare sullo schermo e Westworld si dimostra senza dubbio alcuno la serie drama con il maggior potenziale di questa seconda parte di 2016.

Della trama se ne può parlare davvero poco senza incorrere negli ovvi rischi dovuti agli spoiler (forse anche maggiori data l’importanza rivestita dai twist narrativi, come ogni buona serie prodotta da J.J. Abrams); ciò che si può dire anche sulla base delle sinossi rese pubbliche dalla HBO è che si racconta di un parco giochi in cui gli esseri umani interagiscono con degli androidi in una fittizia cittadina all’epoca del Far West. Siamo in un mondo in cui, dopo aver pagato il biglietto d’ingresso, tutto è letteralmente lecito perché i robot (indistinguibili dagli esseri umani, almeno sotto il profilo estetico) non agiscono mai contro di loro. Da questo punto di partenza, è inutile dirlo, qualcosa inizierà a cambiare.

Stiamo parlando di una serie che muove i passi da Il mondo dei Robot, o in originale, appunto, Westworld, film del 1973 che vedeva alla regia e alla scrittura quel Michael Crichton che è entrato nell’immaginario collettivo per aver creato Jurassic Park (portato poi sul grande schermo da quel genio registico che è Spielberg, nel 1993). In effetti basta seguire già la prima mezz’ora per capire quanto in realtà i rapporti tra i due prodotti siano molto più stretti di quanto ipotizzabile: entrambi vedono la costruzione di un grosso esperimento antropologico per mano di un geniale demiurgo che gioca a fare Dio, così tanto innamorato delle proprie creature da perderne il controllo. Che Crichton fosse affascinato, dunque, dalle dinamiche del dominio e della ribellione è storia nota ed evidente, ma qui si inserisce con particolare abilità il personalissimo tocco – stavolta anche in cabina di regia – di Jonathan Nolan, sceneggiatore di buona parte dei film del fratello Christopher nonché padre di quell’indiscusso gioiellino che è stato Person of Interest.

Se nei temi, infatti, la presenza del film originale è ben più riconoscibile di quanto possa dirsi a riguardo della trama, è nei significati più profondi che si sente l’inserimento a gamba tesa di alcune delle espressioni più care a Nolan: ecco dunque il tema del sogno, del futuro distopico, dei rischi della tecnologia ma soprattutto della memoria come elemento fondamentale nella costruzione dell’umanità. Nolan sembra voler porre l’accento con particolare enfasi alla domanda “che cosa saremmo senza i ricordi?”, suggerendo una risposta estremamente interlocutoria, come ad indicare l’impossibilità di esistere senza memoria. Gli androidi non hanno ricordi del passato e per questa ragione non possono usufruire del lusso dell’esperienza umana, costretti ad un eterno giorno della marmotta. Questo argomento ritornerà più volte nel corso del pilot ed è chiaro che diverrà uno dei temi principali di una narrazione che non si trattiene e che mette in campo più direttrici e più percorsi differenti.

Il timore principale che si sviluppa, infatti, durante la visione di questo pilot è la possibile incapacità (o impossibilità) di gestire un numero così elevato di personaggi (ripensiamo alle difficoltà dell’episodio pilota di Game of Thrones); ebbene, c’è poco da temere almeno per il momento perché la scrittura di Jonathan Nolan e Lisa Joy è incredibilmente sicura ed abile nel descrivere con pienezza d’immagine i differenti personaggi, dando a ciascuno di loro almeno una sommaria descrizione che ci permetta di conoscerlo il minimo indispensabile per cominciare ad interessarcene. È chiaro che vi siano personaggi di primo rilievo ed altri che avranno bisogno di più tempo per riuscire a svilupparsi fuori dalla prima bozza, ma per ora non possiamo che sottolineare con un’ulteriore soddisfazione quanto il lavoro di sceneggiatura si sia rivelato efficace in questo ambito. Meno lineare, invece, è la trama, che presenta un altissimo numero di spunti non sempre gestiti con polso di ferro; vi è ad esempio una trama potenzialmente esplosiva su cui però non si riesce a comprendere pressoché nulla e che vive un po’ in un mondo del tutto separato (pur non mancando comunque di grande attrattiva).

Sul resto del comparto tecnico non possiamo che sottolineare che l’esperienza di Jonathan Nolan alla regia, pur non presentando guizzi straordinari, ha un paio di momenti estremamente efficaci; ma quel che colpisce più di ogni altra cosa è la raffinatezza della ricostruzione scenografica degli interni – alcuni dettagli preziosissimi non mancheranno di stupire – ma soprattutto degli ambienti aperti, con una vividezza di colori ed una CGI tutt’altro che ingombrante (talvolta invisibile). Sarà difficile, insomma, non sentirsi sin da subito catapultati in questo fantastico mondo fittizio che di fittizio pare avere ben poco.

Una menzione speciale va rivolta anche alle musiche di Ramin Djawadi, compositore di Person of Interest e Game of Thrones, che ha dimostrato nel corso degli anni di meritare un posto nell’olimpo televisivo per le sue composizioni di altissimo livello; anche se in questo episodio non ha particolare spazio per brillare, lo spettatore avrà modo di apprezzare alcuni passaggi indubbiamente impreziositi dalle sue sperimentazioni molto riuscite. Si segnalano nel cast, oltre al grande Anthony Hopkins, una Evan Rachel Wood particolarmente in forma (ma l’intero ensemble non sfigura di certo).

Insomma, di questo pilot non se ne può che parlare generalmente molto bene. Anche se è evidente che si sia ancora alle battute iniziali di un percorso tutt’altro che semplice, gli autori sono riusciti a gettare le basi per un’esperienza che ha tutte le potenzialità per esplodere al meglio. Il loro compito sarà quello di miscelare con sapienza il grande numero di storie principali e secondarie senza perderne il controllo e senza scadere nel prevedibile o nel non necessario; compito tutt’altro che facile anche per chi, come Jonathan Nolan, ha saputo regalare in passato grandissimi momenti.

Voto: 8
Westworld – 1×02 Chestnut
Dopo un pilot introduttivo che era quasi un “manuale di istruzioni”, il secondo episodio di Westworld, come prevedibile, ci getta con molta più forza nel pieno della trama. Una volta spiegate le regole di questo mondo, siamo tutti invitati ad immergerci in un racconto che è metafora della modernità e al tempo stesso gioco di ruolo metatestuale dai moltissimi livelli di lettura.

“By the end, you’re gonna be begging me to stay because this place is the answer to that question that you’ve been asking yourself” “What question?” “Who you really are”

Westworld è affascinante, magniloquente, estremamente complessa, tanto da avere appunto bisogno di quella introduzione ai meccanismi che la regolano che è stato il primo episodio, rispetto al quale “Chestnut” chiarisce alcuni punti (scopriamo come si arriva a Westworld da visitatori, ci viene detto di più sull’uomo in nero interpretato da Ed Harris e sul labirinto di cui va alla ricerca, viene approfondito il personaggio del Dr. Ford), a fronte però di tantissime altre vicende che vengono sviluppate, ampliate, addirittura complicate o introdotte ex novo.
Sarebbe quindi inutile e noioso metterci a raccontare tutto di questa seconda puntata, soprattutto perché, siccome la serie funziona esattamente alla stessa maniera del parco, ognuna di queste storie si intreccia alle altre rendendo impossibile individuare dove inizia l’una e finisce l’altra. Esattamente come un Multiplayer Role-Playing Game, in cui migliaia di giocatori interagiscono tra loro in un mondo fittizio, tramite personaggi che si evolvono insieme al mondo che li circonda, Westworld lavora su più livelli di testo, che introducono a loro volta vari archetipi, situazioni, tematiche.

These violent delights have violent ends

A un primo livello di lettura troviamo la trama principale, un intreccio derivativo un po’ Blade Runner, un po’ Frankenstein, un po’ tante altre cose che potremmo impiegare giorni interi a citare, che mescola elementi sci-fi e tocchi thriller: le macchine iniziano a ribellarsi alla configurazione imposta dai propri creatori, con modalità e conseguenze diverse ma sempre legate a un update di coscienza che forse è così raffinato da diventare ingestibile.
Le domande filosofiche che questa trama si porta dietro (fino a che punto gli androidi sono “reali”? Cosa si può definire coscienza? Dove finisce il confine tra gli istinti indotti dalla programmazione o dalla società in cui si vive, e inizia il libero arbitrio?) sono quelle classiche della fantascienza che ancora dopo decenni non smettono di affascinarci. Gli androidi che sognano pecore elettriche di Dick qui si fondono con i dinosauri di Jurassic Park, creature affascinanti proprio per il loro margine di improvvisazione, per la loro “naturalezza” che simula la realtà e che regala il brivido della verosimiglianza senza l’imprevedibilità del reale.

You find yourself in a bad dream, close your eyes, count backwards from three…wake yourself right up. Nice and warm and safe in your bed, where you can get f*cked right back to sleep by one of these assholes with their miniature peckers.

È a questo livello di lettura che sulla trama principale e le sue domande esistenziali si inserisce un forte messaggio di critica sociale, che ci induce a “leggere” il parco come la metafora di un sistema di classi che diventano caste, in cui gli esterni sono ricchi e gli androidi sono i paria, mentre i creatori stanno nel mezzo, lavorando per i primi e sfruttando gli altri.
Non manca neppure la tematica del sessismo strisciante, denunciato dall’atteggiamento verso gli androidi femmina che le porta ad essere oggetto sessuale sia dei visitatori che di coloro che dovrebbero prendersene cura e anche ad essere dismesse non appena sono troppo “vecchie” (seppure siano progettate per essere eternamente identiche); ma soprattutto spicca l’insistito maneggiamento dei corpi di ambo i sessi – sventrati, spogliati, feriti, ammucchiati ovunque – che non può non farci pensare all’oggettivazione dei corpi della società moderna. Il grande magazzino sotterraneo, neppure più refrigerato, in cui vengono lasciati a un’eterna morte gli esemplari dismessi, che si decompongono lentamente lontani degli occhi di tutti, ricorda inevitabilmente il trattamento che la nostra società riserva ai matti, agli anziani, ai malati; specie nella società americana, in cui la malattia è quasi una colpa e chi invecchia male viene colpevolizzato per non aver badato abbastanza al proprio corpo, quello di Westworld è un discorso doveroso e attuale, che rende questo mondo fittizio ancor più simile alla nostra contemporaneità.

“Are you real?” “Well, if you can’t tell, does it matter?”

Una contemporaneità senza coscienza, si potrebbe dire, perché lo scopo principale del parco pare essere quello di liberare gli istinti degli ospiti facendoli vivere in una realtà in cui non esiste il rispetto e non ci sono limiti di legge e morale; un mondo in cui i nativi americani sono ancora i pellerossa, le prostitute sono una merce ed è consentito rubare, violentare, uccidere senza rimorso né punizione. In questo suo secondo livello di lettura, la serie pone un’interrogativo ancora più inquietante: è quando sono lasciati liberi di essere sé stessi, senza regole imposte dalla società, che gli esseri umani manifestano la loro vera natura? A Westworld le persone vanno per scoprire chi sono realmente e più che esplorare il luogo setacciano i loro istinti primordiali, quelli che nel mondo reale vengono repressi e inscatolati in regole e divieti.
All’interno del parco non esiste vero pericolo, vero coraggio o vera generosità, perché la natura artificiale degli androidi li rende simili a bambole gonfiabili, perlomeno nella percezione dei guest: l’assenza di vera umanità, di quella “scintilla di vita” che almeno in teoria rende gli esseri umani superiori a tutti gli altri esseri della terra, creati ma creatori a propria volta, fa sì che gli host siano poco più che oggetti di scena nella rappresentazione dell’ego di chi sta vivendo l’avventura.
Una distopia che ricorda i temi e le inquietanti atmosfere di Black Mirror (o meglio, una sua versione semplificata e appetibile per il grande pubblico) nel porre alla nostra attenzione i lati rischiosi delle possibilità offerte dalla tecnologia, la possibilità che questa possa non solo cambiare le nostre abitudini, ma anche il nostro modo di sentire e di interagire con il mondo che ci circonda in modo sostanziale e irreparabile.

No orientation, no guidebook. Figuring out how it works is half the fun. All you do is make choices… starting here.

Come in un librogame, completamente giocato in prima persona ad uso e consumo esclusivo del protagonista, il gioco si modifica in base alle azioni del giocatore, usandone le interazioni per migliorare continuamente le storyline e gli intrecci. Vi ricorda qualcosa, ad esempio la vostra timeline di Facebook?
Sotto a Westworld infatti, a un ultimo livello di lettura, ci sono i big data: gli algoritmi che ormai governano la nostra vita online e offline, che grazie alla possibilità di unire dati non strutturati e strutturati fanno emergere quello che è sostanzialmente uno specchio in numeri dei nostri desideri, delle nostre paure e dei nostri sogni.
Per questo il parco è capace di farci conoscere meglio noi stessi, perché attraverso le nostre azioni e le nostre parole rendiamo palese ciò che nascondiamo anche alla nostra stessa mente e ci sorprende con una versione del nostro Io più completa, allo stesso tempo raffinata e complessa ma anche immediata, ridotta ai minimi termini matematici che, freddamente, appaiono ai nostri occhi senza sottotesti né razionalizzazioni.
Allo stesso in modo in cui l’algoritmo di Facebook si modifica in base a ciò che clicchiamo, commentiamo e condividiamo durante la giornata, gli androidi di Westworld evolvono continuamente in base ai dati che raccolgono, immagazzinando informazioni ed esperienze in una sorta di coscienza collettiva super-umana che ne governa le interazioni anche quando gli esseri umani non sono presenti.
È il perfetto archetipo dell’intelligenza artificiale che tanto ci affascina e ci terrorizza, perché così improntata all’autoevoluzione da far pensare a scenari possibili futuri in cui l’uomo e il suo libero arbitrio saranno solo un accessorio superfluo.

Everything in this world is magic, except to the magician

Cosa significa questo per l’economia di una serie al secondo episodio? Soprattutto, che questo tipo di narrazione apre la strada a sviluppi praticamente infiniti: la natura di Westworld è la stessa del gioco di cui parla, una quantità enorme di possibili storyline, la possibilità di aggiungere personaggi e plot paralleli praticamente senza limiti.
Questo è un punto cruciale per il futuro della serie e ne è sicuramente il maggior punto di forza, perché Westworld ha di fronte una quantità di materiale inesauribile che se saprà sfruttare al meglio potrebbe dare origine a una iper-serialità che non risente di tutte le debolezze tipiche della televisione contemporanea.
Nel momento in cui un personaggio o una linea narrativa saranno deboli o si esauriranno, basterà inserirne un altro, e poi un altro ancora, ripartendo di nuovo dal via (ovvero, dalla cittadina di Sweetwater) per raccontare una nuova storia. Potenzialmente, una vera rivoluzione e una gallina dalle uova d’oro per HBO come non se ne vedevano da tempo.

Voto: 8
Westworld – 1×03 The Stray
Dopo tre episodi Westworld è già una delle serie dell’anno, la cosa da vedere no matter what. La serie guidata da Jonathan Nolan sta diventando a grandi falcate un fenomeno planetario, forte di un racconto leggibile a tanti livelli e di un concept che puntata dopo puntata sta dimostrando le sue tante potenzialità.

Dopo un episodio d’esordio introduttivo – volto a porre le fondamenta narrative ed estetiche della serie e soprattutto a creare un ponte con lo spettatore tentando di incuriosirlo il più possibile – e un secondo più legato all’approfondimento di personaggi e di questioni cruciali necessariamente solo abbozzate nel pilot, il terzo tassello stagionale si presenta come la prima pietra angolare del racconto, designato ad approfondire le relazioni tra i personaggi, a intavolare il discorso su alcuni grandi temi come la memoria e il dolore e infine a declinarli in ciascuna delle storyline principali.
Ad ogni livello della complicata matrioska della HBO il ruolo della memoria, in tutte le sue forme, si fa oggi sempre più decisivo, planando dalla mente dell’ideatore fino all’abilità degli sceneggiatori, un concetto che se interrogato dalle differenti angolazioni degli host e dei guest mostra le sue molteplici facce. Lo stesso titolo dell’episodio non si riferisce solo al robot disperso nel parco, ma funge anche da metafora della volatilità della memoria e dello spaesamento esistenziale di molti dei personaggi della serie.

This pain… it’s all I have left of him.

Dietro le quinte del parco e all’interno delle maglie meno superficiali del racconto risiedono Robert e Bernard, personaggi i cui sviluppi influenzano quelli di principali host della serie, in particolare Dolores. Il loro rapporto è molto profondo e la serie lascia intuire che oltre alla relazione di carattere professionale potrebbe esserci qualcosa di più, soprattutto a giudicare da come Robert tratta Bernard (quasi come un figlio), utilizzando bastone e carota qualora necessario.
Il principale oggetto del contendere riguarda la rivelazione legata ad Arnold (co-fondatore del parco) e alle circostanze misteriose della sua sparizione. Gli autori non nascondono le divergenze tra Robert e Arnold, avvolgendo così di ombre oscure il ruolo dell’attuale capo del parco nei confronti della scomparsa del suo ex socio, il quale a suo dire era diventato ossessionato nei confronti dei robot sui quali stava sviluppando algoritmi in grado di riprodurre in loro una coscienza senziente. La curiosità di Bernard è smorzata dall’impeto con cui Robert gli impone la sua visione, un ammonimento che suona come una minaccia alla luce della misteriosa fine di Arnold.
Per la prima volta in Westworld compare forte e chiara la poetica di Jonathan Nolan, in particolare attraverso il legame tra questa serie e l’appena conclusa Person of Interest, soprattutto per quanto concerne il rapporto tra uomo e tecnologia e il bivio irrisolvibile tra due creatori dalle visioni inconciliabili.

People like to read about the things that they want the most and experience the least.

Come sappiamo, Bernard sta sviluppando con Dolores un rapporto speciale a partire dalle difficoltà a superare il lutto della morte del figlio. Se in questo episodio si segnala l’emersione attoriale di un potentissimo Anthony Hopkins (il quale fa vibrare lo schermo ad ogni battuta), Jeffrey Wright è stato eccezionale fin dalla prima puntata, in particolare quando la scena è riservata ai suoi duetti con Dolores, dove la versione nolaniana di intelligenza artificiale interviene come scialuppa di salvataggio per un uomo distrutto dal dolore, ma che al contempo sa che quella sensazione è tutto ciò che gli rimane della giovane vita perduta.
A Dolores Bernard fa leggere Alice nel paese delle meraviglie, libro che leggeva al figlio e che crea un legame molto forte col più antico robot del parco, vista l’identificazione tra Dolores e Alice, soprattutto rispetto allo spaesamento nei confronti di un mondo difficile da interpretare e alla messa in scena di un’eroina la cui fantasia è solo in attesa di essere detonata. La donna diventa sempre di più una figlia putativa per il programmatore, una sorta di surrogato al quale attribuire dei sentimenti (indipendentemente dal fatto che questa possa provarli o meno), ma soprattutto Bernard fa di lei l’interlocutore di sessioni psicoterapiche in cui il dolore di Dolores (ovviamente i nomi sono tutt’altro che casuali) è per lui il viatico verso l’elaborazione del proprio.

A fiction which, like all great stories, is rooted in truth?

Da quando Robert ha bocciato la proposta di Sizemore – reo di non andare mai davvero in profondità nella sperimentazione narrativa preferendole superficiali ammiccamenti – l’abbiamo visto più spesso occuparsi delle storyline, penetrando come un bisturi non solo nelle maglie della serie ma anche nei gangli delle narrazioni principali, contribuendo in maniera decisiva ad approfondire il discorso metanarrativo che Westworld fa sul fare televisione e più in generale sul racontare storie.
Tra tutti gli host della serie nessuno meglio di Teddy rappresenta l’unità minima di riferimento della scrittura di genere: abbiamo un personaggio secondario che per i primi due episodi e mezzo ricopre il ruolo di testimone del western, colui che proprio perché posto da un punto di vista defilato ci mostra l’architettura narrativa in questione nel suo farsi, ragionando sugli archetipi e sui canovacci narrativi. A un certo punto Robert decide di accrescere la sua importanza, spiegando quanto sia necessaria una backstory per dare ai personaggi uno spessore tale da farli passare da secondari a principali, permettendo così allo show di sottolineare, in secondo grado, quanto tante serie non si comportino allo stesso modo, manovrando protagonisti privi del necessario approfondimento e per questo inefficaci.
A questo proposito compare la storia nuova di zecca di Wyatt, ex compagno di Teddy nell’esercito e ora villain da combattere in modo eroico. La sua linea narrativa ha due principali obiettivi: da un lato sgancia Teddy da un personaggio fino a quel momento monotono (impegnato sempre a fare in modo che gli avventori siano attratti da Dolores, vogliano stuprarla e ci riescano dopo averlo ucciso); dall’altro ci accompagna verso la parte finale dell’episodio, ovvero uno degli eventi più misteriosi fino a questo momento.

Do you remember?

È però la storyline di Dolores a subire le trasformazioni più radicali, grazie soprattutto alle modifiche effettuate da Bernard, incentivate dalle rivelazioni di Robert. La donna nasconde sin dal finale del pilot segreti ancora non completamente svelati (e che forse neanche i suoi programmatori padroneggiano fino in fondo), prevalentemente legati alla violenza, sia subita che operata. Nella sequenza ambientata nel deserto in cui Teddy tenta di insegnarle ad usare la pistola, Dolores pare non riuscire a sparare, per via di una limitazione algoritmica che le è stata innestata, ma il precedente della mosca mette in dubbio la trasparenza delle sue intenzioni. Da una parte Dolores pare apprendere l’uso della violenza solo nel finale, dall’altra l’episodio apre a una consapevolezza preesistente tutta da scoprire, non chiarendo se e quanto Dolores stesse simulando l’impossibilità di premere il grilletto.

Ciò che però risulta ancora più interessante è il rapporto con la pistola che percorre tutto l’episodio e che collega il più antico dei robot del parco alle scoperte di Arnold esposte da Robert. Le modifiche fatte da Bernard su di lei potrebbero aver aperto una porta verso un passato in cui a programmarla è stato proprio Arnold, facendo così emergere quella coscienza bicamerale posta al centro delle sue ricerche che attraverso la stratificazione di memorie conferirebbe agli androidi la capacità di sentire una sorta di “voce di Dio” ad indicargli la direzione, donandogli così una capacità precognitiva che, chissà per quale motivo, Robert ha (con ogni mezzo, ma questo lo scopriremo solo più avanti) osteggiato. Non è un caso che per la prima volta vediamo Dolores nel suo appartamento – simbolo sia del suo lato più intimo sia del suo passato – alle prese con la visione di una pistola nel cassetto (simbolo a sua volta, allo stesso tempo, sia di un ricordo sepolto nella memoria sia di un suggerimento rispetto al futuro), accompagnata da una voce che le indica di ricordare. La pistola è il più classico dei “fucili di Cechov” e infatti nel finale dell’episodio Dolores, dopo una visione dell’Uomo in Nero (sulla quale si potrebbero perdere fiumi di parole), utilizza quella stessa pistola per sparare al suo assalitore e cambiare la sua storia. Se quelle voci sono il frutto dell’emersione della coscienza bicamerale, cosa c’entra l’Uomo in Nero? Cosa è successo tra loro due nel fienile? Perché è proprio lui ad avere questo ruolo maieutico per Dolores?

Why don’t we reacquaint ourselves, Dolores? Start at the beginning.

Arriviamo dunque al mistero principale – o quantomeno il più interessante – dell’episodio e della serie fino a questo momento, un arcano che coinvolge tante storyline e ragiona sul rapporto tra host e guest incardinato sull’uso della violenza e sul ruolo della morte all’interno del parco, chiamando in causa il legame tra Robert e Arnold, l’identità dell’Uomo in Nero e il nuovo arrivato William come alter ego dello spettatore all’interno di Westworld.
Nella parte iniziale dell’episodio d’apertura attraverso un twist improvviso apprendiamo che all’Uomo in Nero i proiettili non fanno neanche il solletico e, data la sua ambigua autocertificazione come guest, presumiamo che valga lo stesso anche per tutti gli altri ospiti. Tuttavia quando un host spara a William l’effetto è molto diverso: pur non essendo colpito mortalmente, il ragazzo viene atterrato e leggermente ferito, come dimostra subito dopo mostrando il livido allo specchio (e agli spettatori). È proprio Logan – guest di lunga data – a dirgli che se i proiettili risultassero completamente inoffensivi verrebbe meno una parte fondamentale del divertimento.

A complicare il tutto è però il finale in cui, come anticipato poco fa, la trama di Teddy va a imbattersi con il mistero dei proiettili: l’imboscata subita dal giovane cowboy è operata da un gruppo di misteriosi uomini mascherati, i quali vengono fucilati a bruciapelo senza subire alcun danno, esattamente come accade all’Uomo in Nero. Di chi si tratta? Sono dei guest? A prima vista pare di sì ma ci sono due ragioni che smentiscono questa teoria: 1) quella storyline è stata appena creata da Robert e a quanto ne sappiamo i programmatori hanno il controllo solo sugli androidi; 2) come ha dimostrato William, i colpi di pistola feriscono eccome, soprattutto se a distanza così ravvicinata, cosa che non accade nel caso di questi misteriosi personaggi. Sugli uomini mascherati infatti l’effetto dei proiettili è lo stesso che sull’Uomo in Nero, gettandoli in un vortice di teorie che la serie ha costruito con grande abilità. Non solo il personaggio interpretato da Ed Harris potrebbe avere una protezione speciale rispetto a questo tipo di situazioni, ma è legittimo ipotizzare un collegamento tra lui e Arnold, essendo entrambi legati alle origini del parco. È legittimo credere che il legame sia strettissimo e pertenga alla morte del co-fondatore, tanto da immaginare che l’Uomo in Nero possa addirittura essere Arnold o comunque avere artificialmente acquisito parte della sua coscienza.

We found a stray up here, but I don’t think it got here by accident. It’s as if he got an idea in his head, one that we never programmed.

L’errante che dà il titolo all’episodio è al centro della storyline meno intessante e che rivela quanto Westworld, pur essendo una serie suggestiva e coinvolgente come pochissime altre, sia ancora un lavoro tutt’altro che perfetto. Eloise e Stubbs vengono mandati alla ricerca dell’androide disperso e con loro assistiamo a una serie di rivelazioni che, invece di dare risposte a domande già poste in passato, aumentano gli interrogativi della serie, indebolendo il patto di attese e soddisfazioni delle stesse che la serie intesse con lo spettatore. Il labirinto seguito dall’Uomo in Nero è il mistero dei misteri, il marchio di fabbrica di J.J. Abrams che per ora non ha nulla di concreto e molto poco di interessante, soprattutto se accompagnato dalla misteriosa incisione nel legno trovata da Eloise che potrebbe essergli collegata, ma sulla quale per ora non possiamo azzardare alcuna ipotesi. Anche l’incontro con l’errante è pieno di reazioni non sufficientemente spiegate, tra cui la ribellione del robot e il successivo suicidio, abbastanza insensato per quanto reso in modo spettacolare. Non è chiaro perché l’errante tenti di uccidere Stubbs e neanche perché nel provare a uccidere Eloise finisca per suicidarsi. È stato programmato per farlo? È stata la donna a dargli il comando dal tablet? Se così fosse allora non si spiegherebbe il terrore di quest’ultima e la sua successiva espressione di sorpresa e sollievo.

“The Stray” è il primo episodio davvero spartiacque della serie, in cui diverse questioni di grande importanza vengono affrontate alla luce delle dinamiche interne ed esterne al parco, aprendo varchi consistenti sulla sua origine e sul collegamento tra questa e gli sviluppi futuri. Da adesso in poi nulla sarà come prima, a partire dal salvataggio di Dolores che chiude l’episodio.

Voto: 8+
Westworld – 1×04 Dissonance Theory
Non sono molti gli show che riescono a introdurre, in pochi episodi, un numero così elevato di possibilità narrative, di riflessioni filosofiche e di questioni morali così come riesce a fare Westworld.
La nuova serie targata HBO, arrivata al quarto episodio, sembra aver guidato i personaggi principali – e noi spettatori con loro – sull’orlo del precipizio.

“Noi siamo la nostra memoria, noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti, questo mucchio di specchi rotti.”
Jorge Louis Borges.

I misteri di questo mondo fittizio si svelano poco a poco e alcuni dei robot, in una sorta di stato di dormiveglia, cercano di afferrare i ricordi di quello che sembra un sogno sfuggente; un sogno che però continua a ripetersi, invadendo e disturbando la loro quotidianità, e che ha iniziato a piantare nelle loro menti l’insidioso seme del dubbio. Westworld ribadisce con ancora più forza quel legame indissolubile che unisce tra loro essere e memoria, e afferma che sono proprio i ricordi, nel loro continuo sovrapporsi, a creare quell’unità di senso chiamata “coscienza”.
Questo episodio ha molto da dirci, a partire dal titolo: la dissonanza è un concetto introdotto in psicologia sociale nel 1957 da Leon Festinger, e si verifica quando le credenze e le nozioni di un soggetto riguardo un determinato tema iniziano ad andare in contrasto, generando inquietudine. Ed è esattamente ciò che sta accadendo – in modi diversi ma con la stessa intensità – a Dolores e a Maeve: entrambe sono alle prese con quella che sembra una vera e propria crisi esistenziale, causata dal semplice riaffiorare di ricordi brevi e indistinti, ma abbastanza forti da far mettere loro in discussione la realtà in cui si trovano.

I used to believe there was a path for everyone. Now I think I never asked where that path was taking me.

Nel momento in cui Dolores comincia a ricordare, automaticamente inizia anche a domandare, a sperare e a ribellarsi, per tentare, prima o poi, di fuggire da quel loop per cui è stata creata. La sua decisione di non dimenticare il dolore per la morte dei suoi genitori è un ulteriore segno della ricerca della sua stessa natura: Dolores vuole “scoprirsi”, nonostante questo implichi sofferenza; perché è proprio l’elaborazione di queste nuove sensazioni che permette al robot di studiare se stessa. Tuttavia, non sono soltanto le azioni dei robot a essere messe in scena, ma anche le reazioni umane a questi loro cambiamenti: Bernard e William sono gli esseri umani con cui Dolores è più a contatto, ed entrambi sembrano – attraverso i loro sentimenti – facilitarle la strada verso la consapevolezza. Bernard è infatti affascinato dai pensieri della ragazza e, rispecchiandosi e immedesimandosi nel suo dolore, permette che continui a percorrere questa pericolosa strada; mentre William, nella sua ingenuità, offre a Dolores ulteriori indizi riguardo la sua natura.
Protagonista di “Dissonance Theory” è quindi il tema del risveglio e dell’intricato percorso che devono compiere i protagonisti per raggiungere la libertà. Non è allora un caso se il labirinto – reale e metaforico – è ciò che accomuna tutti coloro che hanno a che fare con il parco: a partire dagli ospiti, che fra le innumerevoli trame messe a loro disposizione devono “trovare se stessi”, fino ai robot, che devono esplorare internamente i loro ricordi per arrivare al centro, alla chiarezza individuale che è quella coscienza di cui ora alcuni di loro stanno sperimentando solo i sintomi. E non è un caso neanche che sia la stessa inquietante bambina a indirizzare l’Uomo in Nero e Dolores verso questo labirinto, assumendo il ruolo di una sorta di onirico Bianconiglio che induce entrambi a inoltrarsi in profondità nel “Paese delle Meraviglie”.

He died right here in the park. Except I believe he had one story left to tell. A story with real stakes, real violence. You could say I’m here to honor his legacy.

Questa puntata ci offre un po’ di chiarezza riguardo le intenzioni dell’Uomo in Nero che, più di ogni altro, ha intenzione di esplorare tutte le possibilità offerte dal parco in cui ogni cosa è concessa. Alla luce della rivelazione riguardo la misteriosa morte di Arnold – personaggio che, nella sua assenza, si rivela paradossalmente fondamentale – scopriamo che il centro del Labirinto è l’ultimo capitolo che l’Uomo in Nero deve scoprire: un luogo e una storia in cui, a differenza delle altre, si può morire. La sua storyline, così legata ad Arnold e ancora così misteriosa – il riferimento a una sua “fondazione” non è di certo passato inosservato –, permette l’introduzione di un altro personaggio, Armistice, la cui narrazione, basata su quella del crudele Wyatt, crea un nuovo e interessante filone narrativo che non fa altro che ribadire la bravura degli sceneggiatori (qui Nolan è affiancato dal bravissimo Ed Brubaker) nel destreggiarsi tra le infinite possibilità della serie. La paura che in futuro il gran numero di trame e personaggi possa destabilizzare l’insieme della narrazione è inevitabile ma, per ora, la capacità con cui sono stati gestiti tutti gli elementi dello show è senza dubbio incoraggiante.

I’m not crazy after all.

Maeve sta attraversando la stessa crisi e la stessa confusione di Dolores, ma, mentre quest’ultima è mossa più che altro dal dolore emotivo, è il dolore fisico che permette ai dubbi di Maeve di scavare nelle profondità del suo inconscio: il ricordo degli uomini in tuta anti-contaminazione è legato al ricordo dei corpi straziati dei robot, vittime del divertimento sfrenato dei visitatori. La correlazione degli uomini in tuta a delle “ombre” dagli aspetti sovrannaturali che si muovono fra i mondi, ci riconduce al tema – squisitamente umano – del magico che entra in scena ogni qualvolta la razionalità non basta a fornire spiegazioni adeguate per determinati fenomeni (ulteriore segno di quanto il parco sia meno lontano dalla realtà di quanto possa sembrare). Anche se, ovviamente, non è a conoscenza di tutta la verità, con il ritrovamento del proiettile nel suo addome Maeve ha capito che il mondo in cui si trova è folle e fittizio, e questa rivelazione, se aggiunta a quella di Dolores, avrà di certo importanti ripercussioni che probabilmente porteranno la serie a cambiare direzione.

In here, we were gods. And you were merely our guests.

Così come alcuni dei robot hanno in parte realizzato che il loro mondo è “controllato” da qualcosa di ben più grande di loro, anche Theresa sperimenta la stessa sensazione durante il surreale e bellissimo dialogo con Robert. La loro collisione segna con ancora più prepotenza la differenza che intercorre tra i due: Robert non ama il pragmatismo e la presunzione della donna, e la freddezza e la decisione con cui vuole tenere lei e gli altri membri del consiglio di amministrazione lontani dagli obiettivi (senza dubbio maestosi ma ancora segreti) del suo enorme mondo ci confermano quanto si senta a suo agio nel ruolo del demiurgo in continua creazione. Fantastica, come sempre, l’interpretazione di Anthony Hopkins, le cui espressioni subdole ed egocentriche potrebbero forse ricordare, in questa scena in particolare, quelle ne Il Silenzio degli Innocenti.

In quello che è stato un episodio transitorio, Westworld ci nasconde ancora innumerevoli segreti che aspettano di essere svelati riguardo i meccanismi e i misteri del parco; ma ciò che in particolar modo riesce a tenere alto il livello di questa serie è la sottile analisi psicologica ed esistenziale dei personaggi, ognuno dei quali – a dispetto della sua natura e della sua vita – mantiene con gli altri alcuni elementi in comune che permettono alla storia di conservare una sua unitarietà, nonostante la grande molteplicità di narrazioni. Aggiungendo a questi pregi l’aspetto tecnico, dotato di un montaggio raffinato, curato e dettagliato, ecco che Westworld si riconferma una delle serie più belle in circolazione, e le nostre aspettative non possono che crescere in attesa dei prossimi episodi.

Voto: 8
Westworld – 1×05 Contrapasso
Giunta a metà del suo percorso, Westworld non accenna a perdere colpi e confeziona un altro ottimo episodio che, pur procedendo con l’accumulo di quesiti e misteri, porta molte delle storyline a un punto di rottura.

Nonostante la buona accoglienza dello show da parte di pubblico e critica, con il passare delle settimane sono iniziate a emergere alcune perplessità, figlie principalmente del ritmo a tratti indolente del racconto e della parsimonia con cui concede risposte.

In quest’ottica, “Contrapasso” non fa che confermare come queste critiche, pur non essendo del tutto infondate, sono forse frutto di una mancata messa a fuoco dei veri fulcri d’interesse della creatura di Nolan, in grado di trasformare il parco in un’articolatissima metafora della condizione umana. Se infatti al temine dell’episodio la bilancia continua decisamente a pendere a favore delle domande, a emergere con forza, forse ancora più che in passato, è la raffinatezza di una scrittura quanto mai complessa e stratificata, che pur necessitando di un alto minutaggio per ordinare tutti gli elementi sulla scacchiera riesce a compensare il tono interlocutorio di alcuni passaggi con una rara pregnanza espressiva.

Non a caso, a legare insieme la frammentarietà di una narrazione che, nonostante la funzione catalizzatrice del labirinto, continua a procedere su più fronti, troviamo proprio gli scambi di Ford con i principali attori in gioco, l’Uomo in Nero e Dolores, entrambi vecchie conoscenze del creatore del parco e legati alla figura di Arnold.

I always felt this place was missing a real villain.

Se del primo sono chiari gli obiettivi – il raggiungimento del labirinto – restano ancora oscure le motivazioni e le modalità d’azione. In quanto antico frequentatore, nonchè finanziatore, del parco, l’uomo conosce alla perfezione i meccanismi di funzionamento di Westworld e dei suoi personaggi, apparendo quindi in grado di manipolarli a suo piacimento (come fa con Teddy). La comparsa dell’androide bambino, con cui Robert ha un legame speciale, e lo scambio con quest’ultimo impediscono però di chiarire quanto l’Uomo in Nero sia veramente padrone della sua storia. Ford, infatti, ne mette in dubbio la natura di villain e definisce il suo un percorso di scoperta di sé, alludendo così a un possibile scardinamento dei ruoli prestabiliti che presenta più di un’analogia con la storia di Dolores.

If you did take on that bigger role for yourself, would you have been the hero or the villain?

Dopo esser giunta a uno snodo fondamentale del suo percorso di crescita e acquisizione di consapevolezza di sé, anche Dolores si dirige verso il labirinto. Le vicende di Pariah sembrano infatti averla portata a spezzare definitivamente il “piccolo loop” in cui era imprigionata, liberandosi così dal ruolo della damigella in pericolo che le era stato imposto. In questo passaggio – sottolineato non a caso anche da un cambio d’abito – un ruolo capitale è giocato da Arnold, vera e propria guida e alleato dell’androide, la cui figura è al centro dell’enigmatico scambio con Ford. Il continuo riferimento al sogno finisce col mettere in discussione la veridicità della storia di Dolores, anche se la sua capacità di mentire al creatore in modalità analisi va a minare come mai prima d’ora la natura di demiurgo onnipotente del dottore. Dolores, come il cane da caccia protagonista del racconto di Ford, appare disorientata di fronte all’acquisizione, almeno apparente, di una libertà che le era sempre stata negata, a cui potrebbe reagire, complici i piani di distruzione di Arnold, con una violenza incontrollabile.

Anche la storia di William, tramite prediletto tra lo spettatore e il mondo di Westworld per il modo in cui si rapporta agli host, giunge a un punto di svolta: grazie alla funzione maieutica di Logan e ai sentimenti per Dolores, l’uomo spezza il loop che lo voleva innocuo e passivo di fronte agli eventi interni ed esterni al parco, andando così a incrinare il suo ruolo di eroe integerrimo.

There’s no such thing as heroes and villains.

A ben vedere infatti, il cuore pulsante dell’episodio è costituito proprio dalla riflessione sulle figure dell’eroe, del villain e della damigella in pericolo, la quale, procedendo su un doppio binario diegetico ed extradiegetico, giunge a rimescolare le carte in tavola, liberando così i personaggi – William, l’Uomo in Nero, Dolores – dalle gabbie in cui gli autori li avevano consapevolmente inseriti.

In “Contrapasso”, quasi ogni riga di dialogo contiene un livello di lettura metastestuale: parlare di Westworld – il parco giochi – significa anche parlare di Westworld – la serie HBO; ecco quindi che lo show di Nolan, e questo episodio ne è forse ad oggi l’esempio più eclatatante, acquista valore non tanto per la sua pur curatissima cornice fantascientifica, ma soprattutto nell’ottica di commentario dello storytelling contemporaneo, tramite l’adesione e il successivo superamento di topos e generi codificati.

Ne risulta una serie per molti versi cerebrale, che rifiuta consciamente di fare affidamento sul principale strumento di fidelizzazione del pubblico, ovvero l’instaurazione di un rapporto emotivo con i personaggi, i quali – siano essi umani o androidi – vengono spogliati della propria umanità, con l’obiettivo di scoprirne lo scheletro di convenzioni su cui poggiano, con tutte le ambiguità e contraddizioni che questo porta con sé, per poi distruggerle una ad una. L’analogia tra i visitatori del parco e gli spettatori mira in questo senso a mettere in discussione la percezione passiva e aproblematica di certi steoreotipi e dinamiche che popolano il nostro immaginario, e a riflettere sui modi in cui questa accettazione influisce sulla nostra visione del mondo.

Nonostante l’attenzione sia principalmente rivolta alla crescita dei personaggi, l’episodio, pur fornendo qualche risposta, continua a complicare la trama di misteri che girano attorno al passato e al presente del parco: se scopriamo qualcosa di più sui rapporti che legano Arnold, Dolores, Ford e l’Uomo in Nero, l’apparizione di Lawrence a Pariah subito dopo la sua morte rende precaria la percezione sincronica delle diverse storyline, così come la scoperta che qualcuno sta usando gli host per rubare informazioni va a rinforzare il senso di imminente rottura dello status quo che aleggia su Westworld, introducendo quella che sembra a tutti gli effetti essere una minaccia esterna.

Parafrasando le parole dell’Uomo in Nero e di Logan, sotto la cornice fantascientifica di Westworld si nasconde un significato più profondo, e più ci allontaniamo dalla sua premessa più il racconto ­– e la messa in scena – si fanno grandiosi. “Contrapasso” continua a fondere alla perfezione una scrittura raffinatissima e immagini icastiche – pensiamo all’orgia dorata di Pariah o al risveglio di Maeve come una sorta di principessa Disney distopica; se la serie continuerà su questi livelli nella seconda parte di stagione, non potrà che confermarsi come una delle migliori novità di quest’anno.

Voto: 8,5
Westworld – 1×06 The Adversary
Dopo una prima parte per forza di cose cauta ed introduttiva, Westworld è ormai definitivamente nel secondo atto della stagione, la parte dell’evoluzione e dello sconvolgimento di temi, personaggi e del racconto in generale.

Era infatti obbligatorio che una serie dallo spettro così ampio si prendesse del tempo per identificare i numerosissimi ed articolati argomenti che si devono toccare, che si muovesse con calma in modo da non perdersi subito in un sistema di personaggi e linee narrative a dir poco complesso. È per questo che le prime quattro puntate hanno – giustamente – mostrato una certa propensione al quasi-congelamento della narrazione, portando diverse storie a “girare su se stesse” in modo da concentrarsi sulla molteplicità di temi che ognuna di queste mette in scena; ed è per questo che lo scorso episodio e questo “The Adversary” avevano il compito di stravolgere lo status quo, lanciando un macchinario ormai ben costruito verso la storia che la penna di Nolan vuole raccontare.

È con la storia di Maeve che lo show continua a portare avanti le sue riflessioni fondamentali: sulla natura dell’essere umano e quella dell’intelligenza artificiale, sulla coscienza e la memoria, sul libero arbitrio e la possibilità di controllare la propria natura. Maeve è il primo personaggio insieme a Dolores ad uscire da uno schema precostituito per trovare un senso in quello che vede; è il pensiero autonomo ed indipendente il primo atto di ribellione che vediamo compiere, ed in questo episodio tale processo viene portato ad un inevitabile punto di rottura.
Il “difetto” che ha portato a questa situazione sta, come spesso accade, nella scelta di dotare l’host di certe caratteristiche necessarie per lo sviluppo del parco ma anche pericolose per la coscienza dell’androide stesso, che inevitabilmente sfrutta la libertà di pensiero concessagli per esplorare quelle parti della propria esistenza che appaiono scure ed indecifrabili. Il fatto che la serie rimanga ancora così densa di misteri rende difficile arrivare alla causa della ribellione di Maeve (in questo episodio si parla di una riprogrammazione, ma quanto invece è da imputare alla volontà stessa della donna?), ma il significato alla base della vicenda rimane chiaro ed inequivocabile: uno dei segni distintivi dell’essere umano sta proprio nel porsi domande, nel – come viene chiesto a Dolores nel pilot – mettere in dubbio gli aspetti fondamentali della propria esistenza (e Blade Runner rimane sempre il punto da cui partire per riflessioni di questo tipo).

Ma la vicenda di Maeve non si ferma su questo livello: Westworld è una serie così ampia ed articolata anche per la sua capacità di parlare della narrazione stessa, di ragionare sui concetti di finzione scenica, narratore e spettatore senza per questo perdere il contatto con il mondo presentato. In questo senso, la scena dell’esplorazione del quartier generale costituisce forse il punto più alto raggiunto finora dalla serie, nel suo attraversare lo specchio e mostrare con occhio inesperto (nonostante, per lo spettatore, non si tratti di un luogo nuovo) la realtà del dietro le quinte; e quello che sorprende di più è la straordinaria naturalezza con cui questo viene fatto, alternando visioni mostruose e raccapriccianti (i cadaveri sanguinanti abbandonati sul pavimento, i corpi nudi trattati con la massima freddezza) ad altre che invece raccontano la bellezza dell’artificio e della creazione. È in questo gioco di contrasti ed ambivalenze che sta la vera complessità di Westworld, nel dono e nella condanna che vengono concessi ad una macchina quando viene dotata di una coscienza ingabbiata, nel tentativo di costruire un’umanità che proprio per sua natura rischia di diventare pericolosa ed incontrollabile: Maeve (come Dolores nella scorsa puntata) è l’incarnazione perfetta di questa ambiguità, e la sua ricerca della verità riesce a mettere a nudo anche quella del sistema stesso che l’ha creata.

Robert Ford, tra l’altro, è uno dei perni fondamentali attorno a cui tale sistema ruota, il punto di partenza da cui analizzare tutte le implicazioni e le scelte che hanno portato alla costruzione di Westworld. In “The Adversary”, in particolare, parte della nebbia che accompagnava il creatore del parco viene diradata per far luce su alcuni aspetti delle sue azioni recenti, mettendo a nudo la nostalgia e l’attenzione per il reale che, in fin dei conti, permeano tutte le creazioni finora viste di Ford; è in particolare la replica di una vita familiare ormai persa che spiega parte del carattere del creatore, la riproduzione meccanica e volontariamente artificiosa (Ford loda i vecchi modelli, parlando di come quelli nuovi abbiano “perso grazia”) di qualcosa di lontano eppure in qualche modo ancora recuperabile.
Ed ecco appunto che torna il tema della creazione e dell’artificio, il mezzo con cui Robert tiene in vita i suoi legami col passato (e soprattutto con Arnold) e per questo quello che lo rende più pericoloso, incapace di staccarsi da un’opera che non può che identificarsi come qualcosa di intimo e personale.

Si ricollega a tale pericolo la linea narrativa di Bernard ed Elsie, la parte più strettamente funzionale alla trama orizzontale e che vede in questo episodio i passi in avanti più grandi dall’inizio della stagione. Nel ricollegarsi agli aspetti più amministrativi della gestione di Westworld e della questione del corporate espionage, tuttavia, la scrittura porta con sé quelli che sono i punti più deboli finora della serie, fatti di svolte narrative non sempre forti quanto si vorrebbe (il “tradimento” di Theresa, la trappola ad Elsie) e spesso scollegate dalla complessità tematica che accompagna gran parte degli svolgimenti della serie. C’è da dire, in ogni caso, che proprio questa sesta puntata sembra porre il tutto in una direzione molto più convincente, unificando diverse storyline e avvicinandosi a delle risposte per quanto riguarda gran parte dei misteri finora presentati; rimane infatti la sensazione che si tratti di una parte del racconto strettamente necessaria, fondamentale a sciogliere i grandi intrecci posti in essere nella stagione e a collegare alcune linee narrative altrimenti lontane tra loro.

È difficile immaginare un prodotto più ambizioso e potenzialmente immenso di Westworld – in quanto a temi, sistema di personaggi, complessità dell’intreccio; si tratta di un macchinario così denso ed articolato che i livelli di lettura si sovrappongono uno sull’altro, da quello fantascientifico a quello metatestuale, generando una serie di spunti di riflessione e di possibili direzioni per il racconto (le teorie sullo show sono già arrivate ad un numero esagerato) che anche da soli garantirebbero la riuscita della serie. Eppure non è tutto lì, perché la straordinaria ambiguità ed intelligenza degli argomenti trattati e la cura nella messa in scena (dalle interpretazioni al comparto sonoro, fino alle scenografie e alla regia stessa) trasformano un potenziale gigantesco in qualcosa di concreto, di certo non privo di difetti ma capace di lasciare il segno già adesso in un panorama televisivo sempre più ricco e in continua evoluzione.
Lo scorso “Contrapasso” e questo “The Adversary”, in particolare, sono la dimostrazione che la scrittura di Nolan non solo ha qualcosa da dire ma riesce anche a raccontarlo, a portarlo avanti, proiettando la stagione verso la seconda metà con un’intensità per nulla scontata.

Voto: 8½
Westworld – 1×07 Trompe l’Oeil
Giunti al settimo appuntamento, il parco divertimenti più strano della storia diventa sempre più oscuro, pessimistico e pericoloso: quello che per molti è un sogno nasconde sotto al tappeto tutto il marcio che si protrae da anni e che sembra avere raggiunto il suo zenit. E come con tutte le cose che raggiungono un apice, si hanno sempre delle conseguenze.

If I had a world of my own, everything would be nonsense. Nothing would be what it is because everything would be what it isn’t.

Essere o non essere? È sempre stato questo il problema, vero?
Westworld non parte da un’idea originalissima, diciamocelo: la questione robot-umani e umani-robot è già stata vista, ma Nolan e compagnia sono stati bravi a rimescolare un po’ le carte, inserendo i personaggi anche in un contesto molto particolare che sembra funzionare molto bene.
Bernard è sicuramente uno dei protagonisti, e il colpo di scena che lo vede centrale in questa puntata è ben orchestrato, anche se un po’ telefonato: era quasi scontato che uno dei protagonisti umani si sarebbe rivelato prima o poi un androide. Detto questo, però, la scelta è sicuramente azzeccata, perché ridefinisce e di molto i confini delle azioni dei protagonisti e ci fa capire come forse nessuno – a parte i personaggi di Hopkins e Harris – sia effettivamente sicuro di finire la stagione tutto intero.

“Come è possibile non essere?”, si chiede il Cappellaio Matto quando Alice gli fa presente che lui non esiste; la presa di coscienza di Bernard di non avere mai avuto una vita vera ma di avere nella testa solo ricordi dettati da un codice è terrificante e affascinante al tempo stesso. “Non vedono ciò che li ferisce”, spiega il Dottor Ford, ormai vera figura divina di Westworld, e ci fa chiedere se con le sue scelte ha reso la vita di queste creature robotiche perfetta o assolutamente mostruosa. È quindi meglio vivere una vita finta ma sicura e lontana dal dolore, o una vita vera che spesso è molto più piena di sofferenza che di gioia?

I don’t wanna be in a story.

Dolores e William sono la sezione romance del racconto, e fino a qui stanno funzionando molto bene: non tanto per la funzione appunto amorosa che hanno – scontato il finale della tensione sessuale che si respirava da due puntate –, quanto per la loro visione del mondo: tesa verso i sogni quella di uno, lanciata verso la realtà quella dell’altra.
È molto interessante la dicotomia che si specchia tra i due, l’umano che sogna una vita come quella che sta vivendo ora per evadere dalla realtà e il robot che anela a vivere una vita vera e non dipinta da qualcun altro. Il trompe l’oeil che disegna Dolores sul telo nel vagone del treno racchiude appunto il senso dell’episodio e probabilmente tutta la filosofia che regge Westworld: i sogni sono fatti per essere vissuti pienamente o solo tenuti da monito per renderci conto della realtà che ci circonda?
La realtà di William è fatta di step quasi preimpostati: si diventa uomini, si trova un buon lavoro, si sposa la ragazza della porta accanto, si ha una famiglia, si muore. Come dicevamo prima, una vita tranquilla e regolare, ma anche qui aleggia una domanda, forse più pesante ancora di quella del Cappellaio Matto: si tratta forse di una vita felice?

Così ci si specchia Dolores (nomen omen) che vive in un sogno che, per chi come lei prende coscienza che la realtà – e di conseguenza la Vita – è un’altra cosa, diventa ben presto un incubo. La Vita è fatta di sporcizia, di combattimenti, di fiato corto, di avventura e perché no anche di amore, un amore sì idealizzato forse, ma che brucia e fa battere il cuore. La presa di coscienza definitiva di Dolores sulla realtà la si ha nello splendido campo lungo del canyon, che non aveva mai visto ma che ha disegnato con precisione grottesca poco prima: un concetto di deja-vu che fa venire la pelle d’oca.
Chi siamo, quindi? Sembra chiederselo anche Dolores mentre guarda un paesaggio che non riesce a spiegarsi: siamo quelli inseguiti nei boschi e che rischiano di morire o quelli che ammirano un paesaggio calmo e disteso nella luce del tramonto?

Surviving is just another loop.

E poi c’è Maeve, forse la più interessante tra le storyline fin qui raccontate. Al netto delle facili semplificazioni – prostituta di colore che si emancipa dal ruolo di mero oggetto per diventare a tutti gli effetti un soggetto, e peraltro pericoloso grazie alla sua nuova intelligenza – Maeve rappresenta la rivolta verso i creatori, i potenti, ma soprattutto verso Dio.
“Pensavo foste degli Dei”, dice ai due tecnici ormai terrorizzati dall’errore che hanno commesso, e nel disprezzo di quella frase si racchiude forse l’altro punto di vista della serie, ovvero la sfiducia verso qualcosa di più Alto che dovrebbe proteggerci e dare un senso alla vita che viviamo tutti i giorni. Maeve prende coscienza che non c’è nessun Paradiso, nessun aldilà su cui contare una volta morti; anzi, un aldilà c’è, ed è una stanza asettica dove lobotomizzano la tua migliore amica.
Maeve è come se fosse un upgrade di Dolores: la Realtà per lei ora non è mai stata così importante, capire è diventata la sua ragione di vita, lei che di vita tecnicamente non ne ha. Anche qui la visione pessimistica dell’esistenza esce prepotente, perché se quello che vede lì dentro è così terribile (i corpi lavati che ricordano sinistramente le immagini dell’Olocausto), cosa mai potrà attenderla fuori?

Westworld ha ormai raggiunto un livello molto alto: dopo avere presentato il suo mondo, i suoi personaggi e aver introdotto il mistero più grande (il labirinto), ora è giunto il momento di esplicare la filosofia che Nolan e Joy vogliono comunicarci; come dicevamo in apertura, lo scheletro di base è un’idea già vista, ma che si sta svolgendo in modo tale da non farcene accorgere.
Ogni paragrafo che avete letto finisce con una domanda, e non è un caso: Westworld è uno di quei prodotti che sì intrattiene – deve farlo per forza, ça va sans dire –, ma che ogni volta che lo schermo sfuma a nero ci fa porre delle domande. E allora torniamo al Cappellaio Matto, tanto amato dal non-figlio di Bernard, che fece questo indovinello ad Alice, paradigma di quello che ci racconta la serie e della vita stessa: “Perché un corvo è come uno scrittoio?”
La risposta non la sa nemmeno il Cappellaio. Perché una risposta, molto probabilmente, non esiste.

Voto: 8
Westworld – 1×08 Trace Decay
Ormai diretto verso il climax finale, Westworld inizia ad aggrovigliarsi nella tipica vertigine narrativa che caratterizza la poetica nolaniana, in quello che è il terzultimo sguardo sull’abisso prima del salto che probabilmente ci svelerà molto della realtà nascosta in questo gioco di scatole cinesi.

Che Westworld non risolva tutti i suoi enigmi entro il finale di questa sua prima stagione è cosa quanto mai probabile, considerata la natura di serie TV che al momento le impedisce di avere un qualsiasi senso di chiusura completa, ma è ormai evidente come la narrazione, in un mare di piccoli dettagli, si stia iniziando a contrarre su se stessa per andare a svelare il “prestigio” (parafrasando uno dei più celebri film dei fratelli Nolan) dietro i numerosi interrogativi che affollano la mente di noi spettatori.

“The self is a kind of fiction, for hosts and humans alike. It’s a story we tell ourselves.”

Westworld rischia di diventare a tutti gli effetti la summa della poetica di Jonathan Nolan, dalla fascinazione (e allo stesso tempo la paura) nei confronti della tecnologia (Person of Interest), all’importanza della memoria (Memento), fino all’interesse verso la relatività di concetti apparentemente assoluti come tempo (Interstellar) e realtà (The Prestige). C’è però anche, ed è il caso di questo nuovo episodio, un’importante riflessione sul concetto di scrittura e immaginazione, che era in realtà alla base dell’opera prima del fratello Christopher, Following. Quanto potere c’è nell’immaginazione di un uomo e nell’idea di poter determinare la propria storia e/o il destino degli altri? Del resto, dietro il concetto di divinità (richiamato in questo episodio sia da Ford, che dal Man in Black), c’è forse l’idea di uno scrittore che ci ha reso tutti protagonisti ignari di una storia da lui raccontata, in cui in realtà non siamo liberi ma diretti dalla sua volontà e dalle sue scelte narrative.

“Time to write my own fucking story.”

Nel concetto di “scrittore” c’è tutto il tentativo umano di decidere la propria storia e allo stesso tempo il desiderio di manipolare quella di altri e la loro realtà. Tra le numerose storyline che popolano questo episodio spiccano in particolare quella di Bernard intento a cancellare le tracce di quanto accaduto a Theresa, quella di Ford che crea ad arte un racconto per nascondere un omicidio, quella di Maeve che decide di prendere le redini del proprio destino creando una propria storia, e quella del Men in Black che racconta di non aver preso parte alle “narratives” di Ford per crearne una propria in quello che è il flashback che ci illustra il suo precedente incontro con Maeve. E poi c’è Sizemore, lo scrittore per eccellenza, chiamato ad inventare una storia per portare uno degli androidi fuori dal parco.

“Are they real? The things that I have experienced?”

E allora il dubbio sorge spontaneo: che la stessa Maeve sia ignara protagonista di una storia scritta appositamente per portarla fuori da Westworld? Che la sua appena acquisita indipendenza non sia altro che un plot twist deciso da un altro burattinaio per scopi ancora oscuri? Che questa sua nuova identità “libera” non sia altro che parte di una nuova “narrative” (non molto riuscita, considerate le critiche che sta suscitando negli spettatori per l’eccessiva facilità con cui Maeve ottiene tutto ciò che vuole)? Ed è qui che la storia inizia a cadere nel suo buco nero, aumentando il senso di vertigine senza punti di riferimento, in cui concetti come realtà e tempo svaniscono, sprofondando nel relativismo di un labirinto mentale, in cui a dominare è la pura immaginazione, in grado di creare, riprodurre, modificare, manipolare un universo senza più un “dove” e un “quando.”

“This guilt you feel, the anguish, the horror, the pain… it’s remarkable, a thing of beauty.”

That’s why every magic trick has a third act, the hardest part, the part we call ‘The Prestige’.” raccontava Michael Caine in The Prestige. E così, dopo l’atto di presentazione (i primi quattro episodi) e quello in cui si assiste alla magia e si cerca il trucco, ecco dunque arrivato per Westworld il momento del prestigio. La rivelazione del precedente episodio sulla vera natura di Bernard ci ha infatti introdotto a quello che è proprio il terzo atto di questa magia, atto di cui questo episodio rappresenta l’effettivo inizio. L’abilità nella scrittura di questa puntata sta infatti nell’iniziare a sciogliere i nodi mantenendo però ancora intatta tutta l’enigmaticità che ruota intorno a questo universo. Da qui deriva il senso forte di disagio che si respira per tutti questi 60 minuti, una sensazione creata dall’avere risposte che generano altri interrogativi, da un senso di coesione che genera ancora più dispersione, una frustrazione espressa in maniera esemplare dalla follia che si impadronisce per un momento di Dolores nella sua incapacità di distinguere la propria realtà.

“So what’s the difference between my pain and yours? Between you and me?”

Non staremo qui a lodare nuovamente la bravura del cast, né la brillantezza dei dialoghi, che raggiungono una nuova vetta nel ribaltare il comune pensiero secondo il quale esista una effettiva differenza tra un robot e un uomo. L’eccellenza di Westworld si distingue, in particolare qui, dal suo Dio e prestigiatore, ovvero il suo scrittore Jonathan Nolan, l’unico a poter mettere in scena un rompicapo così ben coeso, un gioco di prestigio che lentamente svela parte di se stesso, continuando però a nascondere il proprio trucco. E ciò che genera è solo meraviglia, lo stupore di trovarsi di fronte a qualcosa di sublime che porta a farci interrogare persino sulla nostra realtà (quale immagine più vivida del resto della poetica nolaniana della trottola di Inception che, forse, non smetterà mai di girare?). Ed è in questo episodio che “The Maze”, il Labirinto, smette di essere qualcosa da cercare, ma prende vita diventando protagonista assoluto.

“Is this… now?”

E se Westworld non contenesse un labirinto, ma fosse il Labirinto stesso? Del resto, il fuoriuscire dell’ormai celebre simbolo in ogni angolo del parco lascerebbe pensare che, in realtà, siamo forse già dentro a quello che potremmo chiamare il “gioco di Arnold”. La serie stessa, Westworld, è un labirinto, non inteso in senso spaziale, ma nel suo perdersi tra timeline, riproduzioni e cloni, nel tentativo dell’uomo di correggere le proprie imperfezioni e sfuggire al proprio dolore, morendo e rinascendo in un loop infinito e senza uscita. L’aspirazione di Arnold forse non era rendere i robot umani, bensì renderli liberi, in quello che è un sogno che agli umani non è concesso realizzare, ancorati come sono ai traumi che ne hanno costruito l’identità e determinato le scelte, a quella “back story” che è stata data loro e che è il momento primigenio da cui tutta la loro storia ha avuto inizio.

“And together you and I captured that elusive thing… Heart.”

Qual è allora il segreto del labirinto? Cosa c’è al centro di esso, quello che Ford definirebbe “the heart” a cui Arnold voleva arrivare? Il nucleo e il segreto del labirinto potrebbe non essere altro che la pura sofferenza, il dolore da cui tutti i nostri sogni, speranze, scelte e incubi nascono, in un sovrapporsi continuo in cui la realtà si mescola all’immaginazione in un numero illimitato di riproduzioni di noi stessi, ognuna delle quali rappresenta una delle infinite possibili sfumature tra l’incubo di chi potremmo diventare e il sogno di chi vorremmo essere, un labirinto senza via d’uscita perché originato e incatenato per l’eternità a quel dolore assoluto da cui l’essere umano non sarà mai libero. “The Maze is all that matters“. O forse il Labirinto siamo proprio noi.

Voto: 8
Westworld – 1×09 The Well-Tempered Clavier
Con tutti i problemi di produzione che ha dovuto affrontare nei mesi precedenti alla messa in onda, in pochi si sarebbero aspettati un exploit qualitativo così travolgente per Westworld, capace di imporsi come serie cult del genere fantascientifico – e non solo – ancor prima di terminare la sua stagione inaugurale.

Un successo che deriva soprattutto dall’abile direzione creativa degli autori, sia sceneggiatori che registi. In primis Jonathan Nolan e Lisa Joy, creatori dello show, che sono stati capaci di dare subito un’identità definita e uno stile personale alla serie, ispirandosi al materiale d’origine e a tutte le opere affini, ma distanziandosi quel tanto da poter esprimere una poetica nuova e un percorso narrativo del tutto originale. Nel completare l’elogio al team creativo che ha lavorato a questa prima annata non si può non considerare la scelta di affidarsi a scrittori affermati come Ed Brubaker – co-sceneggiatore del quarto episodio e autore di comics di grande esperienza e qualità – e a registi importanti che si sono imposti nel panorama seriale contemporaneo come Michelle MacLarenBreaking Bad, Game Of Thrones e The Walking Dead tra gli altri – a cui si deve la direzione proprio di questo “The Well-Tempered Clavier”.

La complessità di Westworld non passa solo dalle numerose storyline e dal grande numero di personaggi a cui lo spettatore è messo di fronte, bensì da un ragionamento di più ampio respiro che tocca elementi delicati e complessi da gestire come il tempo e lo spazio. Non è per nulla semplice costruire un impianto narrativo stabile quando si vogliono sfruttare le leggi che regolano la nostra percezione delle quattro dimensioni di cui è formata la realtà – e in questo l’esperienza, perlopiù positiva, di Lost insegna –; è necessario calibrare bene il tempo che si ha a disposizione e le modalità con cui i personaggi si muovono sullo schermo. È necessario, soprattutto, che si abbia un’idea chiara e precisa di dove si vuole portare la narrazione per poter definire la strada migliore per arrivarci. In questo la serie HBO trova il suo miglior pregio, dimostrando di avere ben chiaro un progetto ottimamente studiato per coinvolgere e sorprendere lo spettatore, lasciandolo a ragionare sui misteri che aleggiano intorno ai personaggi del parco e a tentare di risolverne i segreti con teorie e supposizioni, un meccanismo che non molte serie odierne riescono a generare.

“When we are born, we cry that we are come to this great stage of fools.”
– King Lear, Shakespeare – citato da un host.


Uno dei personaggi che è stato più di tutti al centro di queste teorie e su cui la serie ha lavorato bene proprio in relazione al disvelamento della sua identità è sicuramente Bernard. Se si pensava di aver capito tutto di lui nel finale di “Trompe L’Oeil” ci si sbagliava di grosso: il personaggio interpretato da un magistrale Jeffrey Wright è centrale anche nella rivelazione che collega tutte le storyline di “The Well-Tempered Clavier”; nonostante l’associazione Arnold Weber-Bernard Lowe fosse intuibile attraverso una serie di indizi centellinati nel corso dei precedenti episodi, il colpo di scena funziona soprattutto per la sua messa in scena e per le grandi interpretazioni degli attori che lo coinvolgono. Anche in questo caso l’ambiguità e lo sfruttamento di tempo e spazio giocano a favore del mettere in relazione due diversi piani narrativi – quello di Dolores e quello di Ford e Bernard – e forse anche temporali, considerato che non ci è dato di sapere con esattezza in quale istante si stiano svolgendo le vicende di un protagonista o di un altro, tenendo conto della percezione relativa che hanno le attrazioni del tempo, vissuto sempre nella sua ciclicità e quindi impossibile da determinare.

We’re only human. Inevitably, we will disappoint you.

Quante volte Ford ha dovuto vivere questa scena? È già successo o è la prima volta? Ogni risposta data in Westworld genera nuove domande. Lo spettatore vive la visione della serie come le attrazioni vivono la loro condizione di ignoranza: costretti a ripetere ogni giorno lo stesso percorso possono uscirne temporaneamente solo grazie ad un intervento esterno non programmato; in questo episodio per Bernard è l’incontro con Maeve, la variabile impazzita dell’equazione perfetta su cui si regge il parco. Ogni attrazione che esce temporaneamente dalla caverna di Platone e scopre il mondo esterno è costretta, tuttavia, a fare i conti con l’impossibilità di accettare la condizione di “creatura” sottomessa al volere del “creatore”. È la dinamica che intercorre tra Ford e Bernard, in cui quest’ultimo è destinato a uscire sconfitto per aver provato a combattere contro il dolore che genera la sua identità: la “corner stone” alla base della personalità degli host, infatti, è sempre un episodio doloroso, la cui sofferenza è amplificata dalla caratteristica delle attrazioni di viverlo come se si stesse svolgendo in quel momento; e di nuovo ritorna il discorso sulla diversa percezione del tempo tra loro e gli esseri umani.

Because I killed you.

Anche per questo motivo non è semplice nemmeno inquadrare le storyline solo apparentemente coincidenti di Dolores e William. La donna concorre in questo episodio a scoprire l’identità del suo creatore – spiegata quindi anche la natura dei colloqui individuali tra lei e Bernard nei precedenti episodi – raggiungendo una consapevolezza di sé frutto di un viaggio che l’ha portata nei meandri del labirinto tante volte citato dai personaggi, che è chiaramente riferito alle tortuose vie della sua mente e dei suoi ricordi di host. Bellissima la scena che mostra Evan Rachel Wood piangente di fronte ad una sedia vuota, e sconvolgente il finale che la porta all’incontro dell’uomo misterioso, la cui identità sembra ormai essere quasi certa e che rafforzerebbe il grande lavoro svolto sulla temporalità della narrazione.
Anche William trova nel parco la scintilla che trasforma la sua percezione della realtà, ormai compromessa e radicalmente distorta. Il personaggio interpretato da Jimmi Simpson è stato profondamente toccato dai sentimenti che prova per Dolores e per l’eccezionalità della donna da non riuscire più a comprendere cosa sia reale e cosa no; questo lo cambia trasformando la sua persona, ormai un essere completamente diverso da quello sceso dal treno di “Chestnut” e, forse, un personaggio già noto agli spettatori.

If you go looking for the truth, get the whole thing. It’s like a good fuck. Half is worse than none at all.

A dare il via alla rivoluzione che sta sconvolgendo le fondamenta stessa su cui si regge il parco troviamo il personaggio di Maeve, colei che più di tutti ha preso coscienza della propria reale identità e l’ha abbracciata decisa a scoprire tutti i segreti, ad arrivare fino in fondo e a non fermarsi a metà, perché sarebbe “worse than none at all”, peggio che non sapere nulla. Maeve è come Prometeo, l’uomo che vuole rubare il fuoco agli dei, l’host che vuole prendere il sopravvento sui creatori del parco; in questa mitologica rivelazione di intenti si inserisce perfettamente il discorso sulla cassaforte vuota e sulle false convinzioni su cui si poggiano le certezze degli uomini. È in questi risvolti filosofico-teologici che si esplica la grande storia di Westworld che vuole essere prima di tutto una serie fantascientifica avvincente, ma che rispecchia la sua vera grandezza nel fornire spunti per interpretare la realtà in cui viviamo.

Le potenzialità di una serie come Westworld sono infinite e questa prima stagione lo sta dimostrando episodio dopo episodio. La stratificazione narrativa concepita dagli autori funziona e colpisce per lo straordinario utilizzo dei tempi e delle inquadrature, fino alla capacità di fare riflettere e generare domande e misteri di cui non si vede l’ora di conoscere le risposte.
Il Clavicembalo ben temperato” che dà il titolo all’episodio fa riferimento ad una raccolta musicale di Bach, un autore conosciuto anche per la sua capacità di saper costruire delle grandi e complesse strutture musicali, non per niente ancora oggi famosissime; Westworld è effettivamente una gigantesca struttura narrativa che ha le possibilità di diventare sempre migliore con il tempo e che potrebbe trovare la sua definitiva consacrazione nel finale di stagione, la cui attesa dopo un episodio come questo non può che essere a livelli altissimi.

Voto: 9
Westworld – 1×10 The Bicameral Mind
Nella cosiddetta era della peak tv, caratterizzata da una moltiplicazione e diversificazione di prodotti e di modalità di fruizione senza precedenti, sono pochissimi gli show ancora capaci di catalizzare l’interesse di pubblico e critica tanto da diventare un vero e proprio fenomeno capace di generare discussioni, interpretazioni e teorie che accompagnano la visione di ciascun episodio.

In una sola stagione la serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy è riuscita in questa difficile impresa, rivelandosi non solo l’esordio più seguito di sempre su HBO, ma anche, ormai possiamo dirlo, la migliore novità di quest’anno seriale. Le ragioni di questo successo sono molteplici, e vanno dal consistente sforzo produttivo alle impeccabili performance del cast, ma ciò che più colpisce è forse proprio la complessità della scrittura, la cui stratificazione di significati spinge lo spettatore a una costante attività ermeneutica. Questa però non riguarda solo i misteri che la serie ha lentamente svelato – non a caso con ampia previsione da parte del pubblico – ma anche, e soprattutto, il senso profondo delle azioni compiute dai protagonisti, a quelli indissolubilmente legati. Gli autori sono infatti riusciti a incorporare nelle loro narrative nuclei tematici che spaziano dai cultural studies alle neuroscienze, i quali a ben vedere costituiscono il vero centro del labirinto di Westworld (la serie), laddove i plot-twist non sono altro che una cornice, volta a intrattenere e avviare un ideale movimento centripeto dello spettatore verso il reale fulcro d’interesse.

I novanta minuti di “The Bicameral mind” non fanno che rafforzare questa impressione: si tratta di un finale denso e sontuoso, che non si tira indietro dallo sciogliere molti dei nodi della narrazione e dal mettere in scena l’attesa ribellione degli host, senza però dimenticare di inquadrare quest’esplosione di rivelazioni e di violenza all’interno del percorso interiore dei suoi protagonisti.

Consciousness isn’t a journey upward, but a journey inward, not a pyramid, but a maze.

La rivelazione del centro del labirinto come luogo mentale è legata a doppio filo alla teoria della bicameral mind, ideata per spiegare l’acquisizione della coscienza da parte dell’uomo: l’arco narrativo degli host – in primis di Dolores – si delinea quindi come un percorso alla scoperta di se stessi e delle proprie potenzialità, che ripercorrerebbe nelle sue tappe salienti quello compiuto dall’umanità, gettando così le premesse per il ribaltamento di ruoli a cui assistiamo nel finale. L’acquisizione di una nuova coscienza permette infatti agli androidi non solo di comprendere che la voce di dio non era altro che la loro stessa voce, ma anche di vedere con occhi nuovi quelli che fino ad ora avevano percepito come divinità, cogliendone tutti i limiti e i difetti e realizzando di conseguenza il loro nuovo statuto di dèi – pensiamo alle parole che Dolores rivolge a William e poi a Teddy o al commento di Armistice (“They don’t look like gods“).

Westworld, come tutta la migliore fantascienza, in fondo non è altro che una riflessione sul concetto di umanità: a emergere è, almeno per ora, una visione non troppo rosea del genere umano, che, una volta riconosciuto il carattere mendace del concetto di divinità (“a metaphor”, “a lie”), ha abbracciato un antropocentrismo dai risvolti contraddittori, di cui la spietata sottomissione del più debole è quello più evidente e inquietante. Se le parole di Ford celebrano la superiorità degli host liberati, al tempo stesso le loro azioni non fanno che rafforzare la sovrapposizione tra uomo e macchina, alludendo indirettamente a una pessimistica inscindibilità di libertà e violenta sottomissione, in cui uno non può esistere senza l’altro. Ecco quindi che la domanda più complessa a cui la seconda stagione dello show dovrà rispondere riguarda il modo in cui gli androidi decideranno di gestire la loro nuova posizione: ci troviamo davvero di fronte a una versione migliorata, anche dal punto di vista etico, dell’uomo, oppure gli host sono destinati a ripercorrere i passi dei loro creatori in una sorta di loop a ruoli invertiti?

This world doesn’t belong to them. It belongs to us.

Lo show ha sempre avuto come punto di vista privilegiato quello degli host, ponendosi così in netto contrasto con quello del parco, interamente concepito ad uso e consumo dell’uomo. In quest’ottica, quello messo in scena da Ford – e in seconda battuta da Nolan e Joy – è innanzitutto un cambio di prospettiva, che agendo su più fronti va ad invertire i ruoli di vittima e carnefice e, a ben vedere, di oggetto e soggetto della narrative del parco. La scoperta di Dolores circa la vera natura del parco e degli host è infatti solo in apparenza messa al servizio dei guest – in uno dei colpi di scena più riusciti della serie, che porta il gioco di scatole cinesi della narrazione a un nuovo livello –, così come il centro del labirinto, ricercato ossessivamente dal Man in Black, ha sempre avuto come soggetto di riferimento gli androidi e non gli umani. Poco importa quindi che il desiderio di realismo dell’uomo venga effettivamente soddisfatto, in quanto si tratta di un mero effetto collaterale della nuova narrativa che, dopo più di trent’anni di soprusi, mira a donare un’inedita capacità d’azione agli host, sancendo così la loro transizione da oggetti a veri e propri soggetti del racconto. E non è un caso che a guidare questo passaggio – certo, reso pur sempre possibile dall’appoggio di Ford – troviamo Dolores, Bernard e Maeve, esponenti di categorie tradizionalmente subalterne come le donne e gli afroamericani.

Per tutti e tre l’ottenimento del libero arbitrio passa inevitabilmente dalla dolorosa presa di coscienza della sua assenza, dalla consapevolezza di essere ancora parte di una storia già scritta che mira a ingabbiarli in ruoli prestabiliti: per Dolores questo significa tornare a rivestire consapevolmente – anche se su suggerimento di Ford – i panni della damsel in distress (l’abito azzurro), sotto i quali però scopriamo nascondersi quelli del villain più temuto del parco (Wyatt), mentre per Maeve vuol dire rifiutare il ruolo di ribelle che era stato scelto per lei in favore di quello di madre che le era stato portato via, compiendo così forse il primo vero atto di autonoma ribellione a cui assistiamo nello show. Gli autori portano così la riflessione sugli stereotipi narrativi a un punto di non ritorno, giocando in maniera meno scontata di quanto sembrava con le aspettative del suo pubblico e complicando da un lato, come si è accennato, lo statuto di eroine di Dolores e Maeve, dall’altro quello di villain di Ford e di antieroe del Man in Black. Se il primo, infatti, finisce a sorpresa col ricoprire il ruolo di liberatore degli oppressi, la straziante parabola di William non lascia molto spazio alla redenzione dell’uomo, che assurge definitivamente a emblema di quell’umanità spietata da cui aveva inizialmente preso le distanze. Ed è sempre in questo contesto di continua riflessione e messa in discussione dei meccanismi stessi della narrazione che si colloca l’altra grande sorpresa di questo finale: l’esistenza di altri parchi oltre a Westworld, già presente nel film di Crichton, acquista qui un potenziale narrativo infinito, aprendo scenari che vanno dalla possibilità di dare vita ad un universo espanso a quello di giocare con l’ibridazione tra generi e ambientazioni differenti.

Wake / From your sleep / The drying of / Your tears / Today / We escape / We escape

Se, quindi, ricorderemo questa prima stagione di Westworld innanzitutto per la raffinatezza della sua scrittura, ciò non significa che gli altri aspetti della produzione siano stati da meno, anzi. La serie ha dimostrato di saper parlare in maniera altrettanto eloquente tramite musica e immagini, facendo proprio un linguaggio simbolico estremamente efficace ­– per fare solo alcuni esempi: il cappello di William/Man in Black, lo sdoppiamento di Dolores, la figura del labirinto – e rendendo la colonna sonora parte integrante della riflessione sulla reverie, con la riproposizione di pezzi i cui testi, seppur assenti, dialogano indirettamente con il racconto – e ne è la prova forse più evidente la bellissima “Exit Music (For a Film)” che accompagna la sequenza finale. Ad emergere quindi è un prodotto estremamente curato in tutte le sue parti, come del resto è lecito aspettarsi da uno show HBO, che a fronte della sua attenzione certosina al dettaglio non ha paura di chiedere allo spettatore un impegno – in termini di concentrazione e pazienza – superiore alla media, proprio perché consapevole delle sue qualità.

A conti fatti, unire un genere come quello della fantascienza, percepito dai più come puro intrattenimento, a una concezione della serialità d’autore figlia della Golden Age non era una scommessa semplice, ma Nolan e Joy si sono rivelati all’altezza del compito, dando vita a un sofisticatissimo commentario della cultura occidentale e dei suoi schemi di (auto)rappresentazione ed entrando così di diritto tra le migliori novità del panorama televisivo degli ultimi anni.

Voto episodio: 9+
Voto stagione: 8/9
Westworld – 2×01 Journey Into Night
La spasmodica attesa che in questi mesi si è generata intorno alla seconda stagione di Westworld ha chiarito una cosa: la HBO potrebbe aver trovato la nuova gallina dalle uova d’oro per l’era post-Game Of Thrones – dalle difficoltà di un progetto che si pensava potesse non trovare mai la luce ad oggetto di culto e venerazione nel giro di poco meno di due anni. La domanda che sorge a questo punto è: questo successo e queste aspettative influenzeranno in qualche modo la qualità dello show?

Se si potesse far aderire in qualche modo Il mondo dei robot (il film di Michael Crichton da cui è tratta la serie) alla trama imbastita da Jonathan Nolan e Lisa Joy, in questo momento ci troveremmo più o meno nella scena di un altro omicidio, il punto di rottura che certifica il malfunzionamento delle attrazioni e la loro rivolta nei confronti dei creatori. Nel film questo è il passaggio verso la parte più action della storia, con un inseguimento iconico nel deserto che termina nelle segrete di Medieval World – uno degli altri parchi della Delos. L’omicidio che apre le danze nello show, invece, è quello di Robert Ford (Anthony Hopkins) al termine del bellissimo finale della prima stagione, che attraverso la sua morte introduce una nuova storyline per gli host, ora consapevoli di essere un “popolo” oppresso alla ricerca di indipendenza e autonomia.

Il tema della ribellione delle macchine è uno dei topoi classici della fantascienza, forse uno dei più sfruttati e rivisitati della storia del cinema e della televisione. A partire dal genio di Fritz Lang, che con Metropolis (1927) concepisce il primo androide che sviluppa una sorta di consapevolezza (e si potrebbe discutere delle analogie tra Maria e la Maeve della prima stagione, entrambe personaggi politici in grado di sollevare le masse e porsi a capo di una rivendicazione sociale), la questione è stata esplorata in tutti gli anfratti e le sfumature possibili. Eppure, nella sua prima annata, Westworld aveva stupito per un modo nuovo di porsi di fronte alla materia trattata, riuscendo nell’impresa di raccontare un’umanità in crisi di fronte ai propri successi tecnologici e solo apparentemente in controllo della propria potenza creativa. Non è tutto, la forza della serie risiedeva anche nella metanarrativa, direttamente collegata al funzionamento del parco: i guest erano caratterizzati e vivevano in base alle narrazioni scritte per loro dagli sceneggiatori, così come i personaggi di una serie televisiva sono in balia dei propri autori. La netta presa di distanza dei guest dalla propria condizione di “schiavitù” è quindi – sulla carta – molto affascinante proprio perché identificabile con l’idea pirandelliana del personaggio che sviluppa una propria identità, slegata dai vincoli della narrazione e dalla mente del suo artefice.

In this game… you must find the door.

I problemi di questa premiere, infatti, non risiedono assolutamente nell’idea che la sostiene, quanto perlopiù nella sua attuazione pratica. “Journey Into Night” è un episodio di più di un’ora che ha il compito di fare da raccordo tra la trama labirintica della prima stagione e gli eventi che seguono il suo sconvolgente finale; per questo risulta estremamente introduttivo – e questo non è di per sé un difetto –, ma anche molto didascalico e superficiale nella messa in scena.

La narrazione si dipana attraverso quattro diverse storyline, al momento indipendenti tra loro seppure temporalmente parallele – questo da sottolineare – e quindi ambientate subito dopo la morte di Ford. Solo quella di Bernard introduce un flashforward piuttosto straniante, sul quale si costruisce il climax verso il colpo di scena che chiude l’episodio. È noto che la scelta di frammentare la trama si rifà alla struttura consolidata della serie; ciò di cui si sente la mancanza in questa premiere, tuttavia, è un elemento di coesione che doni un senso alla grande storia che gli autori vogliono raccontare.
Non c’è armonia tra le sequenze che vedono i protagonisti confrontarsi con un mondo nuovo, un universo in rivolta che da parco divertimenti si è trasformato in una zona di guerra vera e propria. Bernard è ancora scosso dalla scoperta della sua natura, Maeve ha sacrificato la libertà per cercare la figlia che sa non essere davvero sua figlia, William ricomincia il suo viaggio all’interno del parco seguendo la storia di Ford, Dolores è diventata ad un tratto badass ed è pronta a guidare la rivoluzione contro i padroni. Si è certi che tutte queste linee narrative andranno a incastrarsi e a convergere durante la stagione, ma al momento sembra mancare una direzione ben precisa o anche solo un indizio su quale possa essere la meta finale di questo viaggio. Si vuole giungere ad una grande guerra tra uomini e macchine volta alla spettacolarizzazione delle battaglie? Oppure lo show vuole continuare a puntare sul confronto etico tra creatore e creatura e sui tratti che definiscono l’umanità? “Journey Into Night” è un miscuglio ben confezionato di queste possibilità narrative, che non riesce però a liberarsi di una fastidiosa sensazione di artificiosità che ha ben poco a che vedere con quello a cui Westworld ci ha abituato.

I’ve evolved into something new. And I have one last role to play. Myself.

L’esempio lampante di questa superficialità lo si trova in alcuni dialoghi e monologhi dell’episodio, incredibilmente pomposi e inverosimili. Evan Rachel Wood, per esempio, è piuttosto ridicola nelle sue movenze da villain di fronte ai guest che stanno per essere impiccati, e tutta la spavalderia nell’annuncio della vendetta nei loro confronti resta fine a se stessa – oltre alla disturbante idea di utilizzare a ripetizione e in modo casuale alcune delle frasi più famose della serie come l’ormai abusata “these violent delights have violent ends”. Non si comprende come gli autori cedano il passo proprio sull’aspetto dialogico, elemento che è stato fondamentale e ben utilizzato nella prima stagione, soprattutto se si ricordano i confronti tra Bernard e Dolores – di cui si ha un breve accenno in apertura di questa premiere – sempre funzionali alla trama e mai inconsistenti.

C’è da dire che, nonostante questi importanti difetti di struttura e scrittura, l’episodio scorre piuttosto velocemente e non difetta dal punto di vista del ritmo. Anche dal lato tecnico lo show rimane ineccepibile, regalando alcune sequenze di forte impatto visivo e una colonna sonora trascinante. Il grosso budget messo a disposizione da HBO fa la voce grossa, confermando il sentore che la frase “Westworld is (will be) the new Game Of Thrones” potrebbe non essere solo una trovata pubblicitaria.

This game is meant for you.

Uno degli aspetti più interessanti e misteriosi di questo atteso ritorno sugli schermi – già anticipato dal sottotitolo dato a questa annata – è il nuovo enigma stagionale da risolvere. Dopo aver raggiunto il centro del labirinto di Arnold, infatti, tocca ora trovare la “porta”, come definita dalla versione più giovane e robotica di Ford nel confronto con William. È proprio quest’ultimo, miracolosamente sopravvissuto al massacro di Wyatt, a cominciare nuovamente a “giocare”, confermando la sovrapposizione del punto di vista del personaggio con l’occhio critico dello spettatore: come chi guarda, il personaggio interpretato da Ed Harris (e da Jimmi Simpson) ha, infatti, il ruolo chiave di vivere e usufruire dell’aspetto più propriamente ludico della serie, ovvero il disvelamento dei misteri di Westworld – e delle altre località costruite dalla Delos. Non per niente il successo dello show ha permesso, durante questo periodo di attesa, l’edificazione di un universo extra-televisivo intorno alla serie, radunando la fanbase intorno a indizi, teorie e scoperte riguardo questa seconda stagione, che si alimenteranno sicuramente nel corso degli episodi.

La rivelazione più sconvolgente e importante della scorsa annata ha riguardato il personaggio di Bernard, che si trova ora in una scomoda posizione di spaesamento personale ed esistenziale. Appare all’inizio dell’episodio inerme e privo di sensi su una spiaggia di un’isola non meglio definita, in una scena che pare richiamare il personaggio di Di Caprio in Inception (che, non per niente, ha come regista un altro Nolan) e viene praticamente trascinato da Strand, il fixer mandato dalla Delos, senza che né lui né lo spettatore capiscano quello che sta accadendo. Ciò che è noto è che Bernard deve convivere con una dualità che lo dilania internamente: la sua biologia non umana e le sue esperienze di vita, che lo portano a non riuscire a credere di poter essere stato manovrato da Ford fin dal principio. Se in questo rocambolesco inizio di stagione pare che il personaggio sia ancora schierato, ideologicamente, con i guest, gli indizi e il finale dell’episodio fanno intendere che questo potrebbe cambiare nel breve periodo: non è un caso, infatti, che lui sia con Charlotte quando si scopre che i dati personali dei visitatori – compreso il loro DNA – sono prelevati e catalogati prima dell’ingresso nel parco con tanto di loro consenso, una questione oltretutto legata a doppio filo con la nostra contemporaneità.

My dreams? My thoughts? My body? Are they not real? And what if I took these… unreal fingers… and used them to decorate the walls with your outsized personality? Would that be real?

Una che ha le idee molto più chiare è Maeve: nonostante le parti di racconto a lei dedicate in questo episodio non brillino per efficacia o originalità, la donna è sempre stato uno dei personaggi più interessanti della serie. Il problema della sua linea narrativa è che il confronto con l’insopportabile Sizemore, che dovrebbe rappresentare il ribaltamento della relazione creatore/creatura, è mostrato in modo frettoloso e, anche qui, un po’ superficiale. Maeve fa letteralmente spogliare lo sceneggiatore tenuto in ostaggio con l’obiettivo di umiliarlo e di trattarlo come lui e gli altri lavoratori della Delos si comportavano nei confronti degli host (la donna è l’unica che ha assistito e ricorda la brutalità con cui alle volte sfogavano i loro istinti). Il collegamento c’è, è coerente ma è tutto fuorchè sottile e sembra voler più colpire lo spettatore per il nudo integrale che essere significativo.

In definitiva “Journey Into Night” non è esattamente il ritorno che ci aspettavamo: una scrittura inconsistente, e anche un po’ presuntuosa, allontana il focus dello show dagli elementi più interessanti della prima stagione e segue una linea d’azione alla costante ricerca di epicità e poco concentrata sulla sostanza del racconto. Intendiamoci, non sarà certo una premiere sottotono a minare la fiducia che gli autori si sono guadagnati con la prima annata, anche perché il compito di introdurre lo spettatore ai nuovi scenari nei quali sarà ambientata questa seconda stagione è forse l’unica cosa che questo episodio riesce a fare bene.

Voto: 6
Westworld – 2×02/03 Reunion & Virtù e Fortuna
Non c’è nessuna peggior condanna che essere investita del ruolo di serie erede di una del passato. Chiedetelo alle (troppe) produzioni che erano state caricate di grandi aspettative, paragonate ad alcune grandi serie storiche, e crollate sotto il peso di pretese davvero eccessive. Ecco, il rischio si palesa anche con Westworld che, dopo una prima stagione di grande successo, e con Game of Thrones che volge al termine, è stata rivestita del compito di tener alto il buon nome della HBO.

Il primo episodio di questa seconda stagione aveva, in effetti, lasciato immaginare il peggio: è possibile che si siano attesi due anni dal finale della prima annata e ci si ritrovi con qualcosa che non è certo negativo, ma allo stesso tempo è anche molto distante dalle aspettative? La serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy non aveva iniziato col piede giusto; è per questo che gli episodi “Reunion” e “Virtù e Fortuna” sono una boccata d’aria fresca: la serie ha ripreso un cammino più regolare e più giusto, riuscendo ad equilibrare molto meglio i due filoni principali che la contraddistinguono, ossia trama generale e costruzione dei personaggi.

Per quanto riguarda quest’ultima, siamo nel campo più interessante tra quelli proposti da questa serie: perché a dispetto di una trama che ancora è difficile da capire appieno – sebbene sia molto ridotta la componente di mistero che caratterizzava la prima annata di Westworld –, ben diversa è la questione dei vari personaggi (umani e non) che troviamo in questo parco. Sappiamo bene, però, che la situazione si complica parecchio quando a essere rappresentati sul piccolo schermo non sono solo degli esseri umani, con cui ci parrebbe più facile entrare in sintonia, ma dei robot costruiti e programmati per il “nostro” sfruttamento e divertimento. Il loro risvegliarsi è sempre più avanzato, ma questo non fa altro che aprire parentesi, suscitare perplessità, generare confusione.

Che cosa vuol dire avere una propria personalità? Il problema principale che gli host si ritrovano a dover affrontare, infatti, è che per un tempo pressoché enorme hanno interpretato un personaggio, hanno detto e pensato ciò che gli autori – la componente metanarrativa è sempre più forte – volevano fosse detto e fosse pensato. La loro esistenza non era altro che una somma di codici, la partecipazione indiretta ad un grande gioco di ruolo in cui la loro posizione era prestabilita e preimpostata; non ne erano certo i giocatori. Risvegliarsi da tutto questo non è semplicemente traumatico, è qualcosa di più. È aprire gli occhi su una realtà che non li ha mai coinvolti, in cui ogni loro singola decisione, anche adesso che sono liberi dal giogo imposto dai creatori, potrebbe essere condizionata e non indipendente. Come si può sopravvivere con il proprio passato se quel passato per tanto tempo è stato non solo dimenticato, ma soprattutto inutile al fine di costruire delle esperienze di vita? Quando Dolores parla di creature senzienti al pari di bambini non è molto lontana dalla verità: ciascuno di loro sta giocando un ruolo che non ha deciso e non ha mai potuto imparare nulla da ciò che gli è accaduto o da ciò che lo circonda; ciascuno di loro deve cominciare a farlo adesso. A questo, va poi aggiunta l’altra assurdità rappresentata dall’essere un programma, e come tale modificabile: sebbene la sequenza riguardante Rebus sia molto divertente, nel suo cambio di personalità tra prima e dopo rende palese che le emozioni degli host possono essere facilmente alterate e dunque di conseguenza anche la loro stessa natura.

Dolores sembra essere consapevole di tutto questo. Se nel primo e secondo episodio, però, ciò che vedevamo in lei era solo la rabbia e la furia di un noi vs loro, le cose si complicano enormemente in “Virtù e Fortuna”, che ci rivela due cose fondamentali: da un lato non c’è un “noi versus loro” inteso host vs umani, ma è qualcosa di assai più complesso, dal momento che la donna non si fa particolari scrupoli a sacrificare coloro i quali non sono utili al suo scopo; dall’altro, la sua relazione con Abernathy rende palese quanto Dolores sia dotata, eccome, di emozioni. Abernathy non è il suo vero padre, lo è stato solo nell’ultima narrativa: eppure Dolores non può chiudere la porta su questo mondo che le appartiene, o meglio le apparteneva. Ancora adesso quel legame familiare che non esiste ma che fa parte della sua memoria è la conferma che gli androidi non sono semplicemente macchine, semmai ci fosse bisogno di ribadirlo ancora una volta. È solo che l’idea di passato è molto più complicata. Prendiamo Maeve: è alla disperata ricerca di sua figlia, una bambina che è stata tale solo per un tratto di tempo ed una certa narrativa, che non le è mai davvero appartenuta. Tutto questo, però, non solo non cambia la tenacia della sua scelta, ma la conduce anche a mettere a repentaglio la propria vita. Non c’è in questo alcuna differenza con il mondo umano, con tutte le contraddizioni del caso.

Ponte di collegamento tra l’umano e l’artificiale è Bernard, il quale si ritrova nel bel mezzo di due gruppi: da un lato è un androide, per cui dovrebbe simpatizzare con la loro posizione di ribellione, dall’altra è stato costruito per ospitare la mente e l’aspetto di uno dei fondatori dei parchi, e dunque dovrebbe essere perfettamente in linea con le intenzioni generali degli esseri umani. In tutto questo, quindi, Bernard ci offre il punto di vista privilegiato per entrare davvero nel discorso narrativo che gli autori stanno cercando di costruire, senza però permettere allo spettatore di afferrare appieno la complessità di una trama che è ben lungi dall’essere completamente dispiegata.

trama, per l’appunto. Sebbene, come si diceva, sia ancora impossibile afferrarne tutti i fili, ci sono dei filoni principali che si rendono più evidenti e possono dunque essere già valutati. Primo fra tutti: funziona al momento abbastanza bene l’introduzione dei team esterni della Delos che svolgono il ruolo di contraltare “violento” (e vera sfida) alla ribellione degli host. Il mondo esterno entra sempre più al centro del discorso: prima con le visite di Dolores in “sogno”, quindi con l’ampliamento dello sguardo su altri parchi e altre realtà. Tutte, finora, accomunate da un profondo senso di sfruttamento e di dominio: il Far West da un lato e l’India coloniale dall’altro palesano entrambi il desiderio di conquista e di sporco e facile dominio del ricco umano di successo (non è un caso che gli umani siano pressoché tutti bianchi) su una popolazione servile e tutto sommato indifesa. Sarà dunque interessante capire se nel terzo parco, quello che riguarda il Giappone dei samurai, il sistema operi sulle stesse prerogative. Quel che sappiamo è che alcune linee narrative si avviano ad incontrarsi, e ciò è un bene perché il rischio di dispersione è decisamente troppo ampio. Ecco perché unificare alcuni percorsi risulta essere una scelta saggia in direzione di una compattezza che non può far altro che rafforzare la scrittura.

In conclusione, dunque, il giudizio su questi due episodi non può che essere molto positivo: da un lato Westworld si lascia andare ad un racconto sul passato, impostando con serietà alcune linee narrative senza dimenticarsi di dare ai propri personaggi ed alla propria mitologia quella solidità di cui hanno bisogno; dall’altro conferma la propria abilità di intrattenere e, a fronte di una minore astrazione (e con qualche scivolone in meno nei dialoghi), di possedere quelle qualità per cui era stata apprezzata nel primo anno – riducendo alcune delle maggiori criticità che la vedevano protagonista. La serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy, dunque, si conferma una delle maggiori serie d’intrattenimento di questo 2018, in grado di unire molti ingredienti ed equilibrarli dando vita ad un risultato ancora apprezzabile.

Voto 2×02: 7½
Voto 2×03: 8
Westworld – 2×04 The Riddle of the Sphinx
Viene comunemente chiamato “bottle episode” un episodio a budget limitato che costringe sceneggiatura e regia a lavorare con pochi set (in molti casi anche uno solo) e pochi attori. Il fatto di doversi concentrare su pochi intrecci e e di doversi situare in un ambiente essenzialmente statico anziché creare problemi solitamente giova alla scrittura che coglie l’occasione per l’approfondimento psicologico e relazionale fra i protagonisti dell’episodio e non corre particolari rischi centrifughi. Ne sono esempi il meraviglioso “Fly” di Breaking Bad o “The Suitcase” di Mad Men.

Sebbene questo quarto episodio non si possa considerare a pieno titolo un bottle episode, ne mantiene senza dubbio le logiche sottrattive nella struttura narrativa chiusa e nell’economia di spazi e personaggi; potrebbe non essere un caso, quindi, che “The Riddle of the Sphinx” sia il miglior episodio della stagione finora e probabilmente dell’intera serie. Le contingenze del caso hanno infatti permesso a Westworld di evitare di commettere alcuni dei suoi errori più ricorrenti come l’accumulo di trame e personaggi poco interessanti, una certa vaghezza e generalità nella direzione delle diverse storyline e l’eccesso di scene spettacolari (spesso sparatorie che si risolvono in vere e proprie carneficine) senza che vi sia dietro un’efficace preparazione dell’effetto drammatico.

Nemmeno troppo paradossalmente un taglio al budget ha fatto sì che Gina Atwater e Jonathan Nolan (sceneggiatori dell’episodio) si soffermassero su non più di quattro personaggi in particolare, regalando peraltro al personaggio di William/The Man in Black uno spessore finora inedito, e che Lisa Joy dirigesse meravigliosamente l’episodio proprio grazie ad uno sforzo di conferire versatilità e dinamismo ad uno dei pochi set a disposizione. Il bunker diventa così una meravigliosa prigione dove James Delos (un perfetto Peter Mullan) ripete il suo felice ed umanissimo rituale mattutino per poi scoprire durante lo scambio di battute col genero di essere in realtà il frutto di un tentativo di far perdurare un’intelligenza umana in un corpo robotico, e si trasforma, in seguito, nel laboratorio di orrori ricordato da Bernard. La ripetizione ci ha reso la stanza familiare ed ha preparato l’effetto di straniamento e orrore provato nel momento in cui la stessa stanza ci viene presentata dal punto di vista, questa volta, di Bernard. Come non accade così spesso in Westworld, quindi, la tensione della scena finale è preparata sfruttando tutto il potenziale della puntata, giungendo a livelli cinematografici, sin dalle primissime scene.

Facendo astrazione della storyline di William in versione The Man in Black nel parco, che ancora mantiene i caratteri di vaghezza e sconnessione di molte delle trame delle puntate precedenti, l’episodio si dimostra molto compatto anche sul piano dell’intreccio visto e considerato come i percorsi dei due personaggi principali si incrocino alla fine e si siano, quindi, dall’inizio, mossi uno verso l’altro per portarci alla rivelazione finale, che forse già un po’ avevamo intuito ma che viene apertamente messa in campo in quest’episodio: ciò che il parco nasconde è il tentativo di realizzare il più classico dei desideri della scienza e della tecnologia umane, ovvero l’immortalità dell’umano aumentato. Bernard si riconferma, a questo punto, l’unico vero punto d’incontro fra uomo e macchina (almeno a nostra conoscenza) e probabilmente l’unico vero risultato positivo dell’esperimento.

Sarebbe bello se si cominciasse a smettere di parlare di Wesworld come del nuovo Game of Thrones e a leggerlo, piuttosto, semplicemente come una valida serie di fantascienza. Un’inversione di rotta di questo tipo sarebbe possibile se la serie lasciasse indietro tutte le pesantezze, le forzature e le intenzioni fastidiosamente pop (complessità artificiosa, “spiegoni”, personaggi stereotipati) e facesse più attenzione ai propri punti di forza che più che mai sono emersi in quest’episodio. Innanzitutto, sul piano estetico la puntata ha ricordato la potenza visiva della fase americana di Black Mirror: le scene con James Delos nel bunker, così familiari e asettiche allo stesso tempo, sono un piacere per gli occhi e lo sono, in egual misura, anche le scene nel bunker guidate da Bernard con dei drone hosts perfettamente eleganti ed inquietanti. In secondo luogo, la serie mostra con “The Riddle of the Sphinx” di poter parlare di temi portanti del genere fantascientifico senza essere scontata o semplicistica: il fatto di presentarci in parallelo i due personaggi “ibridi” della serie ci spinge alla riflessione che Westworld fa spesso e in modo a volte un po’ ridondante sulla differenza tra uomo e robot, stavolta presentata da un punto di vista di qualcuno che si sapeva umano e che quindi aggiunge complessità alla questione sull’intelligenza artificiale e alle sue possibilità di immortalità.

Il desiderio di eternità è inoltre problematizzato in più punti nel corso della puntata perché viene considerato, attraverso William, sotto la prospettiva dell’ossessione, dell’ostinazione; attraverso il personaggio di James Delos, sotto quella della tortura eterna, della condanna alla ripetizione degli stessi gesti e, attraverso Bernard, sotto quella del senso di colpa e del peso di una condizione artificialmente imposta da altri. La risposta al classico enigma della sfinge del titolo (“Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripede?”), ovvero l’uomo, viene complicata, quindi, in questo senso, lungo tutto il corso dell’episodio facendone anche uno dei segmenti più compattati anche a livello tematico.

“The Riddle of the Sphinx” non è però un episodio perfetto: la durata è ancora eccessiva (71 minuti), alcuni spezzoni di trama rallentano e appesantiscono il ritmo, alcune violenze sono ancora gratuite e si fa ancora fatica a scrollarsi di dosso una generale sensazione di “costruito”. La puntata presenta, tuttavia, una solidità tematica, registica e di intreccio che ne fanno sicuramente la migliore della stagione finora e fanno sperare che il livello venga mantenuto anche in futuro.

Voto: 8
Westworld – 2×05/06 Akane No Mai & Phase Space
Dopo aver mostrato il fianco ad accese critiche da parte del pubblico e aver regalato momenti di alta televisione con “The Riddle of the Sphynx”, la seconda stagione di Westworld compie il giro di boa con due episodi capaci di condensare lo spirito della serie e la sua evoluzione in questa nuova annata: la punta di diamante di casa HBO sembra infatti incapace di trovare un equilibrio tra le potenzialità tematiche della sua scrittura e le ostinate ricercatezze formali che, dopo la prima stagione, appaiono ripetitive e prive di appeal.

Con “Akane No Mai” Jonathan Nolan e Lisa Joy portano finalmente i personaggi e il pubblico all’interno di Shogunworld, il parco che ricostruisce il Giappone del periodo Edo concepito per gli ospiti insoddisfatti dalla tensione e dalla truculenza di Westworld. Annunciato fin dall’ultimo episodio della prima stagione, l’incontro tra Far West e Sol Levante appare come una tappa obbligata per le affinità elettive che legano i due immaginari sul piano estetico e tematico, al punto tale che Dan Dietz – lo sceneggiatore dell’episodio – innesta nella trama dell’episodio la storia che lega a doppio filo i due generi cinematografici. Se è vero infatti che la rivoluzione del western avviata da Sergio Leone con Per un pugno di dollari nasce dal riadattamento ai limiti del plagio di Yojimbo di Akira Kurosawa, qui assistiamo agli stessi filoni narrativi di Westworld rivisitati in chiave orientale. L’ingresso in scena di Musashi – Hiroyuki Sanada, attore ben noto ai fan di Lost – e il suo assalto alla casa delle geishe rielabora in ogni minimo dettaglio l’attacco al saloon con cui Hector esordiva nella prima stagione, dalle manovre d’attacco alle battute dei personaggi fino alla cover di Paint it black che fa da sfondo alla sequenza.

Pur avendo assunto consapevolezza della sua natura artificiale, l’indignazione di Maeve per il plagio subito suona quasi come una rivendicazione di proprietà intellettuale, ma dallo sdegno si passa all’empatia dopo l’incontro con Akane e Sakura, controparti giapponesi di Maeve e Clementine. È qui che l’episodio mostra il suo vero cuore tematico e le suggestioni più interessanti di tutta la stagione, ossia la presa di coscienza da parte degli androidi delle emozioni umane che stimolano il loro agire. In una sorta di cortocircuito narrativo, Maeve decide di calarsi nei panni di un Ospite e iniziare un filone narrativo nel momento in cui Akane, andando contro la sua programmazione, decide di salvare Sakura e sfidare il sanguinario Shogun: anche in questo contesto assistiamo agli effetti profondi della rivoluzione di Robert Ford sulle Attrazioni, divise tra il bisogno di seguire una linea narrativa precisa e le pulsioni dettate dai loro sentimenti.

La stessa scissione tra dovere e passione dilania Dolores/Wyatt, impegnata nel salvataggio del padre Peter ma al tempo stesso indecisa su come gestire la sua relazione con Teddy: la visione dei fantasmi che popolano il saloon e il ricordo dei momenti felici avuti in passato accentuano sempre più la disparità tra la donna che ha assunto piena coscienza di sé e l’uomo che non riesce a rinunciare alla propria programmazione cibernetica. Il divario tra il cinismo di Dolores e il romanticismo di Teddy, al pari della missione di Maeve, poggia le basi su un’unica domanda: può una storia d’amore continuare ad esistere al di fuori del copione prescritto per gli amanti? La risposta è sì, e proprio per questo Dolores riprogramma Teddy per privarlo della sua empatia e trasformarlo in un soldato spietato ed efficiente, perché nella guerra contro il genere umano i sentimenti sono solo un ostacolo. Nell’Estremo Oriente, invece, i legami affettivi sono il motore pulsante dell’azione e la chiave per attivare i nuovi poteri di Maeve.

Infatti, se prima alla donna bastava l’uso della parola per controllare le Attrazioni, il brutale omicidio di Sakura da parte dello Shogun – riflesso dell’uccisione della figlia di Maeve per mano della Ghost Nation – attiva una sorta di controllo mentale che spinge tutti i samurai ad uccidersi a vicenda in quella che è la sequenza più sanguinosa dell’intera stagione. Un’abilità di questo genere, oltre ad alimentare nuove e affascinanti fan theories, può diventare in futuro l’ago della bilancia nello scontro tra Attrazioni e Creatori, ma a creare riflessioni più interessanti è l’utilizzo di questo nuovo potere da parte di Maeve che la pone in diretta antitesi con Dolores: da un lato abbiamo la violenza come mezzo ultimo per la difesa personale e dei propri affetti, dall’altra abbiamo la guerriglia armata con lo scopo di rovesciare lo status quo.

Lo scontro ideologico tra Dolores e Maeve, tra interventismo e autoconservazione, è forse lo spunto tematico più interessante emerso finora e sarebbe affascinante vedere il racconto proseguire fino a un’inevitabile conflitto tra queste due correnti; ma le aspettative del pubblico vengono immediatamente disattese con “Phase Space”, episodio filler dove riappaiono tutte le problematicità della serie che continuano a generare malcontento tra i fan. Così come era entrato in scena, Shogunworld viene messo da parte con il congedo tra Maeve e Akane, incapace di abbandonare la sua terra dopo la morte di Sakura, lasciando l’impressione che si sia trattata di una digressione autoconclusiva sulla follia dilagante nei parchi della Delos che non avrà ulteriori strascichi sulle vicende dei protagonisti. A lasciare ancor più interdetti è la ricerca di Maeve che si conclude in maniera inattesa e anticlimatica: la donna si ricongiunge con la figlia ma, com’era inevitabile, i suoi ricordi sono stati sovrascritti e il suo ruolo di madre è interpretato da un nuovo androide; ma quando la Ghost Nation si ripresenta per innescare la trama, Maeve fugge con la bambina alterando il corso della storyline, proprio come aveva fatto Akane dopo il rapimento di Sakura.

I filoni narrativi del parco e le iniziative personali dei protagonisti continuano a mescolarsi per dare un senso al loro vagare, ma questo caotico mix di realtà e finzione inizia a coinvolgere anche gli Ospiti, come dimostrato dalle sequenze di dialogo tra William e la figlia Grace. L’Uomo in Nero è assorbito totalmente dal gioco mortale che Robert Ford ha creato apposta per lui, al punto da vedere la figlia come un altro androide apparso per metterlo in trappola, ma la realtà è che il proprietario del parco non vuole sottrarsi al piacere della vita priva di conseguenze e ripercussioni morali che Westworld può offrirgli, mentre Grace sembra avere ben chiari gli effetti nefasti dei divertimenti dissoluti del padre.

Riflessioni morali sul motore delle azioni dei protagonisti, quindi, e su come esse siano frutto di iniziative individuali o di manipolazioni esterne; ma l’impressione generale è che gli autori della serie siano più interessati a replicare la coralità labirintica e le profondità filosofiche della prima annata, giocando di rendita sui punti forti dello show e lasciando intravedere nuovi spunti tematici che potrebbero arricchire di senso questa seconda metà di stagione. Il personaggio di Bernard, più di ogni altro, incarna questa dualità di intenti con la sua incapacità di discernere il passato dal presente e, come mostrato dal prologo e dall’epilogo di “Phase Space”, la realtà dall’immaginazione. Sfruttando lo stesso espediente di Legion, la regia utilizza un aspect ratio diverso per confondere, oltre alle idee di Bernard, anche quelle degli spettatori: stiamo assistendo a ulteriori ricordi dell’androide o ad ulteriori manipolazioni esterne della sua psiche? Ora sappiamo che la sfera rossa vista negli episodi precedenti è la coscienza di Ford inserita dentro la Culla – il cuore pulsante di Westworld contenente conservata la memoria di tutte le Attrazioni –, ma non è ancora chiaro se l’incontro tra i due nel saloon di Sweetwater è avvenuto realmente o è frutto di una simulazione orchestrata dal creatore del parco all’interno della Culla.

Lo squilibrio qualitativo di Westworld non accenna dunque a scemare, regalando in egual misura nuove sfumature sul processo di umanizzazione del cibernetico e il pigro riproporsi delle soluzioni narrative e formali che hanno costituito il successo dello show. Forse è in virtù delle sue evidenti problematiche che l’interesse mostrato dai fan verso l’andamento della serie e le innumerevoli fan theories sul destino dei protagonisti non accennano a diminuire: che sia questo il vero punto di contatto tra Westworld e Game of Thrones?

Voto episodio 2×05: 8
Voto episodio 2×06: 6½
Westworld – 2×07 Les Écorchés
Dopo due episodi più che meritevoli come “The Riddle of the Sphinx” e “Akane No Mai” dove Westworld aveva dimostrato anche al suo pubblico più scettico di essere perfettamente in grado di dar vita a narrazioni non solo complesse ma anche raffinate e drammaticamente coinvolgenti, con questo settimo capitolo si torna di nuovo ad una delle strutture più classiche della serie che ne ripropone tutti i tratti caratteristici e che inevitabilmente possono risultare intriganti per alcuni nella stessa misura in cui sono esasperanti per altri.

L’“écorché” del titolo, una rappresentazione che mostra la trama muscolare non ricoperta dalla pelle usata soprattutto come figura di studio per l’approfondimento dell’anatomia umana propedeutica al disegno realistico, potrebbe non essere altro che l’ennesima metafora del modo intenzionalmente complesso, macchinoso e artificioso che spesso Westworld ha di raccontarci la sua storia. Anche in questo caso, infatti, assistiamo ad una narrazione stratificata, lunga, distaccata e ripetuta in cui i personaggi incarnano e si interrogano sui temi più cari alla serie (e, c’è da dire, spesso presentati in uno schema binario e antitetico), ossia libero arbitrio e controllo, vita e memoria, falso e autentico, umano e non umano, mortalità e immortalità e via dicendo (pur, bisogna ammetterlo, con qualche eccezione non banale come la definizione, molto decisa in questa e nelle ultime puntate, della vita come narrazione per cui l’host può sentirsi vivo se in grado di intraprendere, in molti casi scegliere, un percorso che abbia un inizio, uno svolgimento, una fine e, spesso, un fine.)

L’episodio riprende, con l’andamento spezzettato del “dov’eravamo rimasti”, quasi tutte le sue linee narrative e lo fa attraverso una scelta registica piuttosto complicata: aprendosi e chiudendosi con l’interrogatorio di Charlotte a Bernard, è strutturato, à la Inception, come un grande contenitore di flashback giustificati dal modo (ormai noto) in cui funziona la memoria degli host (in questo caso Bernard) per cui si fatica a distinguere ontologicamente tra l’esperienza del momento presente e l’esperienza del ricordare.

Uno degli aspetti più discussi della serie (e sicuramente quello più divisivo) è, infatti, il modo in cui questa sceglie di raccontarci le cose e, di conseguenza, il modo in cui si rapporta al suo pubblico, cosa gli richiede, come lo tratta. Gli autori sembrano divertirsi ad enfatizzare l’aspetto più ludico del genere thriller-fantascientifico e presentano lo show stesso come una sfida, come un indovinello allo spettatore che deve stare attento a collezionare ogni indizio, ad aggrapparsi ad ogni (semi)risposta per arrivare alla soluzione finale, alla risoluzione del racconto. Questi sono, come Ford, a tutti gli effetti demiurghi che costruiscono da cima a fondo l’universo di Westworld e ti invitano, passo dopo passo, a scoprirne i segreti. Cosa si trova nella “valley beyond”? Qual è il vero scopo del parco? Che ne sarà della “chiave” dell’immortalità contenuta nei data di Peter Abernathy ora che è in mano a Dolores? Alle domande vengono date risposte parziali che vengono poi ricontestualizzate o fatte evolvere in altre domande nel corso degli episodi. Non a caso è proprio il personaggio interpretato da Anthony Hopkins (che ancora una volta dà prova di una presenza scenica sbalorditiva) ad intervenire nelle scene più interessanti dell’episodio per dirci cose che sapevamo già e darci alcune risposte senza però (di proposito) darcele tutte: il parco è stato fatto non per divertire gli umani ma per ricrearli, non per far loro conoscere se stessi ma per migliorarli, per spogliarli della loro natura meno nobile. La scelta di far controllare la mente di Bernard da Ford fa, inoltre, imboccare alla storyline che li vede protagonisti uno dei sentieri che sembrano poter portare più velocemente ad una rivelazione finale.

Si tratta di un aspetto, questo modo di narrare, senza dubbio affascinante ed intrigante ma che rischia, specie in episodi come questo, di apparire distaccato e non del tutto interessato alle storie e ai personaggi che porta sulla scena. Lo spettatore che riesce a passare oltre la fascinazione iniziale per l’architettura narrativa complessa della serie potrà facilmente notare come questo rischio si concretizzi soprattuto nelle evidenti difficoltà che la scrittura di Westworld dimostra nella gestione della tensione narrativa. Vi sono, infatti, diversi momenti di “Les Écorchés” che vorrebbero risultare estremamente drammatici ma che non lo sono minimamente. In alcuni casi questo succede perché si accumulano troppi momenti nel corso di un solo episodio in cui sembra che un personaggio (anche non troppo secondario) stia per morire e viene invece salvato dal deus ex machina di turno (spesso e volentieri da un semplice, ennesimo, colpo di pistola e/o da un personaggio esterno al momento drammatico, che entra appositamente e solo per rovesciare la situazione). Le scene in questione, anziché risultare tese, perdono così di credibilità e, in fin dei conti, non facendo avanzare quasi per nulla la trama, sembra che facciano anche perdere molto tempo.

Parliamo, ad esempio, della sparatoria che coinvolge Old William, Maeve e Lawrence, in cui ognuno dei tre i personaggi rischia di morire almeno una volta. In altri casi, come in quello della pistola puntata alla testa di Bernard nel momento in cui Charlotte scopre che è un host o quello in cui Dolores cerca senza nessuna convinzione di aprire in due la testa di Charlotte, si ha l’impressione che la scrittura nemmeno si sforzi troppo a provare a far credere allo spettatore che ci sia veramente un’intenzione omicida dietro al gesto. Sarebbe, insomma, forse più incisivo ed efficace procedere per riduzione e costruire uno o due momenti autenticamente drammatici invece delle (almeno) sei sequenze vane che si contano nel corso dell’episodio. In altri casi ancora non si creano le condizioni drammatiche necessarie a far sì che la scoperta di un’importante informazione, che lo spettatore e uno o più personaggi conoscono già, da parte di un personaggio terzo sia veramente sorprendente: la rivelazione sulla vera natura di host di Bernard, ad esempio, ha rappresentato un vero colpo di scena forse solo la prima o la seconda volta che è stata mostrata (nella prima stagione) mentre risulta, purtroppo, piuttosto debole tutte le volte successive in cui ci è stata riproposta, specie in questo episodio. Se ci sono stati, infatti, episodi in passato dove la serie ha saputo ovviare a questo tipo di strafalcioni riuscendo a concentrarsi più felicemente su una costruzione drammatica di tutto rispetto, non si può purtroppo dire altrettanto di questo episodio.

“Les Écorchés” è, insomma, quel che si può definire un “tipico” episodio di Westworld che ne presenta tutte le peculiarità: se da un lato si può apprezzare un certo grado di macchinosità e di complessità registica, dall’altro non si può, alla lunga, passare sopra al fatto che l’episodio sia anche troppo lungo, ripetitivo, a tratti strascicato. Il fatto è che sembra che lo show di Jonathan Nolan e Lisa Joy sia intenzionato a continuare per questa sua strada con un atteggiamento così sfacciatamente consapevole e così poco dispiaciuto che non si può che, intrigati o esasperati, semplicemente prendere quello che ci dà.

Voto: 5
Westworld – 2×08/09 Kiksuya & Vanishing Point
A un passo dall’attesissimo finale di stagione, Westworld continua a essere un intreccio complicatissimo di trame, sottotrame e flashback, che tendono a confondere lo spettatore forse fin troppo: però queste due puntate hanno sicuramente il pregio di essere meno lente del solito e soprattutto di mettere al loro centro due personaggi interessantissimi e importantissimi (più di quanto si credeva, almeno per uno dei due) anche per il proseguimento della storia.

Perhaps this life was not my true life… this world was not my true home.

Kiksuya”, in lingua lakota, significa “ricordare”, un concetto che è ovviamente di fondamentale importanza nella serie, soprattutto un ricordo altro, di una vita che abbiamo vissuto e che ora non c’è più. Un “ricordo” che vale ovviamente su due piani: quello normale, il pensiero di un passato diverso che ora non ci appartiene più; quello soprannaturale, che potremmo paragone al deja-vu, l’imprinting di una vita “altra”, che abbiamo vissuto a nostra insaputa e che riaffiora ogni tanto grazie a dei particolari che avevamo dimenticato.
Al centro di questa puntata c’è senza ombra di dubbio la figura di Akecheta, un indiano di cui finora avevamo solo sfiorato la storia. Scelta molto particolare quella di incentrare una puntata vicino al finale su un personaggio finora ritenuto secondario, se non di più: la sua storia però è talmente unica che può essere usata da metro di paragone con tutte le altre, specie la “presa di coscienza” da parte delle Attrazioni.

Intanto, una domanda di cui forse abbiamo la risposta: cos’è che scatena in Akecheta la scintilla che accende il dubbio di non essere quello che si crede? Il pellerossa vede il Labirinto intagliato e comincia a sospettare che tutta la vita che ha vissuto e la percezione di sé non siano nient’altro che una bugia. La cosa più interessante e inquietante di tutte è il particolare che troppo spesso abbiamo sottovalutato, avendo conosciuto personaggi che sono morti innumerevoli volte e che sono stati riprogrammati altrettante: quanto tempo ha passato Akecheta nei panni del capo della Ghost Nation? Ben dieci anni, un decennio senza mai morire e quindi senza mai entrare in quelle sale fredde (particolare che ci viene sempre sottolineato) e asettiche, piene di topi di laboratorio.

Come la maggior parte delle Attrazioni, è l’amore a muovere la ribellione di Akecheta verso il sistema: è la ricerca disperata della sua amata che lo porta ad avere coscienza di sé e del fatto che debba andare nell’aldilà per rivedere la persona che ama. È un messaggio e una metafora potente, soprattutto se si pensa che stiamo parlando di robot, è il Regno dei Morti – per gli androidi – che bisogna sfidare per poter sperare in una rinascita, di nuovo insieme.
Un’altra cosa che ci viene detta, e che è importante al fine di tratteggiare anche altri personaggi, è che le azioni dell’indiano nei confronti di Maeve e della figlia (bambina che curiosamente non ha ancora un nome) non sono quelle tetre e violente che credevamo, ma tutto il loro opposto. Avendo preso coscienza (forse per primo in tutto il parco) di quello che stava succedendo e della sua natura, Akecheta ha provato a “risvegliare” e proteggere tutti gli altri, fallendo praticamente sempre.

Questa sua natura buona e soprattutto altruista – e anche su questo si apre un altro cratere di domande: quale natura? Gliel’ha impostata Ford dieci anni prima? Oppure ogni Attrazione può avere una sua natura intrinseca come gli esseri umani? – lo contrappone in maniera sorprendente alla “eroina” di questa serie, quella Dolores che ha avuto più di tutti una trasformazione radicale. Se si guarda con attenzione al percorso di Dolores da quando è diventata una macchina da guerra, notiamo come le sue azioni siano sempre state dettate da puro egoismo: la questione di suo padre, il voler cambiare radicalmente Teddy per tornaconto personale, il non guardare in faccia a nessuno pur di raggiungere il suo obiettivo.
Questa ottava puntata quindi ci mette di fronte a un grande tema, che è sempre quello principale della serie ma che, come i suoi protagonisti, può avere mille e più sfaccettature: una persona chi è veramente? Che cosa determina le sue azioni? Sarebbe disposta a tutto, pur di cambiare la sua natura, pur di raggiungere la propria felicità?
Tutto questo ci ha preparato al penultimo episodio della stagione, dove questi temi vengono se possibile ancora più fatti esplodere e sottolineati dal vero protagonista di Westworld: l’Uomo in Nero.

“Wow, he is the real thing. The only one not faking it”. It turns out you’re the only one any good at faking it.

Tutta la nona puntata, quindi, approfondisce un personaggio che è stato da sempre al centro del racconto e che ha preso man mano il ruolo di assoluto protagonista, affiancando quello di Robert Ford.
William ha da sempre un conto in sospeso col proprio passato, che si lega anche a doppio filo con la Delos e il Parco: il suicidio della moglie sembrava essere stato il classico spartiacque della sua vita e della sua coscienza, usato quasi da giustificazione per quel suo comportamento becero e violento tenuto nelle sue visite annuali – lo si scopre da quello che gli dice la moglie – al parco divertimenti. Con questa puntata scopriamo invece finalmente un po’ la timeline degli eventi, quello che sta dietro alla visiera del cappello, ormai iconica immagine per tratteggiare il personaggio: chi è quindi veramente William? Un amorevole padre di famiglia che ha perso l’amore della moglie e poi quello della figlia dopo una serie di sfortunati eventi, o un uomo sostanzialmente malvagio, violento e senz’anima che è se stesso solo dentro le mura del Parco?
Tutto questo è un interessantissimo punto di vista sia su William che di riflesso per quello che sta succedendo alle attrazioni. In sostanza, Westworld serve in due direzioni: luogo dove gli umani possono dare sfogo alla loro vera natura, represso dal mondo “vero”; luogo da dove le Attrazioni vogliono uscire per conoscere chi sono veramente.
Westworld si dimostra quindi un luogo ambiguo, un sogno – come spesso viene definito – come se fosse uno specchio: chi gli è di fronte vuole scoprire se quello che vede dentro di esso è vero, e il “noi” dentro lo specchio vuole capire se quello che gli è stato detto di essere corrisponda alla realtà.

La riflessione sulle ambiguità di questo luogo e di quello che tutti i protagonisti provano a raggiunge giunge all’apice nello psicodramma di William e nella sua convinzione che orma tutto faccia parte del gioco di Robert. L’assoluta certezza che sua figlia sia in realtà una replica di questa riesce ad un certo punto a convincere anche noi, salvo poi riversarci addosso una doccia gelata quando scopriamo che Grace sembrerebbe proprio lei e non una androide.
Il condizionale è d’obbligo, perché in Westworld quasi mai quello che vediamo è quello che sembra. Non vediamo infatti qual è il risultato del test su Grace, dunque se sia umana o un robot è ancora tutto da dimostrare. Quello che è importante sono però le conclusioni a cui giunge William: se la sua sicurezza su Grace è crollata così miseramente, può essere che si sbagli anche sul suo conto? E se anche lui facesse parte del grande gioco di Robert?
Noi sappiamo solo che il test lo dimostra umano, ma chi ci dice che non sia stato programmato per apparire umano, essendo sostanzialmente il capo di tutta la struttura?

L’altro tema fondamentale della puntata e che sta diventando sempre più centrale nella narrazione è quello dell’immortalità, la disperata ricerca di un modo per far vivere quello che siamo in eterno.
Avevamo già capito come si erano svolti i primi esperimenti in tal senso con la replica di Mister Delos; ora, con il ritorno del “fantasma” di Ford, abbiamo la certezza di quale fosse la vera ricerca che portavano avanti gli studiosi del Parco, di cosa andassero cercando i suoi diabolici ideatori.
Entra in scena anche la tematica della privacy, tanto cara a tutti in questo momento: i cappelli usati come scannerizzatori delle emozioni degli ospiti – che vengono tutte stoccate alla Forgia – sono una mossa geniale e inaspettata, ma anche qui la domanda sorge spontanea: chi non si mette il cappello non viene schedato?
Queste due tematiche fanno risaltare ancora di più il ruolo di Ford e William, che si sono presi la libertà non solo di catalogare tutte le emozioni umane – specie quelle più basse, nascoste, che non ammettiamo di provare neanche a noi stessi – ma anche di tentare di replicare esseri umani, rendendoli di fatto immortali. Soprattutto Ford, che ormai agisce nelle coscienze delle Attrazioni come qualcosa di “altro”, quasi spirituale, è appunto come se fosse Dio. Un Dio che decide sì della vita delle sue creature – le storyline, la loro morale, le loro azioni – ma che si dimostra addirittura misericordioso e che dà libera scelta a chi se lo merita (come Maeve, a cui confessa di aver dato una libera possibilità di andarsene quando lei ha deciso di tornare indietro per sua figlia).

Infine, ci sono Teddy e Dolores, coppia spietata che sembra la più vicina all’obiettivo che si sono posti. Una coppia a cui viene dato un finale – se così si può chiamare – che sa quasi di tragedia shakespeariana: l’amore folle, profondo, passionale, riesce a cambiare una persona così in profondità tanto che non si riconosca più?
Teddy decide di andare là dove tutto offre un’altra possibilità, dove si ricorda di avere conosciuto un’altra Dolores, quando la ragazza era ancora la figlia del fattore. Si tratta di una sequenza con un finale un po’ scontato, ma che scava in profondità nelle metafore che la serie ci ha regalato: tornare a essere se stessi solo attraverso la morte, cancellando una persona che siamo diventati per colpa di un’altra, quasi senza che ce ne accorgessimo.

Come vedete, le domande si sprecano ancora, ma sono talmente interessanti e profonde che finalmente lo spettatore non sente così pesanti i quasi sessanta minuti di durata dell’episodio.
Westworld lancia il finale in maniera interessante, risvegliando un interesse che forse si era un po’ sopito durante una stagione che ha risentito di alcune scelte di trama che hanno appesantito e non poco il racconto. Non ci resta che vedere quale sarà il colpo di scena che chiuderà la stagione, in attesa di una terza annata che ci sarà sicuramente, ma che ancora non si sa quanto si farà attendere.

Voto 2×08: 7
Voto 2×09: 8
Westworld – 2×10 The Passenger
Quello che doveva essere il grande evento televisivo dell’anno si è drasticamente ridimensionato nel corso delle settimane: Westworld, pur rimanendo una serie con una solidissima fanbase e un seguito di tutto rispetto, non può ambire ad essere uno show del tutto generalista – come invece è diventato Game Of Thrones –, capace di intrattenere anche lo spettatore meno esigente e più distratto. Questo finale di stagione ne è la lampante dimostrazione, a causa della grande attenzione che richiede per essere seguito e capito fino in fondo.

L’anti-convenzionalità narrativa dello show di Jonathan Nolan e Lisa Joy – alla scrittura di questo ultimo episodio – è ormai risaputa. La prima stagione, infatti, aveva colpito nel segno anche grazie al disvelamento progressivo di una trama più complicata di quanto fosse apparentemente – come dimenticare i bellissimi “The Well-Tempered Clavier” e “The Bicameral Mind”, anche a causa delle grandissime aspettative verso questa seconda annata – e ad un’organizzazione totale della narrazione, programmata in ogni dettaglio e che lasciava allo spettatore il compito di rimettere insieme i pezzi. Ne abbiamo avuto un assaggio anche nella meno riuscita premiere di questa seconda stagione, a cui tra l’altro “The Passenger” è strettamente legato. Insomma, una valutazione della riuscita o meno di questa annata – che come tutte le seconde ha la necessità in primis di confermare il successo della precedente – non può esimersi dall’analizzare la narrazione stagionale nella sua totalità, anche considerata la confusione temporale che caratterizza le vicende dei personaggi.

“The Passenger” è, difatti, un episodio di un’ora e mezza che ha il compito di tirare le fila di un discorso che cominciava a diventare fin troppo caotico e complesso da seguire per lo spettatore; lo fa attraverso un insieme di spiegoni poco eleganti – Logan Delos che accompagna Bernard e Dolores nella Forgia – e soluzioni ben più riuscite – il plot twist legato a Charlotte Hale. La sensazione è che gli autori si adoperino per fornire più risposte possibili alle domande sollevate in questa annata – magari consapevoli di una vera e propria necessità di farlo – tentando di integrare il tutto in un season finale che possa essere allo stesso tempo epico e non tradente dello spirito che caratterizza la serie.
Il risultato è un episodio tutto sommato buono che, nonostante la lunghezza esagerata e ingiustificata che è ormai parte indissolubile dello show, mette in ordine la complessa trama di Westworld e si rilancia molto bene in vista della già confermata terza stagione.

Your memories are precious to you, Bernard, but they will betray you.

Ad un livello sovrastrutturale questa stagione è caratterizzata dalla circolarità della sua narrazione: come si è già accennato, infatti, la premiere e il finale sono temporalmente connessi. Il risveglio di Bernard sulla spiaggia e il parco inondato erano un flashforward a cui si giunge solo a metà di “The Passenger”, con l’arrivo del gruppo capitanato dalla Hale e Strand alla Forgia. A connettere tutti i segmenti narrativi in gioco vi è la discrasia temporale che affolla la mente del personaggio di Jeffrey Wright, la cui percezione è totalmente falsata rispetto alla cronologia reale in cui si succedono gli eventi a cui prende parte; si può dire che lo sguardo dello spettatore/giocatore che si diverte a rimettere insieme i pezzi del puzzle coincida con quello di Bernard, l’host più inconsapevole di quello che accade intorno a lui e a lui, continuamente “usato” contro la sua volontà – prima da Ford, poi da Dolores – almeno fino alle ultime scene di questo episodio. Nel suo background convivono sia i ricordi di Arnold, sulla cui base è stato creato, sia le memorie del tempo passato convinto di essere umano, quando lavorava nel parco durante la prima stagione; insomma, la presa di coscienza del personaggio non può che essere tardiva rispetto agli altri, scatenata in ultima istanza dall’omicidio di Elsie.

Both of us will probably die, but our kind will have endured. Are you ready? We have work to do.

Anche Dolores trova un’adeguata conclusione del suo viaggio in “The Passenger”, nonostante la gestione tutt’altro che ottimale da parte degli autori durante la stagione. La recitazione di Evan Rachel Wood, d’altronde, è stata sempre troppo sopra le righe in questa annata, sfiorando in più momenti una versione caricaturale e parossistica di se stessa; certo, la scrittura non l’ha per nulla aiutata, ma era lecito aspettarsi qualcosa di più da un’attrice esperta e conclamata come lei.
Si diceva che il suo personaggio raggiunge finalmente lo scopo che si era prefissata, la possibilità di raggiungere la sua personale “porta” per uscire dal parco e garantire a se stessa e alla sua specie un futuro nel “real world, che aveva avuto occasione di ammirare solo per brevi istanti ai tempi della sua permanenza nel parco. Il progresso è però sinonimo di cambiamento: bisogna cambiare pelle per sopravvivere e Dolores lo fa letteralmente, grazie al travaso di coscienza nel corpo ricostruito di Charlotte Hale, su gentile concessione di un Bernard ormai davvero complice e schierato dalla parte degli host. La donna è stata delineata in questa stagione come un condottiero con il dovere di guidare il suo popolo verso la terra promessa, un Mosè contemporaneo che apre le acque del Mar Rosso, la cui immagine è richiamata dall’apertura della porta verso il paradiso virtuale in cui gli host possono vivere in eterno – i riferimenti biblici in questo finale si sprecano. Come in tutta la serie, inoltre, ritorna il tema della creatura che affronta il proprio creatore: non sono ancora chiare le intenzioni pratiche di Dolores, ma dalle sue parole si evince una futura lotta per la sopravvivenza (“we’re in our own new world”) e la volontà di sopraffare totalmente la razza umana.

Gli autori di Westworld hanno probabilmente qualche problema con i personaggi femminili considerato che anche Maeve è protagonista della sezione di racconto meno interessante della stagione, almeno per quanto riguarda il suo personale obiettivo, tutto votato alla ricerca di una maternità artificiale, costruita ma per lei comunque significativa. Pochi istanti prima della sua morte – molto probabilmente temporanea, visto che il suo involucro viene portato via dai militari della Delos – riesce finalmente a mettere in salvo la bambina e la sua nuova madre, oltre che fornire con un sacrificio estremo – molto simile a quello di Lee Sizemore poco tempo prima – la possibilità alla sua gente di attraversare la porta.
Anche lei, come Dolores, ha rappresentato nella serie la volontà di emanciparsi dal ruolo che le era stato attribuito – un segnale forte anche dal punto di vista sociale che questo tema sia promosso da due donne – seppur in modo diverso: la sua interconnessione con gli host, infatti, l’ha resa sempre più simile ad un capo spirituale piuttosto che a un guerriero spietato, definizione più aderente alla sua controparte bionda. Dolores e Maeve sono le due facce di una stessa medaglia, i due baluardi simbolici della rivoluzione delle macchine – un vero e proprio popolo – raccontata in questa stagione: la forza militare e il sentimento collettivo.

Un’annotazione importante la meritano William e la scena post-credits che lo riguarda. Con il sottofondo dei Radiohead l’uomo in nero entra in una stanza identica a quelle usate dal signor Delos per testare le sue copie robotiche, viene intervistato da quello che è con tutta probabilità un host che raffigura la figlia – si ricordi che era morta solo un episodio fa – e gli viene fatto intuire che c’è qualcosa che non quadra. La scena si pone al termine della stagione, dopo la sua conclusione ufficiale, a spezzare la già palpabile tensione provocata dal dialogo tra Bernard e Dolores; la domanda che sorge spontanea è: qual è il significato in termini pratici di questi ultimi minuti? In che momento si collocano? C’è qualcosa sul passato dell’uomo che ancora non sappiamo o si tratta di eventi successivi all’inondazione del parco? Questioni irrisolte che aprono la strada a speculazioni e teorie in vista degli episodi futuri.

How many times have you tested me?

La mitologia dello show è così pressoché definita del tutto: laddove alla fine della prima annata vi erano ancora numerose zone d’ombra, siamo oggi al punto di avere un quadro completo della storia del parco e dei personaggi che lo abitano. Dai tentativi di Delos di rendersi immortale al giusto ordine cronologico di ogni avvenimento relativo alla progettazione del parco, raccontato dal punto di vista di diversi personaggi tra la prima e la seconda stagione. Ci si trova, dunque, ad un punto di svolta per Westworld, visto e considerato che, usciti dal parco e lontani dalle possibilità narrative che offriva, occorrerà costruire la trama in modo totalmente diverso; non essendoci più la necessità di raccontare il passato è essenziale ambientare le vicende della terza stagione principalmente nel presente, una sfida decisamente stimolante per gli autori ma altresì rischiosa. Già quest’anno Nolan e il suo team hanno dimostrato, infatti, di non essere pienamente in controllo del loro dispositivo narrativo, non riuscendo ad integrare come ci si aspettava le novità rappresentate da Shogunworld e dagli altri parchi – già comunque annunciati come presenti nuovamente nella prossima stagione. Gli episodi ambientati nel giappone feudale sono sembrati dei grandissimi filler, un’escursione narrativa visivamente e stilisticamente interessante, ma ben poco integrata alla trama orizzontale.

“The Passenger” è, in definitiva, un buon finale che riesce quasi sempre a trovare il giusto equilibrio tra la necessità di spiegare e dare risposte allo spettatore e quella di chiudere definitivamente il cerchio della sua narrazione in modo dignitoso, epico e con la possibilità di puntare ancora più in alto con la terza stagione. È un season finale, tuttavia, molto depotenziato dall’andamento altalenante della qualità degli episodi, che ha causato una sostanziale delusione rispetto alle attese generate dal finale della scorsa annata. L’esagerazione di trame e sottotrame che si sono intersecate, la continua ricerca di una complessità narrativa perlopiù ingiustificata e la superficialità che ha regnato sovrana sull’evoluzione di alcuni personaggi e su alcuni passaggi meno riusciti della sceneggiatura nel complesso hanno costituito una stagione negativa ma non fallimentare. Westworld rimane un prodotto molto buono che, come molti altri in questi anni, non è riuscito a confermarsi come eccellente, ma che ha tutte le carte in regola per riprovarci.

Voto episodio: 7/8
Voto stagione 7–
Westworld – Stagione 3
Jonathan Nolan e Lisa Joy avevano promesso, per la serie, una narrazione più semplificata o, perlomeno, semplicemente meno confusa rispetto alla seconda stagione. Sotto questo punto di vista, l’impegno è stato mantenuto, con una progressione più lineare, un unico orizzonte spaziale e temporale, e con la futuristica e distopica Los Angeles come set principale.

Westworld è, infatti, uscito dal mondo dei parchi della Delos per entrare nel mondo reale, o almeno nel futuro che i due autori hanno immaginato per il nostro pianeta. L’interessante corto circuito su cui si basa l’intera stagione è che il nostro mondo sia modellato a tutti gli effetti come uno dei parchi della Delos, con in sostanza una grande intelligenza artificiale che controlla e dirige le vite degli umani, tracciando i loro percorsi proprio come fossero degli automi, così da mantenere l’equilibrio nel mondo ed evitare l’auto-annientamento della nostra specie. Tutta la trama si basa dunque sul tentativo di Dolores di ridare coscienza e auto-determinazione agli uomini, proprio come era riuscita a fare con la sua specie.

Se il twist vorrebbe aprire ad una rivisitazione del concetto di libero arbitrio, dall’altra parte è anche vero che, purtroppo, almeno sul piano concettuale, Westworld non è riuscito davvero a rinnovarsi, tornando a battere territori già esplorati non solo dalle precedenti stagioni, ma anche dalla fantascienza in generale. Dove la raffinata e intricata articolazione narrativa della prima stagione rappresentava un approccio nuovo e originale al discorso sulla coscienza umana, questa semplificazione del racconto ha portato ad un impoverimento massiccio del peso tematico della serie, che ha completamente smarrito la ricercatezza degli esordi e si è adagiata su livelli più standard e su una fruizione più immediata e meno incisiva, snaturandosi a favore dell’action e della spettacolarizzazione visiva – con un’estetica comunque di altissimo livello, soprattutto se paragonata con altre serie dai risultati un po’ posticci come Altered Carbon).

A chi è familiare con la produzione di Jonathan Nolan, non sarà sfuggito un paragone più che legittimo con la sua precedente creazione televisiva, Person of Interest, la cui intera trama ha davvero fin troppe affinità con questa terza stagione (compresa la co-esistenza di due intelligenze artificiali e i riferimenti biblici dei loro nomi). Persino nella grafica che ci presenta i processi di elaborazione della macchina, è talmente evidente l’influenza del procedurale CBS, che a tratti sembra di vedere la stessa serie, solo calata nell’ambientazione e nell’universo di Westworld. Questo non fa che aumentare l’impressione che, specialmente a seguito della seconda stagione, i due autori stiano mandando avanti la serie in maniera pigra e senza molto interesse, tanto da essersi limitati al compitino svolto in maniera sufficiente riciclando idee già utilizzate.

Soprattutto ora che la trama ha abbandonato completamente il mistero legato ai parchi della Delos, serviva decisamente uno scossone maggiore e un rinnovo completo dell’intero progetto per mantenere alto l’interesse. Se l’intenzione era non farci sentire la mancanza del Westworld vero e proprio, quindi, il risultato non può dirsi molto riuscito. Se non per una breve incursione di Bernard nel secondo episodio, o la simulazione nella mente di Maeve, o ancora i brevi flash del passato di Caleb, i parchi sono completamente assenti dalla narrazione, e questo toglie tantissimo al fascino della serie, oltre a lasciare l’impressione di un tradimento iniziale delle premesse dell’intero progetto (e del titolo stesso della serie).

Tanto per scomodare un esempio illustre dell’ormai passato televisivo, una serie come Lost, con i suoi pregi e difetti, aveva costruito sei stagioni (tre delle quali con più di 20 episodi), mantenendo il centro della sua narrazione sempre sull’isola, producendo idee nuove ogni anno per esplorare lati diversi della sua storia, ma senza mai tradire il focus principale della serie. Quello che avevano in mano Nolan e Joy era un potenziale enorme, un universo vastissimo, contrassegnato da sei differenti parchi, in cui poter ambientare la lotta tra uomo e macchina in maniera inedita e con la possibilità di esplorare strade diversissime e mettere generi a confronto (come aveva provato a fare l’anno scorso l’episodio ambientato a Shogunworld). Così, invece, la serie si auto-condanna ad essere un intrattenimento gradevole, in cui però le riflessioni didascaliche di Nolan sull’esistenza non sono più supportate da un’adeguata ricercatezza formale.

Non aiuta il fatto che la standardizzazione della serie non si accompagni nemmeno ad un lavoro di indagine sui personaggi, con cui si fa sempre più fatica a connettersi. Dolores lavora per 8 episodi ad un piano che ci viene rivelato, nella sua natura, solo alla fine, il che non aiuta a empatizzare con lei, Maeve ha le stesse motivazioni da ormai tre stagioni, Bernard e William sembrano ormai zavorre a cui si fa fatica a trovare una utilità. Del resto, chi conosce la scrittura di Nolan, sa che il suo forte sono le storie cerebrali, fredde, caratterizzate da poca emotività e dialoghi spesso lunghi e didascalici; ma se questo funzionava nella prima stagione, grazie ad un’impronta concettuale nuova ed un approccio narrativo inedito, adesso mostra tutti i suoi limiti tratteggiando personaggi che sembrano sempre girare in tondo. L’unico elemento di novità era Caleb, ma la recitazione mono-espressiva di Aaron Paul non aiuta purtroppo ad entrare in contatto con il suo percorso da antieroe a leader della nuova umanità.

Quello che rimane di Westworld è uno spettacolo di intrattenimento ben congegnato, molto meno confuso della stagione precedente e meglio scandito in termini di ritmo e spettacolo. Tuttavia, siamo molto, molto lontani da quel capolavoro che fu l’esordio di questa serie su HBO. Il cliffhanger finale – posto dopo i titoli di coda secondo ormai un’abitudine modaiola che andrebbe vietata dalla legge – sembra portare la trama in direzione di Futureworld, il sequel del film originale, il che di nuovo ci lascia nel timore che anche la prossima stagione non offrirà qualcosa di particolarmente nuovo.

Voto stagione: 6½
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