Atlanta – Stagione 1

Dopo che Louis CK ha messo in piedi con pochi soldi e idee innovative una delle serie più rilevanti degli ultimi anni, diversi autori (e network) hanno seguito la sua scia, dando vita a prodotti come Broad City, Master of None, One Mississippi e così via. Tuttavia rimane FX, probabilmente, la fucina più interessante e sperimentale, o comunque la realtà più legata al genere così come lo ha creato e plasmato CK. Analogamente oggi è Atlanta lo show che meglio incarna lo spirito della suddetta “era”, perché, pur ricorrendo ad un tono di voce per certi versi molto simile a quello di Louie, ne rappresenta un ampliamento ed una versione evoluta; il tutto con una sola stagione all’attivo, già diventata un classico nonché nuovo punto di riferimento per l’autorialità comica in tv. Ma cos’è che la rende così speciale?
“The thesis with this show is kind of to show people how it feels to be black” – Donald Glover

Atlanta parla quindi di tantissime cose diverse (razza, celebrità, successo, famiglia, difficoltà economiche), ma lo fa sempre dalla stessa prospettiva: quella di un uomo di colore, e nello specifico un uomo di colore nato e cresciuto nella capitale della Georgia e del rap. È dunque uno show che nasce senza dubbio dall’urgenza della riappropriazione culturale, ma anche dalla volontà di portare avanti un discorso sull’intersezionalità da un punto di vista creativo, personale e assolutamente non accademico. Gli episodi, per quanto vagamente tematizzati, non vogliono infatti trasmettere alcun messaggio diretto o fornire delle risposte alle questioni che sollevano: spesso sono, al contrario, volutamente ambigui, e non si prendono la briga di approfondire o argomentare più di tanto le provocazioni lanciate.

Glover questo problema non sembra volerselo porre, anzi fa in modo di trasformarlo in una risorsa – se non addirittura la cifra stilistica del suo show. L’obiettivo della serie, d’altronde, è mostrare cosa si prova ad essere neri in America, e la sensazione che più spesso accompagna la visione di Atlanta è proprio il disagio. A renderla così destabilizzante non sono soltanto i siparietti più assurdi o le sequenze surreali, ma soprattutto la complessità della realtà che mette in scena. È uno show che parla di razza come costrutto sociale, ma che allo stesso tempo riconosce a quest’ultimo un valore importante; che racconta la cultura black quasi con gelosia e possessività ma contemporaneamente non vuole limitarne i confini. La tensione più forte all’interno del racconto è quindi quella tra appartenenza e individualità, tra autenticità vera o presunta e il proprio personale modo di vedere le cose.

Raggiungere un risultato che appare così naturale, quasi “senza sforzo”, è in realtà molto complesso. Dietro non c’è soltanto la creatività molto distinta di Donald Glover, ma anche una grande consapevolezza ed una buona padronanza del mestiere. La forza della serie, quindi, non sta tanto nella sperimentazione, ma nella capacità di riempirla di senso. Un po’ come ha fatto Louis CK dando il là ad una nuova forma di comicità televisiva; solo che stavolta a suonare non è il jazz newyorkese ma l’hip-pop di Atlanta.
Voto: 9
Atlanta – Stagione 2

Oltre all’ormai noto Childish Gambino, è infatti importante includere il nome di una delle voci più riconoscibili e sorprendenti degli ultimi anni: nato dal mondo dei videoclip (di recente, si pensi a quello – meraviglioso – di “This is America”), il regista giapponese ha fin da subito portato un’impronta visiva alla serie che si può tranquillamente definire “d’autore”. L’unione delle invenzioni narrative e tematiche di Glover con lo stile riconoscibilissimo di Murai è quello che permette a questa seconda stagione di brillare: i rischi intrapresi sono innumerevoli, ma le storie sono così fluide che scorrono con una naturalezza quasi incomprensibile, mai appesantite dalle grandi implicazioni tematiche ed introspettive di cui si fanno portatrici.
Dopo una prima annata di rodaggio e definizione dei personaggi, dei legami tra essi e il contesto che fa da sfondo, la serie FX si è potuta tuffare di testa in quella vena sperimentale che già aveva caratterizzato alcuni interessantissimi episodi due anni fa. Il risultato è una collezione di segmenti da mezz’ora completamente spiazzanti, che abbandonano spesso e volentieri il legame con un protagonista quasi sempre assente per raccontare delle storie apparentemente (ed è qui che sta il trucco) slegate tra loro. Ma andiamo con ordine.

Da un lato troviamo l’autonomia di tanti racconti che si reggono sulla loro struttura autoconclusiva: e si pensa all’avventura da un barbiere insopportabile di Alfred, o alla surreale esperienza della coppia Earn e Van in una fiera tedesca, o all’incontro di Darius con un misterioso e inquietante amante della musica. Più di metà dell’annata è occupata da questo tipo di episodio, che beneficia perfettamente della cadenza settimanale (e della libertà creativa concessa da FX) per garantirne l’adeguata digestione. Dall’altra parte c’è invece la linea orizzontale di tutti questi personaggi messi insieme, che si riuniscono occasionalmente per sviluppare le loro relazioni uno con l’altro: in questo caso è la visione d’insieme a prevalere, aiutata da una struttura ciclica punteggiata di oggetti ricorrenti (la pistola d’oro che apre e chiude l’annata, ad esempio).

Ed è così che si spazia dall’ossessione per l’apparenza delle celebrità (la “compagna” di Alfred) al culto dell’immagine che ci viene costruito sopra (il cartone con Drake alla festa di Van), dal sacrificio visto come fonte di ispirazione musicale (Teddy Perkins e il fratello relegato in soffitta) al bullismo nelle scuole e le sue spesso sottovalutate tragiche conseguenze. Quello che collega gran parte delle vicende è il sottotesto musicale, il gigantesco meccanismo dello spettacolo e del rap che Glover conosce in prima persona e che in questa stagione viene scoperchiato con tutta l’onestà possibile.
Ma è davvero tutto qui? Atlanta si ferma davvero alla “semplice” messa a nudo di un’industria che, in fin dei conti, si basa su alcuni principi già visti e rivisti al cinema e in televisione? Ovviamente no. Ed è qui che ci aiuta la visione d’insieme, la componente orizzontale di cui si parlava prima.

Non bisogna poi dimenticarsi della componente etnica e culturale che ha fatto la forza della serie fin dall’inizio. Perché la grande impresa di Donald Glover sta nella sua capacità di inquadrare la musica in un contesto ben più ampio, che parla di razzismo ed identità in un modo che pochissimi altri sanno eguagliare in televisione. Questa Robbin’ Season, dopotutto, ha preso il fenomeno del boom di furti e crimini per rievocare l’atmosfera di sfiducia e pericolo in cui sia i protagonisti che Glover stesso si identificano: il valore del nome di Paper Boi conta solo fino al punto in cui non ci si accorge che il suo orologio può essere rubato e venduto, così come i soldi guadagnati da Earn non valgono niente se comunque manca un riconoscimento sociale di fondo. Ed ecco che allora il ricongiungimento dei due cugini dopo il litigio pone le basi nella solidarietà contro questa violenza, nella necessità di stare insieme di fronte alle enormi conseguenze che la disuguaglianza e la ghettizzazione in America continuano a provocare.
Atlanta chiude la sua seconda stagione con un enorme salto in avanti: non è più la grande novità alla sua prima stagione e non è più neanche qualcosa da accostare a certe influenze o modi già visti di fare televisione. Quest’anno, Donald Glover e Hiro Murai ci hanno dimostrato che la loro è una serie d’autore fatta e finita, capace di spezzare e reinventare regole senza preoccuparsi di compiere eventuali passi falsi: visti i risultati, non è un rischio che sembrano neanche lontanamente correre.
Voto: 9+
Atlanta – Stagione 3

Atlanta non è nuova a configurarsi come una serie che non fa di una trama orizzontale forte e preponderante il suo punto di forza: siamo abituati, infatti, ad episodi molto verticali, capaci di esaltare il formato televisivo del prodotto e di rendersi quasi estranei al continuum dello show. Se prendiamo, per esempio, episodi straordinari come “B.A.N.”, “Teddy Perkins” o “Woods”, li ricordiamo come puntate che possono essere tranquillamente estrapolate dal loro contesto macro-narrativo ed essere godute singolarmente senza che si perda un briciolo della loro qualità o del loro senso. Non per niente questa caratteristica della serie è stata sottolineata più volte da Donald Glover che ne ha paragonato le stagioni come degli album dai quali si possono ascoltare questa o l’altra traccia – che in questa metafora rappresentano gli episodi – in modo non per forza continuativo. A corroborare questa particolarità stilistica di Atlanta è la scelta autoriale di non proseguire in modo logico e lineare il racconto, con salti temporali, digressioni narrative, episodi nei quali i protagonisti nemmeno appaiono e tanti altri artifici di scrittura che rendono assolutamente imprevedibile la serie.



Il secondo è un episodio girato interamente in bianco e nero e agisce su più livelli: il tema centrale è particolare e spinoso, poiché si interroga in sostanza su cosa significhi essere un nero in America. La scelta cromatica sottende la questione e contribuisce al surrealismo della vicenda: Aaron, il protagonista interpretato da Tyriq Withers, ha il padre nero ma si mostra come un bianco e passa il suo tempo con amici bianchi; nella puntata deve però dimostrare ad un imprenditore di “essere nero” per ottenere una prestigiosa borsa di studio. Il ragazzo affronta una crisi di identità che attraversa fasi comiche e grottesche – l’audizione davanti ai tre “giudici”, una sfida a colpi di lanciafiamme a scuola – e confronti poco chiarificanti con il padre – addirittura la sua prospettiva diventa quella di affermare che essere neri in America ti renda la vita più facile. Il nocciolo della questione è il ribaltamento della cultura dominante, tanto che alla fine il protagonista ambirà talmente “essere nero” che sceglierà di abbracciare totalmente quell’identità, a costo di rinunciare a se stesso. La satira messa in piedi da Donald Glover – autore completo, sceneggiatore e regista, dell’episodio – è pungente e coglie in pieno l’assurdità delle discriminazioni basate sul colore della pelle: la linea di dialogo simbolo dell’episodio arriva sul finale, quando Robert S. Lee – interpretato da Kevin Samuel, morto appena una settimana prima della messa in onda – dice al ragazzo sull’ambulanza che farsi sparare dalla polizia è quanto di più nero ci possa essere in America.

Queste nuove situazioni e ambientazioni portano nuova linfa allo show che, sempre con lo stile che lo contraddistingue, si muove in un nuovo mondo popolato però dagli stessi problemi che affliggono la vita delle persone di colore, come possono essere antiche feste tradizionali europee che fanno tranquillamente uso del blackface in “Sinterklaas Is Coming”. Earn, Al e Darius svelano, dunque, un mondo apparentemente moderno e inclusivo ma in realtà, non appena svelato il velo di Maya, ricco di contraddizioni e fortemente diseguale: un mondo in cui il privilegio e la ricchezza si trasformano in strumenti per un’oppressione silenziosa, che in Atlanta vengono raffigurati attraverso il surreale, come per esempio ristoranti stellati super esclusivi che servono mani in pastella ai propri ospiti che mangiano con gli occhi coperti.

Necessario menzionare l’inaspettato cameo di Liam Neeson che interpreta se stesso: il suo personaggio e la linea di dialogo nell’episodio fanno riferimento ad un fatto davvero accaduto nella sua vita e del quale l’attore si vergogna profondamente. Circa quarant’anni fa, infatti, una sua amica è stata aggredita e violentata da un uomo di colore; nei mesi successivi l’uomo provò una fortissima rabbia verso chiunque avesse la pelle scura.
Anche “Tarrare” contiene un cameo illustre: Alexander Skarsgaard (True Blood, Big Little Lies) interpreta, infatti, se stesso e si dipinge come un depravato sessuale con un auto-ironia davvero esilarante. L’episodio è però incentrato su Van e sulla sua nuova vita a Parigi: il racconto è veicolato attraverso lo sguardo di Candice (Adriyan Rae) che segue l’amica nelle sue bizzarre avventure e cerca di comprendere come la ragazza che conosceva ad Atlanta è diventata quella che è ora. Anche in questo caso sopraggiungono elementi stranianti e totalmente folli, uno fra tutti il pestaggio di Emilio con una baguette, e bisogna sottolineare una performance straordinaria di Zazie Beetz che, soprattutto nella scena del rinsavimento finale, riesce a veicolare perfettamente il mal de vivre che affligge il suo personaggio.
Non è semplice dare un giudizio a questa terza stagione di Atlanta, da un lato perché si configura come la prima parte di un dittico – la quarta stagione, si diceva, è stata scritta e girata insieme e andrà in onda presumibilmente durante l’autunno di quest’anno – e dall’altro perché i tanti episodi standalone la rendono molto variegata al suo interno e poco coesa. In linea di massima la qualità della scrittura e l’ottimo comparto tecnico – a partire dal regista della maggior parte degli episodi, Hiro Murai – continuano a regalarci un prodotto di altissimo livello, forse meno di impatto delle scorse stagioni e con meno picchi ma certamente uno degli show più rilevanti e folli di questa era televisiva.
Voto: 8½
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