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Atlanta – Stagione 1
Vulture la chiama la “Post-Louie Era”, e in effetti la recente esplosione di show ideati, interpretati e spesso anche diretti da comici professionisti è un fenomeno diventato ormai così importante per la serialità televisiva da meritarsi una sua definizione.

Dopo che Louis CK ha messo in piedi con pochi soldi e idee innovative una delle serie più rilevanti degli ultimi anni, diversi autori (e network) hanno seguito la sua scia, dando vita a prodotti come Broad City, Master of None, One Mississippi e così via. Tuttavia rimane FX, probabilmente, la fucina più interessante e sperimentale, o comunque la realtà più legata al genere così come lo ha creato e plasmato CK. Analogamente oggi è Atlanta lo show che meglio incarna lo spirito della suddetta “era”, perché, pur ricorrendo ad un tono di voce per certi versi molto simile a quello di Louie, ne rappresenta un ampliamento ed una versione evoluta; il tutto con una sola stagione all’attivo, già diventata un classico nonché nuovo punto di riferimento per l’autorialità comica in tv. Ma cos’è che la rende così speciale?

“The thesis with this show is kind of to show people how it feels to be black” – Donald Glover

Come ci si sente ad essere neri: ecco cosa vuole raccontare Atlanta. Non la vita di una persona di colore nel Sud degli Stati Uniti o in una specifica realtà locale, dunque, ma piuttosto la sensazione che si prova ad essere quella persona lì. Il risultato è un prodotto surreale, che sceglie di ragionare sui concetti di identità, ambiente e privilegio procedendo per suggestioni, senza badare troppo alla continuity o alla linearità del racconto. Anzi, ogni episodio sviluppa una o più storie a se stanti, accostando stralci di vita quotidiana (e dunque scelte creative di tipo realista) a incursioni nell’assurdo, elementi destabilizzanti e situazioni che provocano nello spettatore un senso di disorientamento. “There really isn’t a limit as to how abstract it [la serie] can get”, spiega lo stesso Glover, eppure lo fa rimanendo comunque sempre ancorata al suo universo di riferimento – che riesce a dipingere, per altro, in maniera straordinariamente dettagliata.

Atlanta parla quindi di tantissime cose diverse (razza, celebrità, successo, famiglia, difficoltà economiche), ma lo fa sempre dalla stessa prospettiva: quella di un uomo di colore, e nello specifico un uomo di colore nato e cresciuto nella capitale della Georgia e del rap. È dunque uno show che nasce senza dubbio dall’urgenza della riappropriazione culturale, ma anche dalla volontà di portare avanti un discorso sull’intersezionalità da un punto di vista creativo, personale e assolutamente non accademico. Gli episodi, per quanto vagamente tematizzati, non vogliono infatti trasmettere alcun messaggio diretto o fornire delle risposte alle questioni che sollevano: spesso sono, al contrario, volutamente ambigui, e non si prendono la briga di approfondire o argomentare più di tanto le provocazioni lanciate.

Prendiamo ad esempio “B.A.N.”: con la scusa del talk show fittizio, la puntata mette sul piatto diverse questioni legate al concetto di identità, dall’assunto che certi gruppi debbano comportarsi secondo schemi precisi (ci si aspetta che il ragazzo “trans-racial” sostenga la comunità LGBT mentre al contrario che Paper Boi non ne riconosca i diritti) alla difficoltà ad orientarsi in un universo i cui confini dell’appartenenza sociale – così come quella di genere – si fanno più confusi, sviluppando il tutto nell’ambito di un codice culturale specifico portato ai suoi estremi e ridicolizzato (le pubblicità). Non c’è però alcun senso di “chiusura”, nessuna sintesi o presa di posizione finale diretta e inequivocabile che rappresenti per lo spettatore una risposta rassicurante. Alcune delle affermazioni di Alfred sono sia condivisibili che problematiche, e lasciano in ombra (e dunque soggetti a interpretazioni potenzialmente opposte) aspetti importanti del discorso pubblico sulla diversità.

Glover questo problema non sembra volerselo porre, anzi fa in modo di trasformarlo in una risorsa – se non addirittura la cifra stilistica del suo show. L’obiettivo della serie, d’altronde, è mostrare cosa si prova ad essere neri in America, e la sensazione che più spesso accompagna la visione di Atlanta è proprio il disagio. A renderla così destabilizzante non sono soltanto i siparietti più assurdi o le sequenze surreali, ma soprattutto la complessità della realtà che mette in scena. È uno show che parla di razza come costrutto sociale, ma che allo stesso tempo riconosce a quest’ultimo un valore importante; che racconta la cultura black quasi con gelosia e possessività ma contemporaneamente non vuole limitarne i confini. La tensione più forte all’interno del racconto è quindi quella tra appartenenza e individualità, tra autenticità vera o presunta e il proprio personale modo di vedere le cose.

Nel corso delle varie puntate osserviamo i personaggi vivere in maniera più o meno scomoda la propria condizione, mentre si guardano bene (insieme agli autori) dal fare delle proprie parole o azioni un manifesto – come per Paper Boi che “rappa e basta” o Vanessa che cerca di andare avanti senza preoccuparsi di essere o meno un simbolo dell’emancipazione femminile. In questo modo, pur rinunciando ad una continuity serrata, il ritratto dei protagonisti, dei loro bisogni e desideri, viene fuori in maniera spontanea, approfondita e credibile. Anche quando sembra più apertamente politica, come in “Juneteenth”, la serie non diventa comunque mai aggressiva né troppo scoperta. Ad esempio, basta soltanto immaginare l’esistenza di un Justin Bieber di colore – inserito nella storia così, come se niente fosse, qualcosa di già dato che non necessita spiegazioni – per forzare lo spettatore a fare i conti con le proprie idee rispetto ai concetti di razza, privilegio, personalità. Allo stesso modo non c’è dramma o sgomento, né alcun accompagnamento musicale/scelta registica enfatizzante, nel rappresentare l’azione di polizia finita male in “The Jacket”: è soltanto parte della quotidianità dei personaggi, e come tale viene messa in scena.

Raggiungere un risultato che appare così naturale, quasi “senza sforzo”, è in realtà molto complesso. Dietro non c’è soltanto la creatività molto distinta di Donald Glover, ma anche una grande consapevolezza ed una buona padronanza del mestiere. La forza della serie, quindi, non sta tanto nella sperimentazione, ma nella capacità di riempirla di senso. Un po’ come ha fatto Louis CK dando il là ad una nuova forma di comicità televisiva; solo che stavolta a suonare non è il jazz newyorkese ma l’hip-pop di Atlanta.

Voto: 9
Atlanta – Stagione 2
La Robbin’ Season di Atlanta è un oggetto impossibile da associare ad un genere, ad uno schema o anche solo ad un gruppo di prodotti televisivi simili. Quello che resta dopo questi assurdi undici episodi è piuttosto una sensazione specifica, difficile da descrivere ma ben definita, insieme alla certezza che sviscerare tutto quello che è stato detto da Donald Glover e Hiro Murai richiederebbe degli sforzi e una quantità di tempo decisamente disumani.

Oltre all’ormai noto Childish Gambino, è infatti importante includere il nome di una delle voci più riconoscibili e sorprendenti degli ultimi anni: nato dal mondo dei videoclip (di recente, si pensi a quello – meraviglioso – di “This is America”), il regista giapponese ha fin da subito portato un’impronta visiva alla serie che si può tranquillamente definire “d’autore”. L’unione delle invenzioni narrative e tematiche di Glover con lo stile riconoscibilissimo di Murai è quello che permette a questa seconda stagione di brillare: i rischi intrapresi sono innumerevoli, ma le storie sono così fluide che scorrono con una naturalezza quasi incomprensibile, mai appesantite dalle grandi implicazioni tematiche ed introspettive di cui si fanno portatrici.
Dopo una prima annata di rodaggio e definizione dei personaggi, dei legami tra essi e il contesto che fa da sfondo, la serie FX si è potuta tuffare di testa in quella vena sperimentale che già aveva caratterizzato alcuni interessantissimi episodi due anni fa. Il risultato è una collezione di segmenti da mezz’ora completamente spiazzanti, che abbandonano spesso e volentieri il legame con un protagonista quasi sempre assente per raccontare delle storie apparentemente (ed è qui che sta il trucco) slegate tra loro. Ma andiamo con ordine.

All’inizio di quest’anno, le dichiarazioni di Donald Glover di essersi ispirato principalmente a “How I Spent My Vacation”, un film tratto dall’universo delle Tiny Toons Adventures, avevano creato non poca confusione. Mettendo da parte la naturale sorpresa nel sentire un paragone del genere, bisogna riconoscere che Glover non stava affatto scherzando: “How I Spent My Vacation” è organizzato in piccoli episodi a prima vista indipendenti tra loro, ma che se visti insieme creano un quadro generale coerente e fluido. Una sorta di via di mezzo tra Black Mirror (o una qualsiasi serie puramente antologica) e il formato seriale tradizionale, in cui Atlanta si inserisce facendo scuola su come bilanciare le due dimensioni riuscendo a perfezionarle entrambe.
Da un lato troviamo l’autonomia di tanti racconti che si reggono sulla loro struttura autoconclusiva: e si pensa all’avventura da un barbiere insopportabile di Alfred, o alla surreale esperienza della coppia Earn e Van in una fiera tedesca, o all’incontro di Darius con un misterioso e inquietante amante della musica. Più di metà dell’annata è occupata da questo tipo di episodio, che beneficia perfettamente della cadenza settimanale (e della libertà creativa concessa da FX) per garantirne l’adeguata digestione. Dall’altra parte c’è invece la linea orizzontale di tutti questi personaggi messi insieme, che si riuniscono occasionalmente per sviluppare le loro relazioni uno con l’altro: in questo caso è la visione d’insieme a prevalere, aiutata da una struttura ciclica punteggiata di oggetti ricorrenti (la pistola d’oro che apre e chiude l’annata, ad esempio).

Il punto di forza dell’indipendenza degli episodi sta di certo nella loro capacità di spremere il potenziale eclettico degli autori. Hiro Murai e occasionalmente Glover stesso girano ogni mezz’ora su cui mettono le mani con una perfezione di cui è difficile capacitarsi, creando ogni volta un piccolo capolavoro di genere che può spaziare dall’horror di “Woods” e “Teddy Perkins” (forse i due migliori della stagione) al racconto di formazione di “FUBU”; dall’altra parte, la qualità nella scrittura assicura un fondo solido e ben costruito alle immagini suggestive che vediamo, reggendosi sulle performance di un cast più ispirato che mai (il Teddy Perkins di Donald Glover e il Darius di Lakeith Stanfield spiccano su tutti) e su una serie di temi densissimi che vengono sviscerati nella maniera più naturale possibile.
Ed è così che si spazia dall’ossessione per l’apparenza delle celebrità (la “compagna” di Alfred) al culto dell’immagine che ci viene costruito sopra (il cartone con Drake alla festa di Van), dal sacrificio visto come fonte di ispirazione musicale (Teddy Perkins e il fratello relegato in soffitta) al bullismo nelle scuole e le sue spesso sottovalutate tragiche conseguenze. Quello che collega gran parte delle vicende è il sottotesto musicale, il gigantesco meccanismo dello spettacolo e del rap che Glover conosce in prima persona e che in questa stagione viene scoperchiato con tutta l’onestà possibile.

Ma è davvero tutto qui? Atlanta si ferma davvero alla “semplice” messa a nudo di un’industria che, in fin dei conti, si basa su alcuni principi già visti e rivisti al cinema e in televisione? Ovviamente no. Ed è qui che ci aiuta la visione d’insieme, la componente orizzontale di cui si parlava prima.

In primo luogo, questa seconda stagione è una splendida storia di legami tra personaggi, che si tratti della relazione tra Earn e Van, di quella tra i due cugini (bellissima la scelta di raccontarne la genesi in “FUBU”) o della semplice convivenza con Darius. Come si diceva, la prima stagione è riuscita perfettamente nel compito di caratterizzare in modo adeguato i protagonisti e le motivazioni che li guidano, così che la scelta di sparpagliarli tutti nella fase centrale di questa annata non arrivi in maniera forzata e innaturale; al contrario, la presentazione dei conflitti all’inizio della stagione permette agli episodi più indipendenti di elaborarli uno ad uno, separando l’introspezione di ogni comprimario per poi ributtare tutti nella mischia nella fase finale. La conclusione arriva quindi in maniera inaspettatamente già indirizzata, con il semplice compito di portare avanti dei percorsi già avviati e pronti ad incastrarsi tra loro.
Non bisogna poi dimenticarsi della componente etnica e culturale che ha fatto la forza della serie fin dall’inizio. Perché la grande impresa di Donald Glover sta nella sua capacità di inquadrare la musica in un contesto ben più ampio, che parla di razzismo ed identità in un modo che pochissimi altri sanno eguagliare in televisione. Questa Robbin’ Season, dopotutto, ha preso il fenomeno del boom di furti e crimini per rievocare l’atmosfera di sfiducia e pericolo in cui sia i protagonisti che Glover stesso si identificano: il valore del nome di Paper Boi conta solo fino al punto in cui non ci si accorge che il suo orologio può essere rubato e venduto, così come i soldi guadagnati da Earn non valgono niente se comunque manca un riconoscimento sociale di fondo. Ed ecco che allora il ricongiungimento dei due cugini dopo il litigio pone le basi nella solidarietà contro questa violenza, nella necessità di stare insieme di fronte alle enormi conseguenze che la disuguaglianza e la ghettizzazione in America continuano a provocare.

Atlanta chiude la sua seconda stagione con un enorme salto in avanti: non è più la grande novità alla sua prima stagione e non è più neanche qualcosa da accostare a certe influenze o modi già visti di fare televisione. Quest’anno, Donald Glover e Hiro Murai ci hanno dimostrato che la loro è una serie d’autore fatta e finita, capace di spezzare e reinventare regole senza preoccuparsi di compiere eventuali passi falsi: visti i risultati, non è un rischio che sembrano neanche lontanamente correre.

Voto: 9+
Atlanta – Stagione 3
Con uno scarto di ben quattro anni dalla stagione precedente, il pluripremiato show di Donald Glover Atlanta torna con una terza annata che, come già visto nei primi episodi, porta i protagonisti in tour per l’Europa, con un cambiamento significativo dal punto di vista delle ambientazioni e delle atmosfere – in qualche modo a noi anche più vicine e familiari – ma non dei temi trattati, continuando a disegnarsi come una serie che vuole esplorare e trattare il razzismo e la discriminazione da diversi punti di vista; ovviamente sempre con lo stile satirico e surreale che la contraddistingue.

Atlanta non è nuova a configurarsi come una serie che non fa di una trama orizzontale forte e preponderante il suo punto di forza: siamo abituati, infatti, ad episodi molto verticali, capaci di esaltare il formato televisivo del prodotto e di rendersi quasi estranei al continuum dello show. Se prendiamo, per esempio, episodi straordinari come “B.A.N.”, “Teddy Perkins” o “Woods”, li ricordiamo come puntate che possono essere tranquillamente estrapolate dal loro contesto macro-narrativo ed essere godute singolarmente senza che si perda un briciolo della loro qualità o del loro senso. Non per niente questa caratteristica della serie è stata sottolineata più volte da Donald Glover che ne ha paragonato le stagioni come degli album dai quali si possono ascoltare questa o l’altra traccia – che in questa metafora rappresentano gli episodi – in modo non per forza continuativo. A corroborare questa particolarità stilistica di Atlanta è la scelta autoriale di non proseguire in modo logico e lineare il racconto, con salti temporali, digressioni narrative, episodi nei quali i protagonisti nemmeno appaiono e tanti altri artifici di scrittura che rendono assolutamente imprevedibile la serie.

È proprio a queste caratteristiche a cui si fa riferimento quando si dice che Atlanta è una serie a suo modo unica, e questa terza stagione continua a confermare l’eccezionalità dello show nel panorama televisivo contemporaneo. A renderla diversa, tuttavia, dalle stagioni precedenti, è la scelta della writers room di inserire non un paio ma ben quattro episodi standalone nei quali i protagonisti sono personaggi inediti e totalmente slegati dal viaggio di Earn, Al, Van e Darius. Questi episodi che raccontano storie a sé stanti sembrano uscire direttamente da una serie antologica tipo The Twilight Zone – in effetti hanno quasi tutti atmosfere che richiamano la famosa serie fantascientifica – e sono stati molto criticati non per gli episodi in sé che, anzi, mantengono un livello sempre molto alto di scrittura, ma più che altro perché distoglierebbero lo sguardo da quello che interessa davvero agli spettatori, ovvero concentrarsi sulle avventure dei quattro protagonisti. In linea di massimo è vero che seguire dei personaggi che si conoscono e sui quali si è lavorato per anni è un plus per qualunque tipo di storia – a maggior ragione perché è esattamente quello su cui si basa il racconto seriale – ma è anche vero che, come si diceva, Atlanta ha sempre funzionato anche in modo diverso ed è proprio questa sua atipicità a renderla interessante e sperimentale; in ulteriore difesa degli autori bisogna sottolineare che la terza e la quarta stagione – scritte e girate insieme – sono state realizzate durante la pandemia, con possibilità logistiche più limitate e, probabilmente, con la necessità di ridurre al minimo gli attori coinvolti in singoli set.

Il primo di questi episodi “speciali” è stato il primo della stagione, “Three Slaps”, episodio che rievocava un vecchio fatto di cronaca del 2018. A seguirlo è il quarto episodio, intitolato “The Big Payback”, che si concentra sul tema del risarcimento monetario che dovrebbe essere ottenuto da tutti i discendenti di schiavi nei confronti delle famiglie che discendono da coloro che ne erano proprietari e che, quindi, ne hanno ereditato le fortune e le ricchezze. Il tema del payback è al centro di molte discussioni negli USA: l’episodio porta all’estremo le conseguenze che deriverebbero da una sentenza positiva in tal senso, creando un precedente al quale le persone si aggrappano per ottenere il suddetto risarcimento anche in modi violenti. È interessante come il punto di vista scelto da Francesca Sloane – sceneggiatrice dell’episodio che ha lavorato anche a Fargo e a The First – sia quello di un uomo bianco, come a voler immaginare quali sarebbero le reazioni e le conseguenze sulla vita di una persona che “subisce” questa sentenza e viene socialmente emarginato per crimini non commessi direttamente da lui ma da antenati che non sapeva nemmeno di avere. L’obiettivo non sembra essere né quello di creare empatia con il protagonista – un bravissimo Justin Bartha – né tantomeno quello di giustificare un risarcimento di massa così violento e feroce, bensì quello di far riflettere sulla fallacia di qualunque tipo di estremismo ideologico; è lo stesso Marshall, il protagonista, infatti, a rendersi conto verso la fine dell’episodio della ragionevolezza delle richieste di Sheniqua – la donna che gli chiede i soldi – e degli altri discendenti di schiavi che avanzano pretese, sebbene non riesca a giustificarne il modo o le conseguenze nefaste che ha avuto sulla sua vita. Come sempre succede con Atlanta, questo episodio è capace di scuotere e far riflettere, oltre che essere sagace e tagliente su argomenti così delicati senza offrire soluzioni facili.

Anche “Trini 2 De Bone” e “Rich Wigga Poor Wigga” sono esemplari in tal senso. Il primo esplora il tema del child neglect, ovvero di tante famiglie benestanti che trascurano l’educazione dei propri figli affidandoli alle cure e all’educazione delle tate. Il paradosso dell’episodio nasce quando i genitori, bianchi ovviamente, vengono a conoscenza della cultura da cui proviene la donna che per tanti anni si è presa cura del figlio dopo la sua morte, ne sono spaventati: questo crea un contrasto evidente con la percezione che ne ha invece il bambino, rispettoso e adorante nei confronti di quel mondo. L’intelligenza della scrittura dell’episodio – qui la penna è di Jordan Temple – sta anche nel ribaltare la prospettiva del problema, con i parenti della tata che rimproverano alla morta il fatto che si sia presa più cura dei bambini che accudiva per lavoro che dei suoi stessi figli.

Il secondo è un episodio girato interamente in bianco e nero e agisce su più livelli: il tema centrale è particolare e spinoso, poiché si interroga in sostanza su cosa significhi essere un nero in America. La scelta cromatica sottende la questione e contribuisce al surrealismo della vicenda: Aaron, il protagonista interpretato da Tyriq Withers, ha il padre nero ma si mostra come un bianco e passa il suo tempo con amici bianchi; nella puntata deve però dimostrare ad un imprenditore di “essere nero” per ottenere una prestigiosa borsa di studio. Il ragazzo affronta una crisi di identità che attraversa fasi comiche e grottesche – l’audizione davanti ai tre “giudici”, una sfida a colpi di lanciafiamme a scuola – e confronti poco chiarificanti con il padre – addirittura la sua prospettiva diventa quella di affermare che essere neri in America ti renda la vita più facile. Il nocciolo della questione è il ribaltamento della cultura dominante, tanto che alla fine il protagonista ambirà talmente “essere nero” che sceglierà di abbracciare totalmente quell’identità, a costo di rinunciare a se stesso. La satira messa in piedi da Donald Glover – autore completo, sceneggiatore e regista, dell’episodio – è pungente e coglie in pieno l’assurdità delle discriminazioni basate sul colore della pelle: la linea di dialogo simbolo dell’episodio arriva sul finale, quando Robert S. Lee – interpretato da Kevin Samuel, morto appena una settimana prima della messa in onda – dice al ragazzo sull’ambulanza che farsi sparare dalla polizia è quanto di più nero ci possa essere in America.

Per quanto riguarda il percorso dei protagonisti, invece, Atlanta segue una strada meno sperimentale e più simile a quanto aveva fatto nelle scorse stagioni. Gli episodi sono sempre tematici e circoscritti ad alcuni momenti del tour di Paper Boi – come si diceva, pochi show come Atlanta sono capaci di esaltare la componente seriale del racconto – e sono accuratamente scelti per raccontarci come stanno vivendo questa nuova fase della loro vita, fatta di successo e di ambienti molto diversi rispetto alle pericolose strade della loro città. Earn e soci devono ora confrontarsi con la fama e, dunque, entrare in logiche relazionali basate su denaro e notorietà: in “White Fashion” per esempio Al viene invitato ad un tavolo dove ricchi intellettuali e personaggi famosi pensano a dei modi per fare beneficenza per ripulire la propria immagine – con tutta una critica a questo genere di operazioni – mentre in “The Old Man and the Tree” allo stesso modo il rapper gioca e vince una grossa somma di denaro ad un tavolo da poker con un ricco banchiere che però si rifiuta di pagarlo.

Queste nuove situazioni e ambientazioni portano nuova linfa allo show che, sempre con lo stile che lo contraddistingue, si muove in un nuovo mondo popolato però dagli stessi problemi che affliggono la vita delle persone di colore, come possono essere antiche feste tradizionali europee che fanno tranquillamente uso del blackface in “Sinterklaas Is Coming”. Earn, Al e Darius svelano, dunque, un mondo apparentemente moderno e inclusivo ma in realtà, non appena svelato il velo di Maya, ricco di contraddizioni e fortemente diseguale: un mondo in cui il privilegio e la ricchezza si trasformano in strumenti per un’oppressione silenziosa, che in Atlanta vengono raffigurati attraverso il surreale, come per esempio ristoranti stellati super esclusivi che servono mani in pastella ai propri ospiti che mangiano con gli occhi coperti.

Due tra gli episodi più riusciti e interessanti della stagione sono l’ottavo, “New Jazz” e l’ultimo, “Tarrare”. Il primo è incentrato su Alfred e racconta di un trip indotto da droghe in quel di Amsterdam che lo porta ad affrontare un viaggio temporalmente circolare guidato dallo “spirito guida” della madre Lorraine, qui nelle vesti di una giovane donna interpretata da Ava Grey. Il viaggio è un’occasione per Al per pensare alla sua carriera e alla sua musica, oltre che portarlo a riflettere sui suoi punti fermi dopo il suo grande successo: può ancora fare affidamento su Earn e Darius? Come è cambiata la sua vita adesso?
Necessario menzionare l’inaspettato cameo di Liam Neeson che interpreta se stesso: il suo personaggio e la linea di dialogo nell’episodio fanno riferimento ad un fatto davvero accaduto nella sua vita e del quale l’attore si vergogna profondamente. Circa quarant’anni fa, infatti, una sua amica è stata aggredita e violentata da un uomo di colore; nei mesi successivi l’uomo provò una fortissima rabbia verso chiunque avesse la pelle scura.

Anche “Tarrare” contiene un cameo illustre: Alexander Skarsgaard (True Blood, Big Little Lies) interpreta, infatti, se stesso e si dipinge come un depravato sessuale con un auto-ironia davvero esilarante. L’episodio è però incentrato su Van e sulla sua nuova vita a Parigi: il racconto è veicolato attraverso lo sguardo di Candice (Adriyan Rae) che segue l’amica nelle sue bizzarre avventure e cerca di comprendere come la ragazza che conosceva ad Atlanta è diventata quella che è ora. Anche in questo caso sopraggiungono elementi stranianti e totalmente folli, uno fra tutti il pestaggio di Emilio con una baguette, e bisogna sottolineare una performance straordinaria di Zazie Beetz che, soprattutto nella scena del rinsavimento finale, riesce a veicolare perfettamente il mal de vivre che affligge il suo personaggio.

Non è semplice dare un giudizio a questa terza stagione di Atlanta, da un lato perché si configura come la prima parte di un dittico – la quarta stagione, si diceva, è stata scritta e girata insieme e andrà in onda presumibilmente durante l’autunno di quest’anno – e dall’altro perché i tanti episodi standalone la rendono molto variegata al suo interno e poco coesa. In linea di massima la qualità della scrittura e l’ottimo comparto tecnico – a partire dal regista della maggior parte degli episodi, Hiro Murai – continuano a regalarci un prodotto di altissimo livello, forse meno di impatto delle scorse stagioni e con meno picchi ma certamente uno degli show più rilevanti e folli di questa era televisiva.

Voto: 8½
Atlanta – Stagione 4
La quarta e ultima stagione di Atlanta, pur essendo fortemente legata alla precedente, riesce ad imporsi nel panorama seriale dell’anno corrente in modo più che positivo e a portare a casa un risultato eccezionale, tanto dal punto di vista stilistico che da quello della sceneggiatura. Seguito ideale di una terza stagione più dispersiva, la serie si chiude in un modo pressoché perfetto, riuscendo a dare la giusta importanza ad ogni storyline e con una conclusione degna del percorso finora affrontato.

Che Atlanta fosse un prodotto destinato a influenzare la cultura seriale moderna lo si poteva immaginare già nel corso della seconda stagione, grazie ad episodi “stand-alone” (primo fra tutti “Teddy Perkins”) che avevano cementato lo status autoriale del binomio Donald Glover/Hiro Murai. L’ultimo blocco di episodi spinge ancora di più sulle caratteristiche che l’hanno resa così peculiare, confezionando a tutti gli effetti un’annata conclusiva che rasenta la perfezione. Il team di autori è in grado di imprimere una direzione precisa a un gruppo di episodi che, all’apparenza, potrebbero risultare scollegati tra di loro, lasciando nello spettatore una sensazione di chiusura del cerchio definitiva.

Ma di cosa parla la quarta stagione della serie? La vera protagonista è proprio Atlanta – come luogo e come spirito – e questo ce lo dice proprio il primo episodio, dal titolo “The Most Atlanta”. Il modo in cui gli eventi e il loro ciclico ripetersi viene gestito getta una nuova luce sull’intera produzione, in particolare sul modo in cui si raccorda alla stagione passata.

Espressione di tale tendenza positiva è il percorso intrapreso da Van e Earn, che trova risoluzione in un episodio che pone Atlanta al centro della narrazione – pur ambientandosi ai suoi confini. Si tratta di una coppia e di due personaggi che sono stati sapientemente costruiti nel corso delle stagioni; vederli insieme nel primo episodio, nel conforto di Atlanta come l’hanno sempre conosciuta, non risulta spiazzante per lo spettatore, pur ricordando quanto Van abbia attraversato nella scorsa stagione. Il momento di risoluzione della loro avventura coincide con uno degli episodi più “normali” della serie – e che risulta essere egualmente riuscito, anche per le performance impeccabili che lo caratterizzano. “Snipe Hunt” rappresenta il punto di arrivo di una costruzione iniziata nel pilot della serie, un momento in cui la fragilità di Earn emerge nelle lacrime silenziose ma ben visibili, e in cui la cinematografia di Murai si esprime in tutta la sua delicatezza, consegnandoci un episodio esente da qualunque sbavatura. All’inizio della stagione Van ed Earn riescono ad uscire, a suon di calci e pugni – in un modo tipicamente surreale e in pieno Atlanta-style – da un centro commerciale dall’aura spettrale; pochi episodi dopo, in un contesto diametralmente opposto – quello di una tenda da campeggio fin troppo grande per sole tre persone – si ritrovano ancora insieme, ma forti di una consapevolezza nuova. Nonostante la robbing season, che li aveva derubati della loro giovinezza, è una vita nuova quella che li aspetta al di fuori di Atlanta: una vita da percorrere insieme.

Che la serie sappia esattamente che direzione dare ai propri personaggi è più che evidente anche nel caso di Alfred, il cui percorso ha un approdo per nulla scontato. “Andrew Wyeth. Alfred’s World” è la lettera d’addio a un personaggio che è tutto fuorché stereotipato, e la cui evoluzione è in realtà iniziata nella seconda stagione. Se nell’episodio allora dedicatogli Alfred si perdeva nei boschi e ritrovava se stesso (per poi perdersi di nuovo ad Amsterdam, sulla scia del successo sempre più grande), il nono episodio di questa ultima stagione mostra una vita speculare, e un Alfred che sembra davvero aver trovato il senso delle sue giornate. Come sempre, Atlanta anticipa le vicende dei suoi personaggi, e dissemina di piccoli indizi gli episodi, al punto tale che la scelta di Alfred di provare la vita nei campi non sembra assolutamente così fuori dal normale. Lo stesso Darius aveva sottolineato come Alfred non fosse tipo da fidanzate; ed è un Alfred che, diversamente dal passato, si gode il passare dei momenti, la vita che lentamente scorre, quel picco surreale che sempre la accompagna. Il tocco del regista Hiro Murai è anche in questo caso un segno distintivo, che rappresenta il richiamo della natura, questa volta vissuto a pieno, nella paura quanto nella calma. In un moto centrifugo che sembra caratterizzare tutti i protagonisti – tranne uno -, Alfred ritrova la sua dimensione più intima lontano da Atlanta. Ancora una volta, Atlanta è la città-protagonista, il punto focale delle vite dei personaggi, e al contempo la realtà da cui tutti sembrano allontanarsi.

Muovendoci verso il finale di serie – che il regista Hiro Murai ha rivelato non essere stato la prima scelta per chiudere lo show, ma quella che poi si è rivelata più vincente – si riconfermano i tratti spiccatamente onirici che hanno caratterizzato la lunga storia di Atlanta. Non è un caso che la serie si concluda con un episodio interamente dedicato a Darius – personaggio iconico e costantemente avvolto da un alone di mistero -, e non è un caso che l’episodio in sé sia rappresentativo di tutta la poetica dello show, tanto dei suoi eccessi quanto della sua innata capacità di disvelare una trama orizzontale in realtà sempre presente, che riverbera in ogni scena.

Nel finale di serie, infatti, Darius vive scenari progressivamente più assurdi, innescando, nello spettatore, il seme del dubbio che un po’ ha pervaso l’intera storia: che si tratti, come il titolo dell’episodio suggerisce, di un sogno – una realtà fabbricata dalla mente di Darius? Nel progredire dell’episodio, Darius affronta situazioni che sembrano sempre meno disancorate dalla realtà, ma ancorate ad Atlanta, ancora fulcro delle vicende. L’ennesima avventura con la gang si chiude con un’espressione di sgomento mista a paura – e il suono delle sirene della polizia -, che riflette quella di chi guarda. Lo spettatore non può veramente sapere se quanto rappresentato in quattro stagioni sia o meno un sogno – tanto vi sono dei validi indizi per suffragare questa tesi, tanto lo stesso Darius potrebbe sognare avventure con gli amici ormai trasferitisi lontano -, ma è la stessa serie a fornici la chiave di lettura del suo finale aperto. Non importa stabilire se quanto mostrato sia vero solo in parte, o completamente: ciò che importa è che la serie ha avuto fin da subito il coraggio di osare e di imporsi con coerenza sempre maggiore sulla scena seriale di questi anni, reinventandosi nel modo migliore possibile dopo uno hiatus lungo quattro anni.

Quanto visto da Darius è simbolo di quanto di bello gli spettatori hanno visto in questi anni: una serie-tv che è un piccolo gioiellino di creatività e sperimentazione, di performance ottime e di scrittura che non ha mai perso il suo obiettivo principale. Come per Darius negli ultimi secondi dell’episodio, allo spettatore non è dato altro che sedersi sul divano e godersi lo spettacolo: uno spettacolo che rimarrà nel cuore e nella mente di chiunque l’abbia visto, tanto per la specificità di alcuni episodi semplicemente iconici, quanto per la sua trama orizzontale.

Se la terza stagione aveva ottenuto qualche critica – seppur leggera, dovuta alla qualità elevata del narrato, che però poco si concentrava sulla gang -, questi ultimi episodi ritornano a focalizzarsi su Atlanta e sul quartetto protagonista, riuscendo a gestire bene la transizione tra ciò che i personaggi erano prima e ciò che sono ora. In particolare, la costruzione ha un effetto più che riuscito nei confronti di Earn, protagonista (anche indiretto) dei passaggi più significativi di quest’annata; sia nell’episodio che ce lo regala in terapia, con una performance eccezionale e una costruzione della vendetta che non lascia spazio ad alcun giudizio, sia nell’episodio “mockumentary”, diretto proprio da Donald Glover. È evidente che nell’episodio dedicato al primo (fittizio) CEO nero di Disney si rifletta una lettura del mondo artistico che è propria della serie, già espressa a pieno nello straordinario “Teddy Perkins”. Anche in “The goof who sat by the door” si percepisce uno studio e una rivoluzione sul significato dell’opera e dell’artista, e sulla sofferenza che sembra dover sempre caratterizzare una vita dedita all’arte.

Atlanta, in questa stagione finale, riconferma il suo valore imprescindibile, la sua ricchezza di contenuti che ha pochi eguali nel panorama seriale, e il suo sguardo attento e sempre riflessivo sulla realtà e su cosa ci circonda. La scelta di chiudere con un finale aperto non fa che giovare all’economia di un prodotto che ha sempre percorso un filo immaginario, tra realtà e versioni parallele, riuscendo a risultare convincente in ogni singolo elemento della narrazione.

Voto Stagione: 9
Voto Serie: 9
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