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Better Call Saul – 1×01/02 Uno & Mijo
La nuova creatura di Vince Gilligan e Peter Gould ha fatto parlare di sé fin dall’annuncio della sua messa in onda, mettendo bene in chiaro che l’universo di Breaking Bad non aveva ancora detto l’ultima parola. La storia di Walter White è finita, ma quella di Saul Goodman si inserisce nel quadro con una coppia di episodi carichi di aspettative.

A conferma di ciò arrivano degli ascolti a dir poco incredibili, andando a costituire il miglior debutto di sempre per uno show via cavo: nessuna sorpresa, visto il boom della serie “madre” nella sua stagione conclusiva, ma perlomeno si ha la garanzia che il nuovo cavallo di battaglia dell’AMC non dovrà preoccuparsi di un’eventuale cancellazione. A fronte di una seconda annata già confermata, quindi, la domanda è una sola: cos’è, di preciso, Better Call Saul?

Law offices of James McGill. How may I direct your call?

All’inizio si parlava di una comedy a tinte drammatiche con un formato da 20 minuti, e quel “75% di risate e 25% di dramma” era diventato praticamente un tormentone; poi sono arrivate le smentite, l’annuncio che quello a cui avremmo assistito sarebbe stato un prodotto fortemente legato al formato della serie da cui è nato, con un’atmosfera meno cupa di quella creatasi nelle ultime annate. Le aspettative erano alte, ma il rischio che si creasse qualcosa di troppo legato al passato non poteva essere trascurato ‒ due stagioni di fan service con continui rimandi alla storia di Walter White avrebbero potuto intaccare lo status di quella che è da molti considerata una delle serie con l’arco narrativo più completo di sempre; fortunatamente, questo esordio ha la capacità di scacciare tali paure, affermando con forza che Better Call Saul è perfettamente in grado di reggersi in piedi da sola.
I rimandi alla prima creatura di Vince Gilligan ci sono e sono inevitabili, ma la forza di questi due episodi sta nella capacità costruire qualcosa che non debba essere sempre e comunque paragonato a Breaking Bad, grazie ad un certo numero di soluzioni che replicano la formula vincente della serie cambiandone gli ingredienti, o presentando il tutto sotto una luce diversa. Si pensi, ad esempio, alla scena iniziale, che deve molto al cold open di “Live Free or Die” eppure se ne distacca, riuscendo a comunicare una sensazione simile ma allo stesso tempo completamente diversa.

Money is not beside the point… Money is the point.

Il personaggio che spicca di più in questi primi due episodi è, ovviamente, James M. McGill: un protagonista che su carta poteva sembrare poco consistente come tale e che si pone, invece, come uno dei punti di forza dello show, grazie ad una caratterizzazione solida e all’ottima performance di Bob Odenkirk, capace di conferire ulteriore spessore al tormentato personaggio. La situazione, in questo caso, è completamente diversa rispetto a quella presentata all’inizio di Breaking Bad: il futuro Saul Goodman è un avvocato che fatica ad emergere in un ambiente difficile, non un uomo di mezza età a cui viene diagnosticato il cancro ai polmoni. La discesa morale viene fin da subito percepita (e calcata nel secondo episodio), certo, ma si parla di proporzioni e nature completamente diverse, vista la posizione in cui sappiamo arriverà il protagonista: ed è per questo che, quando vengono presentate situazioni tipicamente “alla Vince Gilligan”, le soluzioni appaiono tanto riuscite quanto inaspettate. Lo spettatore è ormai abituato ad un altro tipo di mondo, e la narrazione gioca con queste aspettative riuscendo a sorprendere e conferendo al tutto dei tratti più leggeri di quelli a cui si è abituati. In poche parole, si può dire che il tono che si sta cercando sembra essere quello che la serie madre ha sempre sfiorato (soprattutto all’inizio) ma mai abbracciato del tutto, pur calcando meno sulla componente violenta e per certi versi pulp che aveva caratterizzato Breaking Bad.

You know, Jimmy, sometimes, in our line of work, you can get so… Caught up in the idea of winning that you forget to listen to your heart.

Uno dei sopracitati dubbi a proposito della serie riguardava la sua capacità di costruire una storia in grado di funzionare da sola, anche dopo aver tagliato i legami con lo show da cui deriva: “Uno” e “Mijo” riescono a convincere grazie ad una trama piuttosto consistente, in grado di mettere le basi (narrative e tematiche) per lo sviluppo di un’annata più che soddisfacente. I personaggi chiave sono quasi tutti inediti e ciò dà agli autori la possibilità di creare un prodotto abbastanza indipendente, affrontando dei temi altrettanto nuovi: si pensi, ad esempio, alla relazione di Jimmy con Chuck, più un mentore che un fratello, che fornisce degli spunti interessanti a proposito della costruzione di una carriera onesta e rispettabile, in netto contrasto con quella che sarà la futura occupazione del protagonista. Risulta vincente, inoltre, la scelta di affidare al personaggio di Nacho il ruolo del criminale, figura tanto utile allo sviluppo della trama quanto ricca di spunti dal punto di vista caratteriale, in quanto nettamente diversa dai villain già visti in Breaking Bad. Si tratta ancora di una caratterizzazione piuttosto abbozzata, ma si può dire che le potenzialità per un’evoluzione soddisfacente ci sono tutte.

It’s showtime, folks.

Mettendo da parte storia e personaggi, comunque, si può certamente dire che la resa tecnica è quella su cui si poteva fare maggiormente affidamento, e infatti in quanto a regia ci si trova ai soliti, incredibili livelli. Il primo episodio, girato da Vince Gilligan, è una gioia per gli occhi, ma la mano di Michelle MacLaren in “Mijo” si sente ancora di più, grazie a delle riprese visivamente eccezionali; è soprattutto in questo che si sente l’eredità della serie madre, in quelle scene lente e lunghissime (a volte perfino un po’ troppo), quei montaggi perfettamente scanditi, quello stile di scrittura sempre ironico e particolare. Per quanto riguarda la colonna sonora, invece, siamo comunque a livelli altissimi, ma si può notare come Dave Porter sia decisamente più presente che in Breaking Bad, in cui i silenzi erano una componente fondamentale di quasi ogni scena; in questo caso si è scelto un approccio diverso che si conforma meglio allo stile della serie, e il risultato è ovviamente azzeccato.

“Uno” e “Mijo”, quindi, sono due episodi che riescono a far fronte alle incredibili aspettative che gravavano sullo show, il quale, nonostante alcuni piccoli difetti (nel secondo episodio si cammina un po’ troppo sul filo del citazionismo, e ogni tanto la struttura narrativa risulta frammentata), convince pienamente, costruendo una storia che si rivela fin da subito molto interessante. Con questo esordio, insomma, Better Call Saul dimostra che uscire dall’ombra di Breaking Bad non è affatto un’impresa impossibile.

Voto 1×01: 8
Voto 1×02: 8-
Better Call Saul – 1×03 Nacho
“Copia” e “omaggio” sono due termini che vengono spesso sovrapposti, specie quando il secondo viene usato, ad esempio, per rigettare eventuali accuse di plagio.

Ovviamente non è questo il caso di Better Call Saul, e anzi, in un certo senso, la nuova serie di Vince Gilligan ci aiuta a distinguere ulteriormente le due categorie: pur conservando intatto il mood dello show originale e servendosi di un linguaggio simile, lo spin-off di Breaking Bad racconta infatti una storia diversa e sperimenta scegliendo soluzioni altrettanto indipendenti.
 
Le modalità narrative sono le medesime, con una costruzione dell’intreccio che ricorda più volte quella struttura a incastro che in Breaking Bad presentava ogni singola vicenda, ogni piccola scelta come conseguenza della precedente, per non parlare dell’interesse, anche qui abbastanza evidente, per la dimensione della casualità. Allo stesso tempo, però, non troviamo in “Nacho” lo stesso gusto per l’imprevedibilità e le soluzioni macchinose che costituiva buona parte del fascino della serie originale (e del suo personaggio principale): il piano dei Kettleman, piuttosto elementare, viene scoperto istantaneamente dallo spettatore, senza che ciò intacchi la buona riuscita delle sequenze di riferimento. Più in generale, per quanto certe scelte stilistiche (specie sotto il profilo tecnico) siano senza dubbio debitrici della serie madre, Better Call Saul sembra aver impostato un percorso a sé stante che la qualifica, quindi, più come omaggio o, se vogliamo, rielaborazione, che come semplice copia.

Ce ne accorgiamo soprattutto osservando il comportamento del protagonista, il cui arco evolutivo poteva sembrare, in un primo momento, destinato a ricalcare per filo e per segno quello di Walter White, ma che ci appare adesso sempre più svincolato dal modello di partenza. Anzi, a ben vedere, Jimmy/Saul e Walter/Heisenberg condividono soltanto il “possesso” di un alter ego, che in effetti per il primo non si è ancora neanche manifestato (e chissà quando lo farà). Per il resto le due figure sono molto distanti l’una dall’altra: James McGill non è un genio frustrato che vuole disperatamente prendersi una rivincita, ma un uomo ordinario che cerca di arrangiarsi con mezzi non sempre legali. La sua storia non è, almeno per il momento, una discesa agli inferi paragonabile a quella di Heisenberg ma, piuttosto, il tentativo di restare a galla tra un compromesso etico e l’altro.
D’altra parte il Saul di Breaking Bad ‒ il risultato dell’evoluzione che Jimmy sperimenterà in questo spin-off ‒ non è mai stato l’uomo spaventoso e sicuro di sé in cui si è trasformato nel tempo Mr. White bensì una figura che, per quanto disonesta e spregiudicata, dimostrava di avere degli scrupoli che Walt stesso non possedeva. Conoscendolo adesso (grazie anche al flashback iniziale) sappiamo che non potrebbe mai diventare uno di quei criminali che si presenteranno alla porta del suo studio in un futuro ancora lontano: per quanto abbia sempre vissuto ai limiti della legalità, il suo destino non è quello del genio del crimine, ma piuttosto del negoziatore che media tra due mondi senza mai attraversarne completamente i confini. Better Call Saul probabilmente racconterà questo precario equilibrismo più che una caduta netta verso il basso, pur con tutte le similitudini del caso: lo dimostrano le esitazioni di Jimmy nel superare un certo limite etico, e i goffi tentativi di rimettere le cose a posto una volta che il danno è stato fatto.

Resta da capire se anche lo show continuerà a vivere, come il suo protagonista, in una sorta di limbo ‒ in questo caso tra comedy e drama. Al momento infatti, non sembra avere un’identità definita, come se non riuscisse ad essere né l’uno né l’altro: a tratti pare caratterizzarsi nettamente come una serie dalla forte vena comica ma senza essere in grado, purtroppo, di elaborarla al meglio, condizionando in negativo anche l’aspetto drama. Il riferimento è ad esempio ai siparietti con Mike, fin troppo ripetitivi e un po’ stantii, il cui unico merito è quello di aver condotto all’illuminazione sul nascondiglio dei Kettleman. L’impianto ad incastro, di cui si parlava sopra, riesce quindi a salvare in extremis alcune scelte poco felici e a darvi senso… ma basterà in futuro? O la serie continuerà a deludere proprio per quegli aspetti che la svincolano maggiormente da Breaking Bad?

Le basi per realizzare un prodotto solido ci sono tutte, ma la buona riuscita dell’esperimento dipenderà molto dalla capacità di eccellere anche allontanandosi progressivamente dall’originale ‒ un risultato non così scontato nonostante la buona prova di “Nacho”. Perché “omaggio” sarà pure meglio di “copia”, ma per una serie di qualità rimane comunque un’etichetta fastidiosa.

Voto: 7½
Better Call Saul – 1×04 Hero
Quando si costruisce un nuovo palazzo a partire dalle fondamenta di quello precedente occorre saper innovare senza tradire, sull’onda di un instabile equilibrio capace di indirizzare il risultato in mille direzioni diverse. Better Call Saul pare muoversi proprio all’interno di questo filo sottile: l’eco di Breaking Badancora percettibile – comincia a modularsi intorno ad una cifra stilistica autonoma.

In prima analisi, questo processo si configura attraverso una dilatazione temporale non del tutto lineare: l’ombra del futuro condiziona la ricezione del presente, a sua volta complicato da frammenti di un passato che si staglia sulla narrazione come possibile elemento unificante. La messa in scena di una dimensione temporale gestita su più livelli è la base su cui si poggia un meticoloso lavoro di caratterizzazione che non coinvolge soltanto i personaggi, ma anche i luoghi e le storie. Questi primi episodi si dilatano infatti all’interno di un processo definitorio che assume talvolta un carattere introduttivo, approfondendo gli attanti coinvolti nel tentativo di conferirgli una particolare specificità. “Hero”, da questo punto di vista, rappresenta una sosta importante: le trame orizzontali tirate in ballo finora – i Kettleman e Nacho – subiscono un arresto diegetico a favore dell’approfondimento del personaggio di Saul/James, vero centro propulsore dell’azione. Ogni carattere entra nell’economia del racconto solo in funzione definitoria del futuro Saul, che comincia a dotarsi di elementi qualificanti una personalità molto più stratificata rispetto a quella recepita ed archiviata con Breaking Bad.

“S’all good, man”

Essere già a conoscenza della meta che si andrà a raggiungere pone come obbligo narrativo quello di variare e articolare il “viaggio” attraverso un intreccio capace di generare imprevedibili conseguenze. Il tragitto è ancora lungo, ma in questi primi episodi lo show mostra già di aver compreso tale necessità: la caratterizzazione di McGill sgorga direttamente da una particolare articolazione narrativa degli eventi, divenendo il reale fulcro tematico dell’episodio. La struttura dell’intreccio del flashback si ripete pedissequamente nell’azione eroica di James con una naturale consequenzialità che riesce a chiarire uno dei punti cardine del personaggio: l’ingenuità falsata, esibita nelle due truffe, trae la sua efficacia da quella spinta positiva che pervade la vita di McGill senza però riuscire a prendere il sopravvento. Rispetto al suo celebre antecedente, Saul non sembra avere un arco di trasformazione che rompe un’esistenza tacita e accorta per finire in un contesto peggiore rispetto a quello originario. Qui siamo di fronte ad un procedimento quasi inverso: è la parte corrotta che si cerca di eliminare senza successo. Nell’intrecciarsi di presente (la truffa dell’eroe) e passato (il traffico dei falsi rolex), narrati attraverso una costruzione diegetica simile, si condensa la linea programmatica dello show: l’imponderabile deriva di un’endemica tendenza a falsare gli eventi in modo da ottenere il maggiore vantaggio possibile.

Upon this rock, I will build my church

Nella sottile ironia con cui si dipana lo scontro con Hamlin si racchiude un altro elemento importante su cui si stratifica la caratterizzazione di James McGill: il ferreo attaccamento all’utilizzo del proprio nome. L’assetto espositivo dell’episodio gioca molto su questo elemento, forte della consapevolezza che i più sono già a conoscenza di come tale attaccamento finirà con il cambio in Goodman. La battuta – S’all good, man – esibita nel flashback distoglie l’attenzione dal fatto che il nome “truffaldino” di James sia in effetti proprio Saul, dando un ulteriore spunto sul metaforico significato che potrebbe celarsi dietro il cambio di nome: l’identità posticcia con cui il nostro protagonista toccherà l’apice può certamente essere nata come una sorta di mantra con cui rassicurare i clienti, ma può anche ergersi a simbolo di un forte legame con quel passato a Cicero in cui, fingendo di essere ciò che vorrebbe, James raggiunge l’essenza del suo vero io.

All’importanza del “nome” si lega anche l’esigenza di emergere come avvocato, di volersi staccare di dosso quell’etichetta con cui i Kettleman l’hanno subito inquadrato: il classico difensore delle persone colpevoli. Da qui parte l’edificazione di un brand che, come sottolinea Kim, è invece una dichiarazione di guerra troppo estesa nel bisogno di avere una rivalsa personale. Ancora una volta, ogni tentativo con cui James cerca di elevarsi finisce per allontanarlo sempre di più dal proposito originario: la pietra su cui edificherà la sua chiesa è il frutto di una corruzione, e la lotta contro Hamlin è lo spunto attraverso cui diventare un eroe con l’inganno. Jimmy è come teso a doppio filo tra ciò che gli viene naturale e ciò che invece vorrebbe far accadere: la scena con cui crea una giustificazione professionale per il denaro dei Kettleman è quasi l’esplicitazione di un desiderio forte quanto la volontà di poter esibire con orgoglio il suo nome. Il fatto che la maggior parte degli spettatori sappia già come entrambi i desideri verranno disattesi carica il tutto di un’ironia così tagliente da risultare un efficace stilema espositivo attraverso cui consolidare quella necessaria spinta all’autonomia rispetto allo “scomodo” materiale di partenza.

It’s just showmanship, Chuck.

Tra tutti i personaggi entrati in contatto con McGill, Chuck è certamente quello più interessante: fratello e mentore, ma ancora di più unica vera fonte di quella carica positiva a cui James non riesce a cedere. Perso nelle sue inquietanti fobie, McGill senior conserva una dose di incoraggiamento per il più piccolo la cui veemenza è spesso mista alla paura di nutrire vane speranze. Infatti, James teme lo sguardo intimidatorio del fratello, così come quella sua lucida capacità di riuscire sempre a riconoscere nelle sue azioni l’emergere di quel “Jimmy lo scivolone” che batteva cassa sulla pericolosità del ghiaccio di Cicero. Chuck è l’esempio che Jimmy non riesce a seguire, è l’essenza di quel nome da cui non vuole separarsi, ma soprattutto è la vera e propria personificazione di quell’istinto alla correttezza che schiera James contro Saul. Conosciamo già il nome del vincitore, ma il percorso fatto fin qui riesce a creare quel filo di suspense per come si articolerà la battaglia.

In definitiva, “Hero” è un episodio di transizione: un altro elemento atto a comporre una sorta di mosaico illustrativo della specifica autonomia dello show. Per quanto si cominci a sentire la mancanza di una solida trama orizzontale, il grado di caratterizzazione del protagonista, messo a punto nella puntata, crea un punto di ripristino da cui poter iniziare a ingranare la marcia.

Voto: 7½
Better Call Saul – 1×05 Alpine Shepherd Boy
Better Call Saul, ovvero: la storia di come “Jimmy lo scivolone” divenne James McGill e poi Saul Goodman. A tre nomi appartenenti alla stessa persona si legano i tre livelli temporali della serie, che taglia con questo episodio il traguardo di metà stagione.

Non è facile abituarsi alla visione di questa serie: tra echi importanti e voglia di indipendenza, è sempre utile (se non fondamentale) ricordare che Better Call Saul è uno spin-off. Diversamente da cosa può succedere con un remake, cioè con la replica più o meno rielaborata e/o originale di uno stesso prodotto, lo spin-off ha necessariamente due matrici: il punto di partenza (Saul Goodman) e il punto di arrivo (Breaking Bad). Ecco perché è molto più importante capire cosa c’è e si sviluppa tra questi due termini: quali contenuti il buon Vince Gilligan si è inventato per mantenere della logica attinenza con il suo precedente capolavoro così da riuscire – tra, si spera, diverso tempo – ad agganciarli l’uno all’altro. “Alpine Shepherd Boy” è (almeno finora) l’esempio migliore e più concreto di questa allettante sfida.

Partendo dall’elemento più macroscopico, il primo e necessario aggancio è il luogo. L’Albuquerque che faceva da sfondo a Walter White è la stessa in cui si muove Jimmy, anzi, James McGill e il tentativo di appropriarsi di questo nome. Al di là delle somiglianze panoramiche, il punto fondamentale è che il luogo diventa una precisa scelta estetica di continuità visiva e narrativa. Se accettiamo di banalizzare momentaneamente Breaking Bad e descriverlo come la storia di uomo che cambia, è doveroso dire che probabilmente nessun altro posto poteva prestarsi così bene come scenario. Il New Mexico caldo e assolato è la terra di confine tout court, dove convivono da sempre due culture: si mischiano, si contaminano, si incrociano l’una sull’altra, eppure ciascuna cerca (paradossalmente) di mantenere una propria identità. Tra le maglie del racconto in sé, in entrambi i prodotti di Gilligan emerge prepotente la ricostruzione di un ambiente che si anima dei suoi personaggi mentre ne alimenta le azioni, raccontando le contraddizioni intrinseche dell’uomo che sono anche parte integrante di questo strano territorio – il tutto racchiuso in una circolarità funzionale ed affascinante. Non a caso, negli scorsi episodi il deserto aveva dominato la scena, mentre in questo episodio sono le zone residenziali a risaltare maggiormente in scena e a fare da contrappunto visivo.

Le mura domestiche, non a caso, sono descritte nello stesso identico modo: possono essere sia il rifugio che separa da tutto, sia il regno unico e indipendente in cui crescere le proprie ossessioni, oppure un lusso che non a tutti è concesso avere. In ciascuno di questi casi, la casa è un focolare animato dalle stesse contraddizioni che sono propri del luogo, ma anche della famiglia e poi dell’uomo singolo, che quindi le rinchiudono e le raccontano. Il grande possidente che vuole fondare un suo stato e stampa persino le sue stesse banconote, la donna che mette a testamento le statuine in ceramica, il padre di famiglia che vorrebbe brevettare un water parlante, sono tutte iperboliche e sarcastiche rappresentazioni delle manie umane, dove l’identità diventa megalomania e il riconoscimento pubblico che le ha attirate diventa solo più detestabile. Per Jimmy/Saul, a questo punto, il tentativo di impersonare qualcun altro per affermare la propria esistenza è solo l’ennesima tappa durante la ricerca di una sua autonoma identità; e ciò, tra le righe, è anche l’anima stessa di Better Call Saul intesa come serie.

Il contesto esterno è quindi la forma oggettivata di questa ricerca, che si fa sostanzialmente più esplicita ed esibita di quanto avveniva con Heisenberg/Walter White. Non per nulla, nel caso di questa serie si può parlare a tutti gli effetti di dramedy: il “dramma”, il movimento in scena, racconta e fa avanzare una storia che di fattuale ha ben poco finora; i momenti più strettamente comedy intrattengono e hanno il compito di rappresentare visivamente e in maniera più immediata. A sostegno di questa architettura che si può leggere a più livelli ci sono soprattutto i personaggi co-protagonisti, su cui brilla il sempre più interessante Chuck. “Alpine Shepherd Boy” è inoltre l’episodio che si concentra maggiormente su di lui, per metterne a fuoco la strana condizione mentale e per aumentare lo spessore del nostro protagonista. Chuck rappresenta infatti una molla interna per Jimmy/Saul in quanto modello di intelligenza ed integrità, ma nell’economia del racconto è anche la spinta d’azione maggiore per vedere il vero protagonista spogliato delle sue sovrastrutture e quindi per osservare la reale evoluzione verso l’avvocatuccio da pubblicità che diventerà.

In questo senso, altra carta vincente del racconto, e che lo allontana dalla banalità che poteva teoricamente essere, è la scelta di strutturare il tempo del racconto su tre piani: il passato fa capolino solo in pochi momenti così da rimanere come possibile spazio di manovra sempre disponibile, mentre il focus attento e puntuale è sul presente, cioè su chi è oggi Jimmy e su come arriverà a scegliersi come Saul Goodman. Rimane fuori il terzo piano, cioè il futuro, poiché su questo invisibile filo del rasoio si gioca tutta la gestione con Breaking Bad: essendo il livello più conosciuto e presente agli occhi dello spettatore, Gilligan ha giustamente scelto di non ignorarlo ma di arrotondarlo e incastrarlo con il contesto. Un esempio lampante su tutti: i poliziotti che arrivano alla porta di Chuck si insospettiscono e buttano giù la sua porta dopo aver millantato che fosse centro di produzione di metanfetamina. Il luogo e il tempo di oggi devono coincidere e riversarsi con il futuro seriale che è però contemporaneità temporale: in questo momento ad Albuquerque si sente parlare di metanfetamina e forse Heisenberg sta per muovere i suoi primi passi. Ecco che, magicamente, tutto torna in maniera naturale.

Ultimo appunto va al personaggio di Mike, che finalmente esce dal suo gabbiotto e si riprende la sua storia personale, quella rimasta abbozzata in Breaking Bad. Una volta buttato anche lui nell’azione, Better Call Saul aggiungerà sicuramente un pezzo importantissimo nell’ecosistema generale della serie. A mio avviso, la vera vittoria (se uno spin-off ne ha davvero una) non è l’indipendenza assoluta dal suo predecessore, ma la costruzione di qualcosa che sia sì diverso e a sé stante, ma in un certo senso che vada a completare, ad arricchire il racconto, ad aggiungere nuove ed interessanti sfumature ad un quadro già perfetto.

Voto: 8
Better Call Saul – 1×06 Five-O
Superata la metà della prima parte di stagione, Better Call Saul amplia il raggio d’azione della sua narrazione: gli autori infatti decidono di concentrare un intero episodio sulla storyline dedicata a Mike.

Fin dal suo fortunato esordio lo show si è dimostrato un prodotto fortemente influenzato dalla serie di cui è una diretta derivazione: Better Call Saul sembra nascere dal desiderio degli autori di Breaking Bad di poter ampliare l’universo narrativo della serie madre e approfondire alcuni aspetti specifici lasciati in sospeso a causa della conclusione dello show. Quella di Mike è una delle figure per cui gli appassionati della creatura di Vince Gilligan avevano manifestato maggiore interesse, e che ora in Better Call Saul può trovare una propria dimensione al fianco del protagonista della serie.

La chance di focalizzare l’attenzione sul passato di quello che diventerà il sicario alle dipendenze di Gus Fring permette di fare luce su un personaggio molto misterioso, ma allo stesso tempo particolarmente amato, anche grazie allo straordinario spessore scenico di Jonathan Banks.
Dopo questo episodio il ruolo di Mike all’interno dello spin-off sarà sicuramente più rilevante di quanto lo sia stato fino ad ora e di conseguenza anche le interazioni con Saul e il minutaggio on screen aumenteranno vertiginosamente.

You go along to get along.
 
“Five O” è un episodio splendidamente orchestrato, in cui Gordon Smith, autore dell’episodio, riesce a destrutturare la storia di Mike e a giocare sapientemente con i vari livelli temporali, costruendo in maniera perfetta quello che sarà il crescendo narrativo della puntata, che troverà il suo culmine nelle due sequenze finali. La difficoltà di raccontare il passato di un personaggio di cui la maggior parte degli spettatori conosce il percorso futuro viene aggirata concentrando l’attenzione su quelle che sono state le motivazioni per le quali Mike si è trasferito da Philadelphia ad Albuquerque. Smith approfondisce alcune debolezze inespresse di un personaggio, di solito controllato e spietato, in maniera intima e introspettiva, senza rinunciare alle cifre stilistiche e alle soluzioni peculiari che caratterizzano la serie e che permettono alla tensione narrativa di rimanere alta e pressante per l’intera durata dell’episodio.

Matt wasn’t dirty.

Come per la maggior parte dei personaggi dell’universo creato da Vince Gilligan la questione morale che li tormenta è centrale per comprendere fino in fondo la dimensione delle loro qualità umane: Mike è un uomo segnato da un senso di colpa che tenta di nascondere, mentre prova a chiudere definitivamente i conti con un passato che gli provoca un gran dolore. La necessità di ricucire il rapporto con sua nuora Stacey, anche per non rischiare di perdere la possibilità di continuare a vedere sua nipote, lo costringe a riaprire questo varco temporale che avrebbe preferito lasciare sigillato; sembra emergere per la prima volta la vera essenza di un character la cui reale dimensione all’intero dello show ci era stata fino ad ora nascosta. La morte di suo figlio è un evento di cui comprendiamo la portata tragica solamente a fine puntata, anche perché non è possibile capire le responsabilità di Mike fino all’ultima struggente sequenza.

I know. I know it was you.

La questione dell’omicidio di suo figlio e la conseguente vendetta ai danni di Hoffman e Fenske fanno emergere due soluzioni ampiamente utilizzate e discusse in Breaking Bad, che ritroviamo anche nel suo spin-off: l’utilizzo di macchinazioni articolate per risolvere in maniera imprevedibile alcune sequenze e la critica feroce nei confronti di aspetti specifici della società americana. Il lungo flashback in cui Mike attua il suo piano vendicativo ai danni dei due sbirri colpevoli dell’omicidio di suo figlio ‒ oltre a permettere a Jonathan Banks di dare vita ad una splendida interpretazione lodata da tutta la critica specializzata (e per cui già si avanza la candidatura per i prossimi Emmy) ‒ è una sequenza con un enorme impatto emotivo, in cui l’ex poliziotto dosa la sua rabbia per i due assassini del figlio e la sfoga compiendo una vendetta chirurgica. Nonostante l’organizzazione nei minimi dettagli, trova un piccolo spazio anche la casualità, quando Mike viene ferito alla spalla sinistra.
You know what happened. The question is… can you live with it?

Tutta la tensione accumulata durante l’episodio viene liberata nella confessione finale di Mike a Stacey, dove è preponderante la frustrazione di un padre che non riesce a perdonarsi per aver deluso suo figlio, costringendolo a svilirsi di fronte a quelle regole auto-imposte che governano gli equilibri all’interno della polizia di Philadelphia. Quello descritto da Mike è un microuniverso in cui è impossibile non cedere la propria integrità morale a favore della sopravvivenza comune e dove non vengono sopraffatti solamente i più deboli. La centralità della questione morale di fronte a certe scelte viene ulteriormente ribadita nel finale, in cui Mike sembra porre alla nuora quello stesso dilemma con cui non sa se sarà in grado di convivere.

“Five O” è l’episodio più completo e riuscito tra quelli mandati in onda dalla AMC fino ad ora: viene confermata la capacità degli autori di Better Call Saul di usufruire di una cifra stilistica riconoscibile e apprezzata come quella di Breaking Bad, per dare vita ad una serie in grado di ampliare un intero universo di riferimento e sviluppare delle trame di supporto a quella principale ugualmente accattivanti, costruite con una coerenza formale e narrativa invidiabile.

Voto: 8
Better Call Saul – 1×07 Bingo
Dopo essere quasi riuscita a levarsi di dosso l’appellativo di sorella minore di una delle serie più importanti degli ultimi anni, aver creato curiosità sulle sorti di personaggi a cui ci si comincia ad affezionare, aver consolidato uno stile ormai riconoscibile e soprattutto aver sfornato un episodio (il sesto) apprezzatissimo dalla critica, Better Call Saul si trova a un punto di non ritorno.

La prima, lecita domanda all’inizio di “Bingo” era: cosa aspettarsi dopo una puntata tutta dedicata all’approfondimento del personaggio di Mike? Come cambiano gli equilibri dopo un momento così destabilizzante come quello? Da oggi Better Call Saul certifica la sua doppia natura, o meglio, la pluralità di sguardo che si porta dietro grazie alla compresenza di due personaggi così forti e così diversi. Si tratta di un lavoro già compiuto con Breaking Bad e che tracima nel suo spin-off come la cosa più naturale del mondo: l’attrazione per gli opposti e l’interazione dei medesimi porta a creare personaggi in grado di completarsi a vicenda, di specchiarsi l’uno nell’altro in modo da radiografare e radiografarsi le parti mancanti. Come nella serie madre, le opposizioni di partenza sono basate sui ruoli e sui modi di essere: tanto Walt e Jesse erano maestro e allievo, quanto Saul (che da ora in poi si cercherà di chiamare sempre Jimmy) e Mike sono un avvocato e un criminale (seppur in questo caso fin dall’inizio – a differenza che in Breaking Bad – le distinzioni siano meno nette); da una parte c’erano un secchione e uno scavezzacollo, dall’altra c’è una personalità esuberante e un uomo di poche parole.

Hopefully, whatever you are, didn’t rub off on the rest of your family.

Da Breaking Bad a Better Call Saul, il comparto creativo della AMC ci ha abituato a scelte forti e portate avanti con determinazione, sia rispetto alle questioni narrative (la writer’s room capitanata da Gould e Gilligan), sia rispetto alla messa in forma di una vera e propria estetica dominante. Non è un caso se questo settimo episodio comincia con la macchina da presa che ispeziona le foto dei criminali sulla parete del dipartimento di polizia per poi effettuare un movimento discendente che arriva a includere in campo sia Jimmy sia Mike, due figure dominanti tanto nella serie quanto nell’inquadratura che li comprende. Per la precisione il movimento di macchina si ferma prima sul primo piano di Jimmy, quasi a certificarne il ruolo di protagonista, per poi staccare su un totale del corridoio che risponde con un raccordo di sguardo includendo Mike nella scena, esattamente di fianco (leggi allo stesso livello) al suo avvocato. Nel confronto tra i due inizia ad essere sempre più determinante la differenza di background che vede da una parte l’uomo scafato, che ne ha viste di tutti i colori ed è arrivato fino a questo punto non senza dolori, e dall’altra quello ingenuo, la cui perdita dell’innocenza, quasi fosse un adolescente, è tutt’ora in corso. Questo tipo di contrapposizione, benché lavori alla perfezione sull’approfondimento dei due caratteri, risulta però un po’ ripetitiva e prevedibile soprattutto nella prima parte dell’episodio.

Got to look successful to be successful. Am I right?

Se Mike è un personaggio silente, che si muove nell’ombra, che si adatta allo spazio in cui lo metti e ne smantella le regole, comportandosi per certi versi in modo parassitario, Jimmy è l’esatto opposto: il suo è un comportamento esuberante, invadente, volto a prendere il contesto e toccarlo ripetutamente, manipolarlo a suo piacimento, moltiplicandosi in modo virale. La sua espansione coincide con l’approfondimento della sua personalità e con la maturazione professionale, tanto che in quest’episodio si appropria di uno spazio su cui fondare il proprio studio personale. L’entrata nell’enorme spazio vuoto mette in moto un discorso che ragiona anche (e forse soprattutto) in secondo grado (cosa ci vuole dire realmente la serie con quel nuovo inizio sottolineato da uno spazio tutto da riempire?) rispetto ad uno show che cresce nel suo farsi. La nuova serialità televisiva, dalla coppia OZ/The Sopranos in poi, si è distinta per produzioni di qualità sempre più dettagliate (Eco direbbe “ammobiliate”), dai cui anfratti emerge un tutto magmatico e stratificato, fatto della somma di sempre più numerosi e significativi particolari. Sull’onda della produzione HBO, la AMC ha alzato l’asticella con Mad Men e Breaking Bad, e ora tenta di ripetersi con Better Call Saul. A proposito di quest’ultima e del rapporto con la produzione di qualità dell’emittente su cui va in onda, non si può non sottolineare il parallelo abbastanza evidente tra la scena di Jimmy che mostra a Kim il suo futuro studio con le ampie vetrate e quella del meraviglioso finale della quinta stagione della serie di Matthew Weiner.

There has to be a way.

“Bingo” è l’episodio più indipendente fino ad ora, e non è un caso che arrivi immediatamente dopo un focus totalmente dedicato al personaggio di Mike. Se già dal finale di “Alpine Shepherd Boy” era chiaro che il ruolo interpretato da Jonathan Banks sarebbe stato profondamente diverso rispetto alla serie da cui proviene, ora ne abbiamo la certezza. Sicuramente la sua figura ora ha perso un po’ di mistero, ma ha guadagnato una statura tragica fino a quel momento inedita. Mike qui è realmente l’altra faccia della serie, quella a cui Jimmy, per crescere, deve rapportarsi, e non poteva certo rimanere ciò che era fino a quel momento. Al crescere del personaggio infatti cresce anche il futuro Saul, che fa i conti con le proprie paure e la relativa forza di combatterle. L’evoluzione di Chuck non è altro che la metafora del suo cambiamento: la nuova tolleranza ai campi elettromagnetici allude a un parallelo con la tolleranza crescente di Jimmy nei confronti della connivenza con il mondo del crimine.

A questo punto, prima di chiudere la recensione, si pone una questione cruciale che fin dall’inizio ha accompagnato Better Caul Saul. Come valutare/giudicare la questione dell’indipendenza da Breaking Bad? Chi cerca dalla creatura di Gould e Gilligan una riscossa emancipatrice che ne determini l’indipendenza dalla serie madre non solo non otterrà mai ciò che vuole, ma sta vedendo le cosa da una prospettiva errata. Fare uno spin off di uno show non significa tagliare i ponti con lo stesso, ma costruirne. Naturalmente ha senso lavorare per creare nuovi spettatori perché è impossibile confidare su un trasferimento totale del pubblico da una serie all’altra, ed è in questo senso che operano figure nuove come quella di Chuck e quella di Kim, volte a aprire uno squarcio di novità all’interno dell’universo rappresentato. L’enorme questione stilistica che da Breaking Bad arriva a Better Call Saul forse può darci qualche elemento in più: anche stavolta in molti hanno parlato (sbagliando) di imitazione, di sfruttamento del successo della serie madre e cose di questo genere. Il punto però è un altro: Better Call Saul è scritta dagli stessi autori, girata dagli stessi registi, fotografata dagli stessi operatori, musicata dallo stesso compositore, interpretata da molti degli stessi attori e prodotta dalla stessa emittente di Breaking Bad. Senza contare la cosa più importante, ovvero che i due show giacciono nello stesso universo narrativo, cosa che non esclude (se dovesse avere successo) l’aggiunta di altri brandelli di racconto, più o meno espansi, oltre alla serie su Saul Goodman, che siano essi serie TV, film, videogiochi o graphic novel.

Better Call Saul sta a Breaking Bad esattamente come Baci rubati sta a I 400 colpi, nel senso che rappresentano componenti sempre più complementari dello stesso universo narrativo, che nel caso dei film di Truffaut era la vita di Antoine Doinel/Jean-Pierre Léaud, mentre per gli show dell’AMC è il mondo creato attorno all’Albuquerque di Walt, Saul, Jesse, Mike e gli altri. Forzando un po’ il discorso, ma neanche troppo, si potrebbe dire che Better Call Saul non è come Breaking Bad, bensì è Breaking Bad.

Thing you folks need to know about me… I got nothing to lose.

La serie sembra appena iniziata eppure “Bingo” anticipa l’ultima tripletta di episodi, dopo i quali se ne riparlerà nella seconda stagione – per segnalare anche il respiro che sta prendendo lo show. La puntata si pone come un altro fondamentale tassello di un mosaico che si fa sempre più fitto e che per ora sembra cercare soprattutto di garantirsi una sopravvivenza a lungo termine, riuscendoci molto bene. Vi è un lavoro molto acuto nello sviluppo del personaggio di Jimmy/Saul, che da spalla comica qui diventa una figura bifronte, capace di vestire anche i panni dell’eroe tragico, come dimostra lo sfogo finale.

Voto: 8
Better Call Saul – 1×08 Rico
Su Better Call Saul e il rapporto che la serie ha con Breaking Bad si è scritto tanto, ovviamente anche qui su American TV Series. Ogni riflessione non può esimersi dal prendere in considerazione questo aspetto fondamentale del progetto BCS perché più lo show va avanti e più il suo profondo legame con la serie madre appare evidente.

Da “Five-O” in poi non ci sono stati più dubbi: non solo non è una realtà indipendente da Breaking Bad (né mai lo sarà), ma non vuole nemmeno esserlo. Appurato, dunque, che la nuova creatura di Vince Gilligan è, in tutto e per tutto, emanazione dell’universo di quella precedente (e suo ulteriore ampliamento), la critica si è posta un altro problema sempre legato alla natura di spin-off di Better Call Saul: conoscere in partenza il destino di James McGill rappresenta un impedimento alla serena fruizione del prodotto? La questione si fa particolarmente rilevante con “Rico”, in cui viene introdotto quello che potrebbe essere ‒ ma sappiamo già non sarà (se non in senso negativo) ‒ il caso della vita per Jimmy e suo fratello. Ci penserà Chuck a rovinare tutto ‒ si chiede immediatamente lo spettatore ‒ o magari sarà quel codice per la stampa che, prima o poi, metterà in allarme Hamlin? Di certo sappiamo già che qualcosa andrà storto, altrimenti il futuro non ci riserverebbe Saul Goodman.

In realtà conoscere (solo in parte ‒ è bene ricordarlo) il destino di Jimmy è tutto sommato un falso problema perché, a ben vedere, non è necessario chiamare in causa Breaking Bad per farsene un’idea più o meno definita. Better Call Saul, anche attraverso un uso molto intelligente dei flashback, ci ha già presentato in maniera a dir poco esaustiva il personaggio di Jimmy, tanto che il suo futuro ci appare quasi inevitabile a prescindere dalle informazioni in nostro possesso. Ogni volta che il successo si avvicina, ecco che qualcosa o qualcuno (anche soltanto la propria coscienza) impedisce al protagonista di fare il suo ingresso trionfale nel club dei vincenti. Il ritrovamento dei Kettleman, la popolarità guadagnata dopo “Hero“, perfino la sudata abilitazione sono soltanto in apparenza delle conquiste, perché un istante dopo si saranno già trasformate in fallimenti. Nessun epocale balzo in avanti né cadute particolarmente rovinose verso il basso sembrano costituire fin qui il percorso di crescita umana e professionale del futuro Saul Goodman, il cui posto nella società andrà infatti ricercato esclusivamente ai suoi margini.

Conoscere il finale di una storia (che tra l’altro è quella di Walter White, non di Jimmy McGill) non è sempre un limite, anzi, in questo caso ci permette di apprezzare al meglio il lavoro svolto da Gilligan e Gould. In una serie fortemente character driven come questa, il piacere della visione è spesso legato alla “scoperta” dei personaggi o, meglio, al constatare come ogni piccolo elemento, ogni dettaglio all’apparenza insignificante, rappresenti un tassello nel processo di caratterizzazione degli stessi. In questo senso Better Call Saul è sicuramente una gioia per chi la segue: “Rico”, ad esempio, ci mostra la grande dedizione con cui Jimmy si dedica al proprio lavoro (come Saul) e allo stesso tempo ne mette in mostra i limiti, presentandolo come un professionista volenteroso ma comunque mediocre (come, appunto, Saul).
Tutto torna, insomma: da questo punto di vista lo show è inattaccabile e, se visto nella stessa ottica, anche molto godibile.

Perfino i personaggi introdotti con lo spin-off aiutano a completare questo quadro di approfondimento e ulteriore sviluppo dell’universo narrativo breakingbadiano. Dopo il confronto con Mike dello scorso episodio, in “Rico” gli autori si servono della contrapposizione tra Jimmy e Chuck per fare luce sulle personalità di entrambi, presentando i due McGill come l’uno l’opposto dell’altro: Chuck è un avvocato brillante ma allo stesso tempo una persona fortemente instabile; Jimmy al contrario è un uomo equilibrato ma, forse proprio per questo, non altrettanto geniale. Nonostante la propria condizione, nella cerchia elitaria degli avvocati è comunque Chuck il vincente tra i due, e a provarlo c’è la telefonata tra Jimmy e il legale della Sandpiper, il quale non perde tempo a ricordargli (come sottolinea il setting particolarmente disgustoso) che per certa gente lui rimarrà sempre “spazzatura”.

Per concludere, Better Call Saul ci consegna un altro episodio di ottima fattura che conferma il trend individuato nelle scorse puntate. La nuova serie di Vince Gilligan non è poi così “nuova”, né dal punto di vista delle tematiche sviluppate (pur essendo due personaggi molto diversi, Jimmy e Walt condividono lo stesso status di “emarginati”, ed è evidente come entrambi gli show portino avanti una critica della società americana) né sotto il profilo tecnico, ma con il tempo questa caratteristica si è dimostrata il suo vero punto di forza.

Voto: 8

‒ Uno degli aspetti più interessanti di Better Call Saul è il dosaggio ragionato dei flashback e delle informazioni in essi contenute, che sembrano fluire spontaneamente dalla narrazione. In questo episodio scopriamo le origini del rapporto tra Jimmy e Kim in maniera del tutto naturale, ovvero inferendole dalla conversazione con Chuck senza alcun bisogno di “spiegoni”.
‒ Dedicare un’intera puntata alla storia di Mike ha suscitato delle critiche, ma non si può negare che abbia avuto un senso nell’economia della serie. La scelta di ricontattare il veterinario acquista infatti tutto un altro spessore adesso che conosciamo i retroscena del rapporto con la nipote.
Better Call Saul – 1×09 Pimento
A un episodio dal termine della sua prima stagione, Better Call Saul continua sulla strada intrapresa fino a ora: con “Pimento” la narrazione svolta forse definitivamente nella direzione che già conosciamo, ovvero verso la lenta e inesorabile trasformazione di Jimmy McGill in Saul Goodman.

We can do this!
 
Eccolo il momento che Jimmy aspettava da una vita, quel momento che gli inetti sognano giorno e notte: la rivincita. Una rivincita che McGill si è abilmente costruito da solo, anche avendo una laurea discutibile presa per corrispondenza, simbolo di pezzi di carta che contano poco al cospetto delle vere capacità insite nelle persone.
Il caso Sandpiper è finalmente lì, sulla scrivania della HHM di fronte all’odiato Howard Hamlin, Jimmy finalmente pronto a gustarsi il momento. Ma come in tutte le storie tristi (perché quella del nostro McGill lo è, e lo sapevamo già) c’è sempre qualcosa di stonato, sempre qualcosa che non torna e che non si incastra mai nel posto giusto. Tutta la costruzione della puntata è chiaramente improntata alla svolta finale, che peraltro ci viene già suggerita all’inizio, quando Chuck fa quella strana telefonata nel cuore della notte: nonostante questo, l’escalation del pathos è costruita talmente bene che si arriva allo svelamento del trucco col fiatone, impotenti di fronte alla crudeltà di quanto stiamo vedendo, immedesimandoci mani e piedi in Jimmy, con una voglia tremenda di abbracciarlo e dirgli che andrà tutto bene.

Come in Breaking Bad, è l’accanirsi della vita sui più deboli a innescare una serie di azioni che, portate avanti dai “buoni”, finiscono solo per causare cose cattive. La discesa agli inferi di Jimmy prima e di Saul poi – anche se sappiamo che non sarà completa come quella di Walter-Heisenberg – molto probabilmente inizia da qui, in questo buio soggiorno con una delle persone di cui si fidava di più al mondo e a cui voleva un bene infinito, il proprio fratello. “Possiamo farcela!” urla un euforico Jimmy a Chuck, ed è qui l’ironia amara: anche grazie al proprio lavoro, alla propria fatica, sono sempre e solo gli altri a farcela.

“Wait… I’m not a bad guy.”
“I’m not saying you’re a bud guy, I’m saying you’re a criminal.”

E poi c’è Mike, vero co-protagonista di questa stagione, che porta avanti un filone drammatico ma al tempo stesso tragicomico e ironico.
La sequenza con il “criminale” che deve vendere pillole ai malavitosi è chiaramente una morale della favola messa per immagini: non bisogna essere per forza cattive persone per essere criminali, anzi, molte volte, all’inizio, è proprio il contrario. È infatti quello che succede ai due protagonisti Mike e Jimmy, e al terzo protagonista-fantasma, Walter White. Tutti partiti con ottime intenzioni e finiti per essere dei veri e proprio criminali che non riusciranno più a tornare a una vita normale. Per fare i criminali devi studiare, devi persino essere un po’ intelligente per sopravvivere: la fantastica sequenza che vede Mike e le altre due guardie del corpo improvvisate ne è la riprova. Infatti, la demenza di avere addosso cinque pistole non ti dà la matematica certezza di battere un anziano che porta con sé un panino al formaggio.
L’ironia nera e pungente di Better Call Saul fa il paio con quella di Breaking Bad, un po’ più mitigata forse, data la natura meno estrema del suo protagonista, ma comunque efficace per lasciarci quell’amaro in bocca che tanto ci piace.

“Pimento” è quindi un inno a quello che sembra ma non è, a qualcuno o qualcosa che ci trae in inganno e che poi si rivela per quello che è veramente: Mike non è un anziano pensionato, Chuck non è solo un fratello indifeso da accudire, il rifiuto di Howard non è solo un odio verso le presunte incapacità di Jimmy, il giovane McGill non è solo un falso laureato per corrispondenza delle Samoa Americane. Il titolo dell’episodio non a caso si riferisce a quella spezia che Colombo portò in America pensando fosse pepe, data l’estrema somiglianza tra le due bacche: un equivoco. Ecco cos’è stata finora la vita del povero Jimmy “Scivolone”.

I’m done.

Le lacrime trattenute dalla bravissima e affascinante Rhea Seehorn quando dice a Jimmy di accettare quell’offerta fanno il paio con l’amarezza e l’arrendevolezza con cui lo stesso protagonista affronta il fratello nel finale: l’unica via d’uscita, in molti casi, è lasciar perdere.
Better Call Saul si dimostra sempre di più una serie a sé stante rispetto a mamma Breaking Bad e non poteva che essere altrimenti: le scelte stilistiche sono per forza di cose molto simili, ma siamo convinti che questa scelta sia un punto di forza e non il contrario, come molta critica ha cercato di sottolineare. Manca solo una puntata al termine della prima stagione e l’avvento di Saul Goodman (bella scelta di cognome, se adesso ci riflettete un attimo) è sempre più vicino.

Voto: 8
Better Call Saul – 1×10 Marco
Better Call Saul giunge al capolinea con un episodio in cui passato, presente e futuro si confondono in un fitto gioco di rimandi; dove flashback e prefigurazioni fanno da cornice a un vero e proprio riavvolgimento della storia su se stessa, che segna al tempo stesso un significativo passo avanti verso il traguardo che ben conosciamo.

L’episodio rappresenta innanzitutto un ritorno alle origini, letterale e metaforico, che trova il suo perno narrativo in Marco, un personaggio per cui il tempo sembra non essere mai passato. L’uomo è chiaramente una figura speculare a quella di Chuck e i due sembrano incarnare a pieno le parole rivolte da Mike al suo “cliente” nello scorso episodio: l’ossessione di McGill per la giustizia non fa automaticamente di lui un bravo fratello, così come la passione di Marco per la truffa non gli impedisce di mostrare nei confronti di Jimmy dei sentimenti sinceri di affetto e stima.

Questa ambivalente rappresentazione degli opposti, fondata su una scissione tra la dimensione morale e quella affettiva, si ripercuote inevitabilmente sul protagonista, i cui numerosi cambi di nome sono un’evidente espressione della sua confusione identitaria. Se negli scorsi episodi, però, Gilligan e Gould erano riusciti a delineare un ritratto incredibilmente sfumato (in cui il dissidio tra l’avvocato James McGill e il truffatore Slippin’ Jimmy aveva portato il personaggio a vertici di empatia e tragicità inaspettati), in “Marco” pare di assistere a una sorta di “esternalizzazione” della coscienza del protagonista nelle due figure descritte sopra, con un risultato assai difficile da decifrare. Jimmy sembra infatti passare dall’influenza di Marco a quella di Chuck per poi tornare a quella del primo dopo la brusca rottura con il fratello, il tutto senza soluzione di continuità. Le cose però non sono così semplici come appaiono, o almeno non dovrebbero esserlo.

Nonostante Chuck sia sempre stato il modello e soprattutto la bussola morale di Jimmy, la sua decisione di perseguire la carriera da avvocato, così come quella di cercare di “fare la cosa giusta”, non può ridursi meramente al desiderio di soddisfare il fratello ed espiare in questo modo il debito nei suoi confronti. Allo stesso modo la riunione con Marco, pur con tutta la sua dimensione liberatoria e di ribellione, si conclude con un amaro epilogo, che mette bene in evidenza tutti i limiti di questo stile di vita e che in ogni caso era stato preceduto dalla scelta di Jimmy di tornare ad Albuquerque. È per questo che la sua apparente decisione di rivestire definitivamente i panni di Slippin’ Jimmy, gli stessi che presumibilmente lo porteranno poi a diventare Saul Goodman – pensiamo all’anello –, risulta così problematica e di difficile lettura.

Emblematica in questo senso è la conclusione del dialogo con Mike, in cui è molto difficile comprendere quanto di vero ci sia nelle affermazioni di Jimmy: siamo davvero di fronte a un’ammissione della totale assenza di morale del protagonista, il cui unico freno sarebbe quindi stato rappresentato da Chuck? O piuttosto (com’è probabile) ci troviamo davanti a un ulteriore conferma di quanto la visione che gli altri hanno di lui sia fondamentale ai fini della sua costruzione identitaria? Sia Chuck che Marco non riescono a vedere in James nient’altro che Slippin’ Jimmy, e questo sembra essere più che abbastanza per convincerlo che sia veramente così. Peter Gould (autore e regista dell’episodio) ha dichiarato in una recente intervista che il passaggio da James a Slippin’ Jimmy/Saul non sarà privo di conflitti e ripensamenti; ne consegue quindi che si sia voluto dare alla sequenza finale una nota badass (la frase a effetto, il sorriso mentre canticchia “Smoke on the water”) che rischia però di portare fuori strada lo spettatore rispetto al lavoro fatto finora e alle vere intenzioni degli autori, e che a ogni modo tende a eccedere nella rappresentazione della malleabilità del protagonista.

Altro elemento cardine dell’episodio – e a conti fatti della serie – è il destino, che va a investire il protagonista tanto quanto lo spettatore, confermando l’ottima gestione degli autori della natura di prequel dello show. Il monologo del Bingo acquista in quest’ottica un’importanza fondamentale, non tanto per il pur divertente racconto del motivo dell’arresto di Jimmy, ma proprio per il suo ergersi a emblema di questo concetto chiave. Sfidando ogni probabilità, le “B” continuano a susseguirsi una dopo l’altra, così come i tentativi di Jimmy di diventare un buon avvocato si sono di volta in volta infranti di fronte agli eventi più disparati e inaspettati. Ecco quindi che i concetti di fato e indole si avvicinano senza però mai sovrapporsi interamente: in questo senso il finale potrebbe essere letto come un abbandono non tanto alla propria natura – che abbiamo visto essere in realtà ben più complessa e articolata – bensì a un destino inesorabile, che come si diceva poco sopra coinvolge in seconda battuta anche lo spettatore, scisso tra le sue conoscenze pregresse e l’enorme investimento emotivo che il personaggio è stato in grado di suscitare.

Questo season finale risulta però inevitabilmente più debole di alcuni degli episodi che l’hanno preceduto (due tra tutti: “Five-O” e “Pimento”), impegnato com’è a fare i conti con le conseguenze della rivelazione di Chuck e a preparare il terreno alla decisione finale di Jimmy. A risentirne è in particolar modo il blocco centrale ambientato a Cicero, che cade vittima di qualche lungaggine e ridondanza di troppo ­– pensiamo ad esempio alla sequenza della truffa della moneta che precede il ben più efficace montaggio in stile anni Sessanta. Tale sezione subisce inoltre la presenza di alcuni cliché narrativi, incarnati in particolar modo dagli eventi che conducono alla dipartita di Marco, prevedibile ma un po’ forzata. Questi elementi, pur non andando a minare in maniera consistente la riuscita dell’episodio, lo privano in parte del mordente che ci si sarebbe aspettati dal finale di stagione.

Pur con qualche imperfezione, “Marco” porta bene a compimento una prima stagione che non può che considerarsi una scommessa vinta su tutti i fronti: le enormi aspettative e lo scetticismo di pubblico e critica erano uno scoglio molto difficile da superare illesi, ma Gilligan e Gould in soli dieci episodi sono riusciti a mettere a tacere tutti i possibili dubbi riguardo la ragion d’essere dello show e il suo rapporto con la serie madre. Come abbiamo già affermato in precedenza, Better Call Saul non potrà mai prescindere dalla sua natura di spin-off, ma ormai è chiaro come questo non implichi in nessun modo un giudizio di valore sullo show. Il debito estetico e tematico nei confronti di Breaking Bad, ben lontano dall’essere indice della sua scarsa originalità, non ha fatto altro che confermare, nel corso delle puntate, la maestria degli autori nel raccontare una storia tutt’altro che banale, ma che anzi ha saputo espandere e arricchire l’universo narrativo in cui s’inserisce in una maniera che mai ci saremmo immaginati prima della messa in onda del pilot.

Voto episodio: 7+
Voto stagione: 8,5


Note:
L’episodio è pieno zeppo di riferimenti a Breaking Bad: dal ritorno del cestino ammaccato (che fa il paio con il portasalviette di Walter) all’anello di Marco/Saul, passando per il Belize, i dipinti di Georgia O’Keeffe e Kevin Costner. Se i riferimenti verbali sono poco di più che delle strizzate d’occhio ai fan, quelli che invece coinvolgono gli oggetti costituiscono un’ulteriore conferma della continuità estetico-narrativa delle due serie, incentrata – tra le altre cose – sulla presenza di questi oggetti-feticcio.
Better Call Saul – 2×01 Switch
Better Call Saul torna sugli schermi di AMC (e di Netflix) con una première che, forte della fiducia di pubblico e critica conquistata con l’ottima stagione d’esordio, non ha paura di rallentare il ritmo per fare il punto della situazione, attuando quello che a prima vista appare come un riavvolgimento della storia su se stessa.

SG was here
 
Non a caso, le due sequenze di apertura di “Switch” dialogano in modo esplicito, quasi a mo’ di autocitazione, rispettivamente con l’incipit di “Uno” e l’epilogo di “Marco”: come era già accaduto nel pilot, l’episodio si apre infatti con un flashforward in bianco e nero che ci offre un nuovo scorcio della squallida vita di Gene in Nebraska, approfondendo il dissidio tra il timore di essere scoperto e l’incapacità di lasciarsi alle spalle la sua vecchia vita, che era già stato alla base della prima puntata. Se però in “Uno” quello che si concedeva era un semplice e innocente tuffo nel passato, rappresentato dalla visione degli spot di Saul, qui a emergere in maniera quanto mai evidente è come in realtà, sotto il grembiule del Cinnabon e l’aria rassegnata, l’anima di avvocato del crimine sia ancora ben presente e spinga per riaffiorare.
Allo stesso modo, il racconto torna sui suoi passi riproponendoci l’ultima sequenza del season finale, questa volta però mostrandoci l’intuibile rifiuto dell’offerta di lavoro da parte di Jimmy. Si tratta di un’operazione che non sembra donare un valore aggiunto all’accaduto, ma che si rivela funzionale a introdurre il focus sul rapporto tra Jimmy e Kim, che sarà al centro della narrazione.

I just finally decided to be me.

La donna riesce a riunire il ruolo di bussola morale in passato incarnato da Chuck alla capacità di accettare (e a piccole dosi apprezzare) l’indole manipolatrice di Jimmy, andando così a colmare il vuoto lasciato dalla dipartita di Marco e dalla rottura con il fratello e ribadendo in questo modo come Jimmy continui ad aver costantemente bisogno di qualcuno in cui specchiarsi. Ecco quindi che la scelta finale di tornare a essere un avvocato ma senza abbandonare il suo spirito di ribellione può essere letta, proprio alla luce del rapporto con la donna, come un tentativo di conciliazione di queste due anime e, in fin dei conti, come un passo in avanti verso la metamorfosi in Saul Goodman. Jimmy torna sì ad essere un avvocato, ma fare la cosa giusta non sembra più essere la sua priorità.

La scena dell’interruttore va a comporre, insieme al flashforward, un efficace dittico che, con due semplici ma potentissime immagini, riesce a mettere in scena tutta la tragicità del personaggio di Jimmy/Saul, meglio di quanto i pur ottimi dialoghi riescano a fare. In entrambi i casi lo vediamo compiere un gesto all’apparenza insignificante e invisibile per gli altri, ma che in realtà assume un’importanza capitale nel mostrare come il lato anarchico della personalità di James non sia mai davvero sopito. Nonostante ciò, in questo fitto intreccio di identità abilmente costruito dagli autori – James McGill, Slippin’ Jimmy, Saul Goodman e infine Gene –, è sempre più difficile individuare quale sia l’anima autentica del protagonista, che col tempo si sta rivelando sempre più fluida e complessa. Il risultato è un senso di ciclicità impossibile da spezzare, che permea la struttura stessa della narrazione andando così a costituire una perfetta cornice della parabola di Jimmy, fatta di continue titubanze e ripensamenti che si declinano in una perpetua oscillazione tra le sue diverse identità.

They say Arnold Schwarzenegger’s the reason that Hummers exist.

A fare da contrappunto alla storia di Jimmy troviamo Pryce, una sorta di caricatura di Walter White, le cui vicende, oltre a offrire un assaggio dello humor caro allo show, dialogano bene con alcuni temi cardine sia della serie madre che dello spin-off, tracciando così un legame tra i percorsi, diversissimi ma al tempo stesso simili, di Walter e Saul. L’orgoglio e la superbia di Pryce, che lo portano a commettere un errore che forse gli sarà fatale, non sono altro che una diversa declinazione del desiderio di affermazione di sé che guida le azioni di Jimmy/Gene, ponendosi così come un ideale monito per entrambi oltre che, presumibilmente, come il motore della narrazione di questa stagione.

Dopo una sola stagione Better Call Saul ha raggiunto un livello di maturità stilistica e narrativa notevole, in grado di sfruttare con grande abilità l’enorme potere evocativo e metaforico delle immagini. Le scelte di Jimmy dipingono un quadro sempre più complesso, che corregge il tiro rispetto alla brusca accelerazione dello scorso season finale ma senza cancellare il lavoro svolto fino a quel punto. Viene però da chiedersi per quanto ancora questo meccanismo narrativo potrà continuare a funzionare senza risultare artificioso e ripetitivo: se è vero che la fretta di mostrarci Jimmy “breaking bad” avrebbe danneggiato gravemente lo show, allo stesso modo un’attesa troppo prolungata potrebbe compromettere la coerenza interna del percorso del protagonista. Quello che è certo è che Gould e Gilligan si sono guadagnati la nostra stima, quindi non ci resta che aspettare fiduciosi il prosieguo della stagione.

Voto: 7+
Better Call Saul – 2×02 Cobbler
Se la première di questa seconda stagione aveva la funzione di dare un freno alle vicende per fare il punto della situazione, questo “Cobbler” serve da propulsore alla narrazione, delineando le principali linee narrative che probabilmente caratterizzeranno l’intera stagione.

A differenza di quanto “Marco” aveva potuto far pensare, l’evoluzione di Jimmy è ben lungi dall’essere completa: tante le maschere ancora da indossare, le vite da cambiare e tante ancora le aspirazioni che rendono il protagonista così multiforme e sfuggevole a qualsivoglia caratterizzazione.

“What are you doing here?”
“My name is on the building.”


Il complicato rapporto tra Jimmy e Chuck ha costituito uno dei pilastri della prima stagione, ed è ormai evidente quanto sia ancora forte l’influenza che il fratello maggiore esercita sul minore. Sebbene Jimmy tenti in ogni modo di dissociarsi da quest’ultimo, il momento del loro incontro è sicuramente uno dei più intensi dell’intero episodio: il disagio percepito da Jimmy è quasi palpabile, come una sensazione d’inadeguatezza che invade la stanza, un crescendo che dall’ingresso della segretaria fino alle prime parole balbettate da Jimmy traccia il quadro della loro malata relazione. Non è un caso che Jimmy, proprio all’arrivo di Chuck, perda quella sua verve che lo contraddistingue, diventando esattamente ciò che il fratello pensa che sia, ovvero un avvocato mediocre. “Just pretend I’m not here” sono le parole di Chuck, intrise di una profonda consapevolezza che si incentra su vari livelli: la tristezza che sperimenta nella sua nuova vita da trascorrere in totale solitudine e la certezza di essersi sbagliato sul conto del fratello, avendo lasciato che l’invidia oscurasse il suo giudizio. Ma la presenza di Chuck non può non essere notata: e tutto il risentimento covato sfocia in quel dialogo che tradisce ben più di un rimpianto.

I cannot hear about this sort of thing. Ever again.

Il rapporto tra Kim e Jimmy inizia a mostrare le prime falle nel corso dell’episodio: già nella première era evidente che il legame tra i due non poggiava su basi del tutto solide, né sarebbe stato capace di fronteggiare gli eventuali scossoni alla vita dell’uomo.
Per quanto riguarda la relazione tra i due personaggi, inizia a profilarsi lo stesso meccanismo che lega Jimmy al fratello: un insieme di azioni volte soprattutto ad accontentare l’altro, a renderlo fiero ed orgoglioso. Si assiste dunque ad una proiezione della personalità forte della donna in quella molto più debole dell’uomo: Jimmy diventa un buon avvocato non solo per le sue capacità, ma anche e sopratutto per compiacere la donna di cui è infatuato. Così come accade con il fratello, l’identità di Jimmy, in ogni relazione della sua vita, è fortemente dipendente da ciò che gli altri vogliono/pensano che egli sia. Agli occhi di Chuck, Jimmy non è altro che una persona mediocre, destinata ad essere sempre la sua ombra fedele; agli occhi di Kim, è invece un ragazzo come tanti, un ottimo avvocato: ma se sia un buon avvocato per scelta od obbligo siamo ancora ben lontani dal scoprirlo. Sebbene la relazione tra i due si inserisca bene nell’economia degli episodi, ciò che interessa allo spettatore riguarda quanto e come la persona di Kim sarà determinante nella trasformazione del protagonista.

You still morally flexible?

L’elemento di snodo che collega gli avvenimenti della prima stagione alla nuova figura di Jimmy si incentrano nella figura di Mike Ehrmantraut, tramite il quale inizia a delinearsi, con piccoli accenni, il ritratto di Saul Goodman, basato sull’incapacità di fare la cosa giusta ed una grandissima dose di furbizia. Sembra piuttosto chiaro che la progressiva trasformazione di Jimmy non sarebbe stata tale senza l’apporto di una figura tanto enigmatica quanto di per sé positiva come lo stesso Mike.
 
Il segmento narrativo che lo riguarda, e la conseguente quest per le figurine scomparse, offrono ancora una volta una traccia di quel black humor che fin dall’inizio ha caratterizzato la serie madre. Non è un caso che tutti i personaggi, da quelli più insignificanti fino agli stessi protagonisti, siano tutti accomunati da una sensazione di inadeguatezza verso la vita, una forte volontà di rivalsa nei confronti di una società che non è stata giusta nei loro confronti. Il tema ricorrente della frustrazione incrollabile dei personaggi lega fortemente, a livello contenutistico, Breaking Bad al suo spin-off, storie che ci parlano di sconfitte e di numerosi tentativi di rivalsa; come lo stesso protagonista ci ha dimostrato nella première e di questo episodio, il confine che separa i buoni dai cattivi è sempre più labile, e la tentazione di oltrepassare, per una sola volta, quella linea si fa sempre più stringente.

Second is still very, very good.

Ma, alla luce dei nuovi avvenimenti e della neonata relazione con Kim, chi è veramente Jimmy?
Il filo conduttore che sembra legare gli episodi e la stessa rovinosa vicenda del personaggio riguarda proprio la risposta a questo quesito: se nella prima stagione Jimmy poteva apparire come una persona sicura di sé, un buon avvocato e un fratello fedele, i diversi flashback hanno contribuito a modificare questa versione, riportandoci un personaggio totalmente opposto a quello che avevamo visto.
Leale, solo perché in debito; un avvocato discreto, diventato tale unicamente per ricevere un briciolo di approvazione dal fratello maggiore. Ma ciò che la serie sembra voler comunicare, sopratutto in questo secondo episodio, in cui le molteplici anime di Jimmy convergono fino a non riuscire a distaccarsi, è che non c’è una risposta univoca a questo quesito: Jimmy è tutto ciò che abbiamo visto e che ancora ci aspetta.
Nonostante la visione di questa serie possa essere viziata, oltre che dai flashforward, dalla conoscenza pregressa degli spettatori sulle sorti del nostro eroe, la bravura degli autori sta proprio nel lavorare a fondo nella costruzione di un personaggio conflittuale ed inafferrabile al contempo. I semi della trasformazione di Jimmy sono stati piantati già nella prima stagione, in quei tentativi disperati di “fare la cosa giusta”; ma il percorso che culminerà nella creazione di Saul Goodman non avrebbe avuto inizio senza la furbizia di Slippin’ Jimmy, né senza l’acume di James McGill.

Gli autori riconfermano, con questo ottimo episodio, l’importante lavoro svolto sul personaggio principale, volto alla costruzione di quella futura identità che tanto ha incantato gli spettatori: non ci resta che scoprire, passo dopo passo, tutti i tasselli che hanno portato alla nascita dell’avvocato che tutti conosciamo.

Voto: 7½
Better Call Saul – 2×03 Amarillo
È con la solita cura per i dettagli e la messa in scena che Better Call Saul procede nella sua seconda stagione: un’annata fin da subito compatta, decisa, con uno scopo ben fissato ed uno svolgimento degli eventi che lascia pochi dubbi sulla direzione intrapresa da Gould e Gilligan.

Eppure la prevedibilità non è di certo un problema, anzi; anche in Breaking Bad diversi eventi principali venivano anticipati, previsti o anche solo percepiti nell’aria, ma questo non faceva altro che aumentare il carico di tensione e di potenza di quello che stava per accadere. La sostanza, insomma, è che se si riesce a costruire un comparto narrativo solido, poco importa che il punto finale sia già noto; Better Call Saul ne è più che consapevole, e non si preoccupa minimamente di procedere in linea retta verso il traguardo che tutti conosciamo.

“Amarillo”, infatti, si apre con un’immagine chiarissima, un James McGill che è sempre più vicino ad assumere il nome che dà il nome all’intero spinoff; i fini che lo guidano sono ancora positivi, certo, ma la natura di Jimmy è qualcosa di impossibile da evitare, una costante che, nonostante i traguardi raggiunti, non può che accompagnare ogni evento e successo nella sua esistenza. Dopotutto, la serie parla anche (e forse soprattutto) di questo: dell’incapacità dell’essere umano di sfuggire alla propria natura più nascosta, dell’inefficacia dei tentativi di soffocare l’avidità e l’egoismo con i soliti buoni propositi. È il tema senza dubbio più caro anche alla serie madre, ed anche in questo caso entra in gioco lo sfaldamento dei rapporti familiari e personali – anche se in Better Call Saul le cause sono da imputare a molti più colpevoli. Esempio lampante di questo fatto è proprio Chuck, il motore di tutto, ancora adesso ostinato a non riconoscere il percorso ascendente intrapreso dal fratello. Ciò che affascina, tuttavia, è che tale avversione nasce da motivi ben fondati; il modo in cui viene mostrato mette il fratello maggiore in cattiva luce agli occhi dello spettatore, ma è anche vero che le sue accuse sono solidissime, basate sulla conoscenza di quella componente criminale impossibile da scindere dalla personalità di Jimmy.

È proprio questo che la serie (e “Amarillo” in particolare) cerca di sottolineare: nonostante la voglia e la necessità di trovare un posto rispettabile nel mondo, Jimmy non può che sentirsi estraneo a questo nuovo ambiente, ad una mentalità fin troppo abituata a pensare convenzionalmente per i suoi gusti. La regia di Scott Winant non fa che concretizzare tale condizione: non è insolito vedere il protagonista ripreso in posizione decentrata in uno spazio molto più grande di lui, un mondo che rischia di inghiottirlo con la sua normalità ed ordinarietà.
Non era difficile prevedere a cosa avrebbe portato la diffusione della pubblicità girata nell’episodio, anche se c’è da dire che sarebbe ingiusto incolpare esclusivamente l’ambiente che circonda Jimmy; quest’ultimo, dopotutto, è così attratto dall’eccitazione e dal fascino della truffa che non riesce a farne a meno, cacciandosi in situazioni che sarebbero state evitate raccontando semplicemente la verità. Tuttavia, è chiaro che ciò non rientra negli schemi del futuro Saul Goodman: la strada intrapresa, fatta di menzogne e raggiri, non promette nulla di buono, visto come tutti i legami a cui il protagonista è aggrappato adesso, a quanto pare, in futuro si saranno completamente disfatti.

Si muove di pari passo la storyline di Mike, anche lui fortemente legato al contesto familiare, in questo caso minacciato dalla paranoia e dal pericolo. Come per Jimmy (e, in futuro, per Walter White), la componente legata alla famiglia e quella guidata dalle tentazioni più intime si intrecciano senza più distinguersi, muovendo il personaggio con un duplice scopo: quello esplicito di proteggere i propri cari e quello più nascosto, che consiste nel soddisfare quei bisogni irrefrenabili che finiscono per guidare le azioni di ciascuno.
La svolta che chiude l’episodio (e che mette Nacho, finalmente, davvero al centro della scena) è qualcosa non solo di prevedibile ai fini del percorso che sappiamo Mike intraprenderà, ma è anche naturale, fluida: la costruzione di Gilligan e Gould dà i suoi frutti in passaggi come questo, che non soffrono delle esigenze della storia ma anzi le uniscono a quelle dell’evoluzione degli esseri umani al centro di essa.

“Amarillo” può essere considerato un episodio di passaggio, di transizione, anche se costituisce di certo un tassello fondamentale nel percorso che separa Better Call Saul dal ricongiungimento con gli eventi della serie madre. Si tratta, insomma, di una puntata ben studiata, diretta, semplicissima nella costruzione dell’intreccio (che, al momento, conta solo due storyline, entrambe eccezionalmente gestite), eppure potente ed efficace nell’esposizione dei temi, nell’approfondimento dei personaggi, nella messa in scena dell’inevitabile disfatta morale di Jimmy McGill. Ciò che conta di più, tuttavia, è che, nonostante si intraveda ormai quello che ci aspetta, l’attenzione rimane ancora tutta concentrata sul presente, componendo la storia raccontata con una calma ed una cura dei particolari invidiabili. Gilligan e Gould hanno quindi intenzione di prendersi il loro tempo, preferendo una narrazione rilassata (e, sì, prevedibile) ma coerente ed incisiva; se i risultati continueranno ad essere questi, ci sarà davvero poco di cui lamentarsi.

Voto: 8
Better Call Saul – 2×04 Gloves Off
Addentrandosi nel cuore della stagione, le vicende dei due grandi protagonisti dello show, Jimmy/Saul e Mike, giungono ad un punto di non ritorno. Con graditi ritorni e confronti eccellenti, Better Call Saul riesce nella difficile impresa di costruire un prequel sempre meno scontato e sempre più indipendente.

È quasi un obbligo dover chiamare in causa la serie madre, Breaking Bad, quando si tratta di analizzare un episodio della sua serie prequel; la natura stessa del prodotto non può prescindere dal tenere sempre a mente la più famosa opera di Gilligan, nonostante lo stesso creatore di entrambe le serie sia riuscito a dare un’identità propria a Better Call Saul fin dalla sua prima puntata. In questo caso il ponte che collega direttamente i due show è il personaggio di Tuco Salamanca, il narcotrafficante già apparso nei primi episodi della prima stagione: se l’anno scorso però toccava a Jimmy confrontarsi con lui, stavolta il criminale è il deus ex machina attraverso cui gli autori esplorano più a fondo l’animo tormentato di Mike Ehrmantraut.

Per capire il fil rouge che unisce tutta la storia di Mike, dalla prima stagione fino a questa puntata, è necessario sottolineare che il duo artistico dietro “Gloves Off”, penna di Gordon Smith e regia di Adam Bernstein, è lo stesso che lo scorso anno ci aveva regalato lo splendido “Five-O”, episodio incentrato interamente sul personaggio di Jonathan Banks, che ci aveva mostrato il suo passato e il suo presente attraverso una struttura a flashback. Non stupisce quindi che, nonostante l’episodio in esame presenti due linee narrative principali, gli autori scelgano di focalizzare l’attenzione principalmente sull’ex poliziotto, rallentando in modo intelligente il percorso di Jimmy che dovrà fare i conti con le conseguenze dello spot girato in “Amarillo”.
 
Mike e Tuco, quindi, sono il cuore pulsante dell’episodio, che in realtà conta almeno un’altra scena madre di cui si parlerà in seguito. È dal contrasto tra questi due personaggi che viene a galla la bravura degli autori nel saperli caratterizzare perfettamente, qualità amplificata dal fatto che entrambi sono già noti ai fan da molti anni: le due personalità sono antitetiche e rappresentano una bipartizione in base a cui possono essere divisi tutti i personaggi di Vince Gilligan. Mike è silenzioso, pacato, mai esuberante e sempre controllato in ogni situazione e addirittura in ogni espressione; fa parte di quella categoria di personaggi che non esplode, se non in rari casi, e che nasconde i propri segreti dietro una facciata insospettabile (così come Walter White e Gus Fring). Tuco è l’esatto opposto: eccessivo, incontrollabile, esplosivo e in una condizione di perenne instabilità. Non nasconde niente di sé, lui è così come viene presentato in scena; appartiene a una categoria di personaggi che non riesce a tenere a freno i propri impulsi, positivi e negativi che siano (qui si ritrovano anche Hank, Marie e in parte Skyler). Il loro confronto non poteva essere presentato in maniera migliore, un faccia a faccia che tiene in ansia lo spettatore, nonostante il cold open ne anticipi l’esito finale.

Ma il loro confronto non è altro che la conseguenza della scelta di Mike di trovare una soluzione alternativa all’omicidio. L’ex poliziotto ha già avuto a che fare con la morte, e forse proprio per questo non vuole ripetere il crimine che ancora tormenta la sua vita; gli autori ci fanno capire come in fondo sia un uomo buono, costretto dagli eventi ad abbracciare le sue qualità meno onorevoli e a sfondare più volte il muro della legalità. Il tutto però è raccontato con uno stile tanto naturale quanto privo di forzature, in un modo che risulta perfettamente credibile e incredibilmente appassionante; ma questa è sempre stata una caratteristica peculiare dei due show.
 
L’altra scena clou di cui si parlava è un altro confronto decisivo, questa volta tra Jimmy e Chuck. Si può dire che tutto “Gloves Off” sia costruito sui confronti tra i protagonisti e il resto del cast – Jimmy/Kim, Jimmy/Main, Jimmy/Chuck, Mike/Nacho, Mike/Tuco – e che nessuno di essi è indipendente dagli altri, ma si susseguono uno dopo l’altro, come un effetto domino. Jimmy arriva da Chuck con l’intenzione di rimediare ai suoi errori e di salvare la carriera di Kim, ma il suo approccio sfocia nella solita trattativa per raggiungere un accordo, che caratterizza la sua linea professionale e che sarà alla base del suo successo futuro. Tuttavia il fratello maggiore non può essere raggirato: lui conosce meglio di chiunque altro Slippin’ Jimmy, è ben consapevole di quello che vuole ottenere e, soprattutto, dei metodi illeciti con cui solitamente raggiunge i suoi fini. Come gli ricorderà lui stesso “See, that’s your problem, Jimmy: thinking the ends justify the means” e “Life is not one big game of “let’s make a deal”!”. James McGill non può cambiare, non del tutto perlomeno; la sua strada è segnata e suo fratello ne è ben consapevole, tanto da individuare nel suo comportamento una forma patologica, una dipendenza che difficilmente riuscirà a superare.

In definitiva, “Gloves Off” utilizza il confronto tra i personaggi come uno strumento efficace, intelligente e ricercato per raccontare le storie parallele di Jimmy e di Mike, con un’attenzione particolare per il personaggio di Jonathan Banks.

Voto: 8
Better Call Saul – 2×05 Rebecca
Better Call Saul è sempre stato un progetto ambizioso, ma soprattutto intelligente: staccandosi fin da subito dalla serie madre, ha dato un respiro nuovo al personaggio di Jimmy e creato un’atmosfera molto diversa da quella di Breaking Bad. Ora però arriva piano piano un profumo familiare, che si insinua nelle “crepe” di una storia straordinaria, e noi non possiamo che esserne entusiasti.

You don’t save me. I save me.
 
Nonostante il personaggio di Chuck sia disegnato per essere abbastanza scostante, sopratutto dopo quello che ha fatto a suo fratello, quello che dice a Kim non può che essere condivisibile: Jimmy è chiaramente un uomo buono, persino troppo certe volte, ma non sa trattenersi.
Jimmy vuole dimostrare al mondo di non essere quello che è, ovvero un semplice impiegato tuttofare che non ha nient’altro di meglio da raccontare se non come ha imparato a usare la fotocopiatrice o alcune barzellette sugli avvocati. Vuole dimostrare a tutti – ma soprattutto alle persone a cui tiene – di essere capace di fare grandi cose, di trovare soluzioni là dove sembra non ce ne siano, e per farlo rompe sempre qualcosa, salvo poi pentirsi e cercare di rimettere assieme i cocci sparsi per la stanza. Il bellissimo opening di puntata (su cui torneremo a discutere tra poco) ha un impatto molto più importante di quello che possa sembrare: Chuck si comporta in maniera condiscendente con il “fratello scemo”, invitandolo a cena alla presenza di Rebecca, compagna/moglie all’apparenza altezzosa, algida, anche se abilmente scopriremo che non lo è.
Il plot twist sulla freddezza che sembra aleggiare sul tavolo quando Jimmy comincia a raffica con le sue barzellette (che poi ribalta la situazione portando Chuck ad essere l’uomo in più a quel tavolo) sottolinea in maniera importante come Jimmy sia perfetto per un ruolo in cui deve intrattenere la gente, dove l’importante è attirare l’attenzione e convincere l’interlocutore con le parole: il primo seme del futuro Saul Goodman.

E poi c’è Kim, la vera protagonista di questo episodio; Kim, la principessa che Jimmy deve salvare dal drago, soprattutto perché nelle sue fauci ce l’ha buttata lui.
Ritorna qui il discorso dei cocci fatto da Chuck: Jimmy tenta di risistemare una situazione disperata, cercando di ricomporre un vaso Ming con della colla vinilica (la faccia di Kim all’idea di denunciare la HHM è tutta una programma). La donna allora, con pazienza certosina, tenta di ricomporre quei vasi da sola, quasi clamorosamente riuscendoci portando un cliente molto grosso alla sua azienda, anche se sembra non bastare. Il disastro che ha combinato Jimmy stavolta sembra difficilmente ricomponibile, e la storia strappalacrime che Chuck racconta proprio a Kim chiude il discorso in puntata lasciandoci ovviamente il dubbio che si sia inventato tutto, ma instillandoci quello che molto probabilmente la storia sia vera.
Jimmy non riesce a trattenersi, e questa sua incapacità può addirittura tramutarsi nella morte di qualcun altro: sappiamo bene cosa succederà poi nella sua trasformazione in Saul.

Lucky bastard.

L’ironia pungente di Better Call Saul ricalca un po’ quella di Breaking Bad, lasciandola però al momento su un piano leggermente meno macabro. La sequenza di Jimmy al bagno del tribunale, dove scappa dalla sua nuova “baby sitter”, ci fa sorridere ma anche pensare a come la percezione della vita sia a volte dovuta a mille sfumature, soprattutto quando si pensa che la fortuna sia ciò che non si ha.
È il pensiero del collega di Jimmy, che gli chiede di tutti i benefit del suo nuovo lavoro chiedendosi come abbia fatto e che è invidioso della sua nuova posizione: noi sappiamo invece che al momento probabilmente è messo meglio quell’avvocato un po’ sfigato, che ha addirittura del vomito sulla giacca dovuto a un cliente un po’ su di giri.
Ecco, questa distorta percezione della realtà si riflette anche su Mike, convinto di aver trovato il modo giusto per liberarsi di Tuco senza sporcarsi le mani: questa sua scelta di restare fondamentalmente un uomo buono lo porta invece in una spirale che riporta sullo schermo il mitico Hector Salamanca, tornato per mettere a posto la faccenda del nipote. Torna anche qui l’ironia amara della vita: per essere restato dalla parte del “giusto” (senza ammazzare nessuno) adesso è proprio Mike a trovarsi in pericolo, mettendo probabilmente al centro del mirino anche la sua famiglia.

La puntata è quindi costruita egregiamente, forse addirittura la migliore fino ad ora: gli autori si divertono a spiazzarci continuamente, specialmente nei cold open che sono delle vere e proprie chicche a sè.
I primi minuti di questa puntata, ma soprattutto il personaggio di Rebecca, possono essere considerati alla stregua di un MacGuffin. Dicasi di un MacGuffin: “ciò che caratterizza il MacGuffin e lo rende distinguibile da qualsiasi altro espediente narrativo è che non ha alcuna importanza la natura dell’oggetto, bensì l’effetto che esso provoca sui personaggi.” Difatti, per tutti i minuti restanti della puntata, la donna non solo non viene mai menzionata, ma non ha neppure nessun effetto rilevante sulle dinamiche “odierne” dei personaggi.
Il MacGuffin era appunto un espediente narrativo inventato dal maestro Alfred Hitchcock: il primo esempio che si ricorda è la busta contenente 40.000 dollari che compare all’inizio di Psyco (un esempio forse più conosciuto è la valigetta di Pulp Fiction). Guarda caso anche il titolo della puntata sembra slegato dal contesto: Rebecca è infatti il nome della donna usata in questa puntata come MacGuffin, ma forse non solo. Rimanendo nel mondo di Hitchcock, uno dei suoi primi film fu appunto Rebecca – La prima moglie, dove la protagonista viene solo citata per nome ma non si vede mai, anche se ha un ruolo importante nello sviluppo del personaggio maschile, ovvero suo marito: probabilmente, sarà così anche per Chuck, anche se dobbiamo ancora scoprire che cosa succederà a Rebecca e come mai ora non c’è più.

“Rebecca” continua l’ottimo lavoro su questa stagione, che mantiene ritmo e che soprattutto continua ad innalzarsi dal punto di vista tecnico, con una fotografia degna di nota soprattutto nella prima parte dell’episodio, dove la faccia di Chuck al cospetto di Rebecca è quasi sempre nascosta dall’ombra, come per dirci che la sua vera natura – quella che vediamo oggi? – di fronte alla donna rimaneva molto spesso celata.
Questo episodio rimarca in maniera decisa, grazie alle scelte dei personaggi e al loro status quo raggiunto con questi 45 minuti, un assunto che si può perfettamente riassumere con una frase di Rabbia di Palahniuk: “Rant voleva dire che nessuno è mai felice, da nessuna parte.”

Voto: 8
Better Call Saul – 2×06/07 Bali Ha’i & Inflatable
A meno tre dal finale, Better Call Saul dà una scossa decisiva al racconto, delineando sempre più chiaramente quel percorso che porterà Jimmy Mc Gill a diventare Saul Goodman. Tra grottesca ironia e sagace introspezione, questi ultimi due episodi portano a pieno compimento l’armonizzazione tra esecuzione formale e intreccio narrativo tipica dello show.

Queste due puntate sono legate da un forte rapporto di consequenzialità: in “Bali Hai’i” si arriva all’apice di un disagio che scoppia in maniera inevitabile in “Inflatable”. La forza del racconto sta nel creare una situazione speculare tra i vari personaggi coinvolti – Jimmy, Mike e Kim – su cui aleggia inesorabile la potenza di un desiderio di trasformazione, percepito quasi come un dovere nei confronti di quelle capacità che ognuno si ostina a tenere nascoste. Per Kim, la proposta di Schweikart è quell’agognato riconoscimento professionale che aspettava da tempo. Un solo passo falso e Howard non ha aspettato un secondo per spedirla a revisionare documenti, e non è bastata neanche l’acquisizione di un cliente importante per farla ritornare in piena regola nei ‘piani alti’ ma è dovuto intervenire Chuck, che si è sentito in dovere di riparare nuovamente ai danni del fratello. Messa di fronte alle sue potenzialità, Kim si trova a riflettere sulla sua carriera in un modo completamente nuovo, cominciando a pensare che la Schweikart Coakley, alla fine, non sia altro che una versione rimescolata della HHM.

Molto più complessa è la situazione in cui viene a trovarsi Mike, catapultato di nuovo al centro della malavita di Albuquerque: nonostante cerchi di resistere, si ritrova a contrattare il suo compenso con un Hector Salamanca arrivato perfino a minacciare la sua famiglia. Con il suo solito fare taciturno e scostante, anche Mike è messo di fronte alla potenza delle sue capacità, e per quanto tale sensazione non sia proprio piacevole da provare si ritrova a riflettere sulla possibilità che un coinvolgimento attivo in quel mondo che cerca di allontanare sia forse il modo migliore per assicurare agilità alla vita della sua famiglia. Forte di una caratterizzazione che affonda le sue radici nella serie madre, tutto il racconto su Mike è costruito in sottrazione, in perfetta sintonia con il tenore del personaggio, con una precisa attenzione ai dettagli – come il focus sul sangue che scorre sul lavandino dopo aver cacciato gli scagnozzi di Salamanca da casa sua – a cui fa eco la sempre ottima interpretazione di Jonathan Banks, che riesce a raccontare il suo stato d’animo attraverso il fluire di uno sguardo, come quello tentennante e risoluto che ha quando, nel finire del settimo episodio, si ferma con la macchina davanti al ristorante presidio dei Salamanca.

Tra le due situazioni agli antipodi di Mike e Kim si erge Jimmy, intrappolato sempre più pesantemente in una vita in cui non si riconosce. Anche qui l’attenzione ai dettagli diventa parte integrante dell’intreccio narrativo, fungendo da amplificatore di un sentimento di disagio che si fa sempre più opprimente; in particolare le incessanti inquadrature al thermos del caffè, che non entra nel vano portaoggetti della sua comodissima auto, hanno un particolare valore simbolico nel porsi in parallelismo con lo stato d’animo di un uomo sempre più fuori posto. Ed è proprio nel momento in cui la percezione del suo spazio vitale è diventata più angusta che mai che, in conclusione di “Bali Ha’i”, Jimmy decide di rompere il vano portaoggetti, rimarcando così, attraverso un gesto apparentemente disgiunto da tutto, che se una cosa non è adatta alle proprie esigenze dev’essere cambiata.

So, yeah. Colorful, I guess.

Il settimo episodio, infatti, comincia proprio con la concretizzazione di un cambiamento: trovare un modo per lasciare la Davis & Main, senza perdere il bonus. “Inflatable” ha una struttura narrativa impeccabile, in cui tutti i punti nevralgici del racconto ricevono una scossa imponente, attraverso un intreccio che, ironicamente, segue alla lettera la sequenzialità delle truffaldine manipolazioni tipiche dell’estro di Jimmy: lo studio delle tempistiche sulla base dei piani di Kim, la risoluzione del problema ‘bonus’, l’idea di esasperare Cliff e soci e soprattutto lo sviluppo di tale idea. Il tutto è, ancora una volta, supportato da un apparato simbolico che in questo episodio acquista un rilievo davvero imprescindibile. Alle inquadrature del thermos del caffè, finalmente al ‘suo posto’ – meno stabile, ma molto più comodo –, si uniscono i richiami visivi al pupazzo gonfiabile, che nel suo essere simbolo di gioiosa libertà è il medium perfetto per installare un’idea tanto geniale quanto diabolica. Il lungo montaggio in cui vediamo realizzarsi il piano “a colori” con cui Jimmy Mc Gill cerca di farsi licenziare è un capolavoro di ironia formale, con un uso dello split screen volto a restituire l’esasperante accumulazione degli espedienti usati, mostrati in contrappunto all’immagine del pupazzo, come a rimarcare l’intento finale del tutto: l’uso dei colori è il mezzo per arrivare a essere libero di farsi trasportare dal vento.

I’ve been trying to be the person someone else wants me to be for… I don’t know how long.

Seguendo una struttura organica ed efficace, al crescendo delle immagini visive corrisponde una lenta e risolutiva presa di coscienza dei propri limiti e delle proprie potenzialità: Jimmy ammette che per poter sfruttare appieno la sua forza ha bisogno di non essere più ciò che gli altri desiderano che lui sia e comprende di doversi lasciare alle spalle tutti quegli insegnamenti che il padre prima e Chuck dopo hanno cercato di inculcargli. Per farlo cerca anche di fruttare i benefici derivanti dal suo rapporto con Kim: per quanto la donna abbia in qualche modo influenzato i suoi ultimi tentativi di rigare dritto, è la prima persona che pur non condividendo la sua indole l’ha comunque conosciuta e in un certo senso anche apprezzata. L’approvazione di Kim è il modo con cui Jimmy potrebbe mettere in equilibrio le sue due anime, e averla al suo fianco, ovvero stare all’ombra della sua accettazione, è il modo migliore con cui imparare ad accettare se stesso. Inoltre, la proposta di creare la Wexler & McGill si basa su una comune condizione che, se differisce per sostanza, è comunque uguale per qualità: sia Kim che Jimmy, come abbiamo già accennato, attraversano quella fase della vita che urla il bisogno di cambiamento. Entrambi hanno una sfrenata urgenza di concentrarsi autonomamente sullo sviluppo di capacità rimaste inesplose, ma soprattutto entrambi sentono la necessità di essere pienamente se stessi. Proprio per questo Kim è la persona migliore per comprendere davvero il desiderio di Jimmy, ed è infatti da lei che viene la proposta più organica, la soluzione migliore per entrambi: saltare insieme al di là di confortanti binari, ma restare comunque ognuno per sé.

Nonostante si conosca perfettamente l’epilogo che avranno sia Jimmy che Mike, in questa stagione il racconto sullo sviluppo di quell’attitudine che gli sarà fatale comincia ad acquistare una maggiore stratificazione rispetto alla prima annata. Inoltre l’approfondimento dei personaggi è ben integrato con lo sviluppo di una storia organica, compatta e lineare che àncora la narrazione al presente, svincolandosi quasi totalmente dalla sudditanza nei confronti della serie madre, in modo da far sì che ogni parallelismo con Breaking Bad sia come un piacevole valore aggiunto a una visione già di per sé esaustiva.

In definitiva, “Bali Ha’i” e “Inflatable” sono due buoni episodi che confermano l’andamento positivo di questa seconda stagione e rappresentano (il settimo in particolare) un punto di svolta per uno show che comincia ad acquisire un’identità sempre più precisa e marcata.

Voto 2×06: 7/8
Voto 2×07: 8½
Better Call Saul – 2×08 Fifi
Better Call Saul quest’anno ha davvero spiccato il volo: dopo una notevole ma non memorabile prima stagione, la serie di Vince Gilligan e Peter Gould si è liberata dal suo bozzolo creativo riuscendo a calibrare in modo quasi perfetto una scrittura eccellente con la solita regia innovativa, creando un prodotto del quale ci si fida ciecamente.

La fiducia che riponiamo nella serie è tutta spiegata dai primi cinque minuti di “Fifi”, un ottavo episodio che vuole essere la definitiva conferma del salto qualitativo dello show, dopo i già sette bellissimi capitoli che lo hanno preceduto. In questo cold open non accade essenzialmente nulla di rilevante per la trama dell’episodio, o meglio, non direttamente; quella che ci viene presentata, infatti, è una scena abituale che si svolge lungo il confine tra il Messico e gli Stati Uniti, dove un corriere di Hector Salamanca deve passare la lunga serie di controlli prima di poter portare il suo furgone sul territorio americano. Come si è già detto, a prima vista potrebbe sembrare una scena poco importante, ma in realtà è una sequenza che racchiude in sé l’anima stessa della serie: la perfezione registica con cui è girata (un piano sequenza da capogiro) e il fatto che comunichi più attraverso le immagini che con le parole rappresentano un pregio assoluto in quello che si può definire un atipico legal drama.

Lo spaccato sociale in cui si cala questa scena è quello delle difficili terre di confine americane, un luogo in cui il clima e il paesaggio desertico permettono la proliferazione di un’attività criminale che passa quasi inosservata e silenziosa, in cui il confine non è solo quello geografico, ma anche quello morale tra il bene e il male, e questa separazione non è sempre così netta. Sono i luoghi che ci vengono raccontati sin dai tempi di Breaking Bad, dalle crudeli sequenze di El Paso alla tragica storia di Gus, e che in questo spin-off vengono completati in modo da formare un affresco televisivo il più realistico possibile della realtà sociale di Albuquerque e del New Mexico.
 
Questa lunga opening ci introduce perfettamente nelle dinamiche che intercorrono tra i protagonisti, ed in particolare la storia riprende dopo la coraggiosa decisione di Jimmy e Kim che aveva chiuso lo scorso episodio. La voglia di indipendenza, di volersi liberare dalle catene professionali in cui era imprigionata è il motore della scelta di Kim, uno dei personaggi che quest’anno si è imposto con decisione come contraltare morale del protagonista. Il rapporto tra i due, infatti, è sempre stato presentato come un abile gioco di specchi: Jimmy vede in Kim tutte le sue migliori qualità, esattamente come la donna vede in lui tutto quello che non vuole diventare, quel modo di lavorare che si può permettere di accantonare le regole in vista dei successi professionali. È proprio questa presa di posizione che fa sì che miss Wexler perda lo scontro con la HHM per accaparrarsi la causa della Mesa Verde, scegliendo di passare per i canali tradizionali e non giocando d’anticipo come consigliato dal partner. Kim è un avvocato davvero bravo, tanto bravo da non riuscire a stravolgere la sua concezione della legalità, nemmeno con delle solide motivazioni alla base: tutto l’opposto della figura mendace in cui si sta tramutando Jimmy.

La difficile situazione di Kim, infatti, diventa per il futuro Saul Goodman l’occasione per liberare tutte le sue peggiori qualità manipolatorie, facendo riemergere la personalità di Slippin’ Jimmy che, come ricordava suo fratello qualche episodio fa, non lo abbandonerà mai e riemergerà in modo inevitabile nell’esercizio della sua professione e, più in generale, nella sua vita. La molla che fa scattare questo meccanismo, però, è proprio l’intervento diretto di Chuck nel voler ostacolare il futuro di Kim e di conseguenza di Jimmy, un’intromissione che risulta ancora più decisiva se vista nell’ottica della malattia che lo affligge, le cui conseguenze diventano l’occasione perfetta affinché il fratello minore attui la sua vendetta. È una discesa morale sempre più netta quella di Jimmy, rincarata dalla scena dell’imbroglio che dà il nome all’episodio, in cui il protagonista si fa beffe addirittura degli ideali della nazione facendo leva sul patriottismo dei piloti, che qui non fanno certamente una grande figura, con l’obiettivo di girare lo spot per il suo nuovo studio.

Uscendo un attimo dal territorio della giurisprudenza, focalizziamo l’attenzione sull’altro grande protagonista dello show, la cui storyline trova il collegamento con il cold open dell’episodio chiudendo una sorta di struttura circolare della trama di “Fifi”. Mike è reduce da un doloroso accordo con Hector Salamanca, risolto a fatica dopo ripetute minacce alla sua famiglia, ma il personaggio interpretato da Jonathan Banks non è un uomo che si piega facilmente e ha già pronto un piano per risolvere anche questo problema. Si è già parlato spesso della caratteristica principale di Mike, ovvero i peculiari ed espressivi silenzi che compongono la recitazione dell’attore; a questo si aggiunge il rapporto affettuoso con la nipote che bilancia il lato più oscuro del suo carattere, l’anima del poliziotto in pensione poco incline a seguire le regole. Esemplare la scena che chiude l’episodio, dove un normale pomeriggio tra nonno e nipote si trasforma in realtà nella creazione di un’arma, di cui la bambina diventa complice.

La seconda stagione di Better Call Saul prosegue su una strada più che positiva, confermando la voglia di raccontare una storia di cui conosciamo la fine, ma senza poter prevedere come ci si arriverà, e soprattutto a quale prezzo. “Fifi” è un episodio completo e registicamente ineccepibile che, soprattutto per Jimmy, segna un punto di non ritorno nel suo doloroso rapporto con il fratello e apre la strada agli ultimi due episodi della stagione, i quali saranno decisivi nella possibilità di consacrare definitivamente questa bellissima annata dello show.

Voto: 8,5
Better Call Saul – 2×09 Nailed
Uno dei maggiori punti di forza di Better Call Saul, soprattutto in questa seconda annata, è la capacità di trascendere la sua natura di spin-off, dando vita a un prodotto solido e dotato di una propria personalità, pur senza rinnegare l’universo narrativo ed estetico in cui si inserisce.

Insomma, i riferimenti alla serie madre non mancano – la presenza costante della famiglia Salamanca è uno degli esempi più eclatanti – ma, grazie all’ottimo lavoro portato avanti in fase di scrittura, il fulcro d’interesse dello spettatore si è distanziato sempre di più dai tie-in per concentrarsi sul percorso dei protagonisti, senza alcuna fretta di vederli ricongiungersi con i loro corrispettivi in Breaking Bad.

Infatti, se la scorsa stagione, fatta esclusione per “Five-O”, è stata comprensibilmente Jimmy-centrica, quest’anno gli autori hanno optato per un racconto più corale, dedicando molto spazio non solo a Mike ma anche a Kim. Il ritmo composto della narrazione, attento a indagare le conseguenze di ogni piccolo evento nell’animo dei protagonisti, ci ha accompagnato fino al penultimo episodio, in cui il legame, non solo narrativo ma innanzitutto tematico, con la serie madre torna a farsi sentire più forte che mai, con una potenza devastante che è figlia del lavoro di preparazione che l’ha preceduto.
 
Se il cold open rappresenta il classico omaggio iconografico a Breaking Bad – il deserto, il camion, l’uomo imbavagliato –, efficace ma operante in superficie, con il procedere della puntata ci accorgiamo invece di assistere a un momento cruciale per l’evolversi della narrazione, quello in cui vediamo i protagonisti “breaking bad”. “Nailed” rappresenta in quest’ottica un punto di svolta – forse di non ritorno – per Jimmy e Mike (e in un certo senso anche per Kim): la loro discesa agli inferi subisce una brusca accelerazione, la cui portata e le cui motivazioni possono essere efficacemente misurate in rapporto a quella di Walter White. Molte sono infatti le similitudini, ma ancora di più le differenze, che permettono al racconto di porsi come un’originale variazione sul tema di elementi cari agli autori e non come una semplice copia sbiadita della parabola di Heisenberg.

Le azioni di Jimmy e Mike procedono in modo parallelo ma quasi interamente sovrapponibile: in entrambi i casi il desiderio di vendetta – nei confronti di Chuck e di Salamanca – si lega a doppio filo con la distorta convinzione di proteggere e aiutare le persone a loro care, in un cortocircuito in cui proprio coloro che avrebbero dovuto rappresentare l’àncora di salvezza per i due uomini finiscono per divenire la causa della loro caduta. Questi sentimenti portano i due a sopravvalutare il loro ingegno, ignorando le conseguenze delle loro azioni fino a che non sarà troppo tardi: Mike si illude di poter continuare a invischiarsi nei traffici dei Salamanca senza sporcarsi le mani ed è proprio l’incapacità di accettare la sua indole criminale che lo porta non solo a essere scoperto ma anche ad avere la morte di un innocente sulla coscienza; allo stesso modo Jimmy crede di riuscire a ingannare Kim e Chuck, sottovalutando come entrambi conoscano ormai molto bene i suoi difetti e le sue debolezze.

La manipolazione dei documenti di Mesa Verde ha delle ricadute pesantissime sul racconto, andando definitivamente a rompere i precari equilibri relazionali che fanno capo a Jimmy: questo vale innanzitutto per Kim – una delle più piacevoli sorprese della stagione –, la quale, in barba all’accordo stipulato, si ritrova a subire le scelte e il modus operandi di Jimmy, finendo così per varcare suo malgrado un limite, quello della legalità, da cui non sarà facile fare ritorno, e che presumibilmente segnerà la fine del suo legame con il futuro Saul. Che la vicinanza di Kim a Jimmy avrebbe finito col danneggiare la donna era ampiamente prevedibile, lo stesso però non può dirsi di Chuck, le cui sorti sono ancora incerte.
 
Al di là dell’esito dell’incidente nel negozio di fotocopie, è innegabile che Jimmy abbia agito facendo consapevolmente leva sulla malattia del fratello, senza preoccuparsi delle conseguenze che ciò avrebbe avuto sul suo precario stato di salute. In quest’ottica l’incidente, a cui Jimmy assiste inerme, non fa che amplificare la portata delle sue azioni, gettando un’ombra oscura e tragica sulla rappresentazione della sua indole disonesta. Come sottolineato più volte dallo stesso Chuck, insopportabile ma sempre nel giusto, il comportamento di Jimmy non può essere dismesso solo come un’innocua tendenza alla menzogna e al raggiro – quella che ad esempio lo porta a cantare “Escape (The Piña Colada Song)” per completare il suo spot; è una volontà inarrestabile di piegare gli eventi a suo favore che non conosce limiti, siano questi quelli della legalità o del rispetto degli affetti, e quindi inevitabilmente pericolosa.

Nel complesso “Nailed” non può che considerarsi come l’ennesima scommessa vinta per Gilligan e Gould: forti della scrittura solida e impavida che ha caratterizzato in un crescendo entrambe le stagioni, gli autori tornano ad attingere a piene mani nell’immaginario di Breaking Bad, ma lo fanno in maniera quanto mai intelligente. Da un lato i parallelismi con il percorso di Walter White – il suo rifiutare di considerarsi un criminale, la morte di Jane – sono funzionali a sottolineare le somiglianze e le differenze che intercorrono tra lui e i protagonisti dello spin-off; dall’altro, cosa ancora più importante, il tanto atteso momento della trasformazione di Jimmy e Mike nei personaggi che abbiamo conosciuto in Breaking Bad assume una dimensione tragica, la cui portata emotiva era difficilmente prevedibile al debutto dello show.

Voto: 8/9
Better Call Saul – 2×10 Klick
Si cristallizza con questo finale la grande sfida della seconda stagione di Better Call Saul: trasformarsi da ottimo spin-off a show indipendente vero e proprio, pur mantenendo un solido (e inevitabile) legame con la serie madre. Un passo per niente facile, ma che ripaga pienamente tutti gli sforzi necessari per compierlo.

Dopotutto, la seconda annata di una serie ha sempre il compito di testare l’effettivo valore a lungo termine del prodotto, la sua capacità di costruire qualcosa di effettivamente duraturo e soddisfacente. In questo caso la domanda era però più incerta e, in un certo senso, più ampia: non si trattava di capire se lo show avrebbe continuato su alti livelli (i nomi dei creatori, in questo senso, bastano e avanzano), la domanda era come si aveva intenzione di farlo. Ci si sarebbe avvicinati sempre più all’universo di Breaking Bad, alimentando il gioco di rimandi e citazioni iniziato nella prima stagione, o si sarebbe cercato di costruire qualcosa di autonomo ed indipendente? La risposta, come sempre accade, non è semplice e diretta quanto lo si vorrebbe, ma è chiaro che la seconda opzione ha – e, ora possiamo dirlo, fortunatamente – prevalso sulla prima.

Non che le basi non esistessero, anzi: già nella scorsa annata la storyline di Jimmy e Chuck aveva costituito uno dei punti più solidi dello show, e il personaggio di Kim aveva già cominciato ad essere parzialmente approfondito. Il tutto, però, rimaneva sempre subordinato al futuro Saul, centro della storia a cui tutti gli altri personaggi ruotavano intorno. Quest’anno la situazione è molto diversa, e il cold open di questo finale lo dimostra: benché Gilligan apra l’episodio con un’inquadratura su Jimmy, è Chuck il protagonista della scena. Anche dopo che il fratello se n’è andato, l’attenzione è tutta indirizzata verso il conflitto interiore del personaggio di Michael McKean, all’approfondimento delle sue motivazioni; capire cosa sta dietro alle azioni di Chuck non serve solo a comprendere i torti ai danni di Jimmy, ma anche (e soprattutto) ad inquadrare ulteriormente un personaggio, una parte di un universo che è ormai definito e del tutto autonomo. L’interesse verso la storia non è più la semplice necessità di vedere come si arriverà a Saul Goodman, ma è dettato dalla voglia di scoprire come si svolgeranno le relazioni tra i personaggi, a prescindere dal punto di arrivo; la sensazione di assistere ad un prequel, insomma, è del tutto svanita.

È proprio da questo concetto che parte quest’ultimo episodio: in particolare, quello che stiamo vedendo è ancora Jimmy, non Saul, e il fatto che intervenga immediatamente a soccorrere il fratello lo dimostra. L’evoluzione di questa stagione è stata lenta e graduale, ma siamo di fronte ad un personaggio non ancora corrotto e alla deriva; ed è forse questa la causa della futura rovina di Jimmy, i cui buoni propositi vengono manipolati ed usati contro di lui, in un cliffhanger conclusivo che, per quanto prevedibile, trae la sua forza dalla costruzione dei rapporti tra i due personaggi intrapresa fin dalla prima annata.
Tuttavia, è solo in questo finale che cominciano ad emergere i reali punti di contatto tra i due fratelli: entrambi, infatti, non fanno che nascondere le proprie sporche motivazioni dietro nobili principi, cercando di negare la propria natura più intima. Da un lato c’è Jimmy, pronto ad usare l’amore per Kim come scusa ma in realtà spinto dalla sua indole irresistibile, incapace di gestire le cose in modo onesto e diretto; dall’altro Chuck, che usa la moralità e la professionalità per nascondere un’invidia latente da tempo, per poi alla fine ricorrere agli stessi subdoli trucchi tipici del fratello. Entrambi, poi, sono legati da un concetto di famiglia che continua a riplasmarsi senza un’accezione morale definita, agendo sulle azioni di ciascuno; è un rapporto ambiguo, che spinge Jimmy ad aiutare il fratello e a confessare e che, allo stesso tempo, porta Chuck a detestare che il sangue lo accomuni ad un essere umano così diverso da lui.

Ancora del tutto staccata dalla storyline principale si muove invece la vicenda di Mike, la principale fonte di collegamenti e rimandi col mondo di Breaking Bad; oltre ai personaggi già incontrati e conosciuti nella serie madre, sono la violenza e la componente pulp che la caratterizzavano che si stanno molto lentamente facendo strada, in un crescendo che porta il personaggio di Jonathan Banks ad abbandonare la sua repulsione verso il mondo del crimine. È un gioco molto sottile quello di Gould e Gilligan, un gioco di attesa e di frustrazione, in cui l’attenzione maniacale per l’evoluzione di Mike porta a rimandare continuamente il punto d’incontro con lo stile vero e proprio di Breaking Bad e, in questo finale, con uno dei suoi personaggi principali: l’artefice del biglietto che compare nell’episodio è infatti indubbio, visto anche l’anagramma formato dalle iniziali dei titoli degli episodi di questa stagione (“FRINGSBACK”, ovvero “Fring è tornato”).
Rimane qualche dubbio, tuttavia, sulla piega così indipendente che ha preso la linea narrativa di Mike, che va in pratica (anche secondo le parole dello stesso Gilligan) a costruire una serie a parte, che solo saltuariamente si intreccia con le vicende principali; certo, è interessante assistere a come si arriverà alla situazione vista in Breaking Bad, ma la sensazione è di trovarsi di fronte ad un quadro poco omogeneo, in cui l’alternanza delle due storyline principale non è dettata da alcuna esigenza di tipo tematico o narrativo. Sembra, insomma, di vedere letteralmente due show in uno: il problema è che questo potrebbe non essere del tutto positivo per la crescita e la maturazione di Better Call Saul.

L’altro minore problema di “Klick” è che non sembra, in tutto e per tutto, di assistere ad un season finale: è vero che la storia di Jimmy e Chuck vede una svolta definitiva, ma manca una sensazione di chiusura almeno parziale. Si tratta di un ottimo episodio in sé, il problema è che la narrazione viene troncata come se mancasse un pezzo, lasciando gli archi dei personaggi (Kim e Mike soprattutto) a metà, in attesa di una terza stagione che possa intervenire proseguendo il loro percorso. Non è un grosso problema, sia chiaro, e la qualità della scrittura e della messa in scena (la regia di Gilligan è davvero qualcosa di superlativo) continuano a rendere la puntata ben sopra la media televisiva attuale; resta però un po’ di amaro in bocca per quest’occasione mancata, o meglio rimandata. Starà alla prossima annata continuare su questa linea e portare alla conclusione le storie e i temi lasciati in sospeso con questo atipico finale di stagione.

Si conclude, quindi, quella che possiamo definire l’annata della consacrazione di Better Call Saul, ora a tutti gli effetti una serie autonoma e capace di reggersi sulle proprie gambe. Questi dieci episodi non fanno che confermare l’enorme talento di Gould, Gilligan e soci nel costruire una storia solida e ben curata, attenta nel minimo dettaglio alle evoluzioni dei personaggi e ai piccoli meccanismi che ne muovono i rapporti; a ciò si aggiunga la solita smisurata potenza del comparto visivo, più che mai perfetto nel fornire una marcia in più al già solidissimo impianto narrativo che sorregge il tutto. Resta quindi da vedere dove ci porterà la prossima (già confermata) stagione, che, lo diciamo subito, partirà con delle aspettative tutt’altro che basse; visti i precedenti, possiamo dire che difficilmente verranno disattese.

Voto episodio: 7/8
Voto stagione: 8½
Better Call Saul – 3×01 Mabel
Torna, atteso più che mai, l’avvocato che tutti (non) vorremmo: Jimmy McGill e tutti gli altri personaggi di Better Call Saul ci riportano nell’universo che fu di Breaking Bad ma che ormai, giunto alla terza stagione, si può dire tutto appannaggio del “secondo miglior avvocato del mondo”.

For ten minutes today, Chuck didn’t hate me.
 
Ritroviamo quindi i fratelli McGill nell’esatto momento in cui li avevamo lasciati, ovvero dopo quel sinistro “klick” del registratore, che ha impresso nella sua cassetta la confessione di Jimmy riguardo i documenti contraffatti.
Ma prima gli autori ci regalano quello che ormai è un marchio di fabbrica, che avevamo già imparato ad amare con Breaking Bad: un cold open che ci catapulta nel futuro, dove McGill è ancora alle prese con il lavoro al centro commerciale. La scena tragicomica che lo vede protagonista fa esplodere in un solo istante tutto quello che Jimmy si porta dentro e sottolinea, anche con il tragico e bellissimo bianco e nero con cui viene presentata la sequenza, quella vecchia vita che riaffiora e che accompagnerà il fu Saul Goodman per tutta la vita. Un futuro in bianco e nero che sembra non dare scampo all’ex avvocato, sempre più solo.
E sono la solitudine, i ricordi, la disperata ricerca nel suo famigliare più stretto di quel calore che gli è sempre mancato, a cui si aggrappa – anche un po’ furbescamente – Jimmy per fare un triplo salto carpiato e cercare di evitare di ritornare a parlare di quello che ha fatto e che ha appena confessato. “Le avventure di Mabel” di Harry Thurston Peck – libro antichissimo, come le emozioni che suscita nei due fratelli – è la roccia a cui tenta di aggrapparsi Jimmy e con cui vorrebbe riabbracciare quel fratello che glielo leggeva da bambino; il tentativo di percorrere il viale dei ricordi e delle emozioni però non funziona, e Jimmy riprecipita subito in un luogo che conosce bene, dopo la fredda minaccia di Chuck che sta già pensando a come fargliela pagare.

Poi c’è Kim, forse un po’ in ombra in questa puntata, che ormai sta assorbendo anche involontariamente i modi di fare e di pensare di Jimmy. Quel logo speculare del loro ufficio che gli ha proposto McGill nella scorsa stagione è lì a testimoniarlo: anche se in uffici differenti, pur sempre sotto lo stesso tetto.
La meravigliosa sequenza della sua indecisione mentre modifica il documento a cui sta lavorando è fenomenale nel spiegare la filosofia che sta alla base dello show (e anche forse della serie madre di cui è figlia): anche un leggerissimo particolare che non tutti sono capaci di vedere può sconvolgere un mondo, come la differenza che passa tra un punto e un punto e virgola. Kim sta già pensando come Jimmy, come tirare l’acqua al proprio mulino in maniera apparentemente semplice ma furbissima. Non è più tempo di arcobaleni in ufficio, insomma.

You sell a gas cap for an ’87 Caprice Wagon?

L’altra metà di puntata è occupata dal monumentale Jonathan Banks nei panni di Mike Ehrmantraut. Lo ritroviamo intento a scappare dal luogo in cui si era appostato per uccidere i componenti della famiglia Salamanca, dopo che qualcuno ha fatto suonare il clacson della sua macchina.
Le sequenze che lo vedono protagonista sono quasi oniriche: il silenzio è l’arma tagliente di questo personaggio, che anche avendo quasi sempre la stessa espressione – la cambia solo al cospetto della nipote – dice tutto quello che c’è da dire senza pronunciare una parola. La pazienza certosina con cui smonta la macchina, alla ricerca di una cimice che è sicuro ci sia, ci riporta all’indecisione di Kim mentre modifica il documento al pc: a volte, la soluzione ce l’abbiamo sotto il naso, ma non ce ne accorgiamo. Mike distrugge la sua macchina, quando aveva quasi trovato il bandolo della matassa fin da subito, svitando il tappo della benzina.

Tutte le soluzioni che trova dopo sembrano elementari perché è Mike che le fa sembrare tali, ma non lo sono affatto: è la pazienza la virtù dei forti, e lui ne è la perfetta incarnazione. Chi sono gli uomini che l’hanno fermato e che adesso vogliono sapere tutti i suoi movimenti? Non lo sappiamo ancora, ma probabilmente sono le prime avvisaglie della comparsa di un personaggio molto amato, specie per i fan di Breaking Bad.

Better Call Saul torna con un episodio che riprende i fili del discorso in maniera ordinata, senza stravolgere troppo l’ordine delle cose ma lasciando alle restanti nove puntate l’onere di farlo. Non per questo l’episodio è da criticare, anzi: la forza di questo show sta anche nel mantenere alta l’attenzione anche quando la trama si sta solo stabilizzando in vista di probabili scosse future.
Nel libro di Harry Thurston Peck, la protagonista Mabel aiuta il Re delle lucertole e dei brownies e viene ripagata con il potere di parlare agli animali: che il nostro Jimmy “Mabel” McGill sia in attesa del Re Gustavo “Gus” Fring?

Voto: 7
Better Call Saul – 3×02 Witness
L’atteso ritorno dell’esuberante avvocato di Albuquerque, già a partire dai primi due episodi della terza stagione, si rivela senza alcun dubbio all’altezza di ogni aspettativa. Il merito è dovuto alla meticolosa attenzione che Gilligan dedica alle scelte registiche, la cui maestria tecnica concorre a rendere la rappresentazione delle vicende di Jimmy dettagliata e sofisticata. Lavorare sullo spin-off di Breaking Bad – il cui universo è già ben noto al pubblico – dà infatti la possibilità al regista di spaziare alla ricerca di nuovi e diversi modi di raccontare, riuscendo così a donare alla serie un’indipendenza che le permette di evolversi in maniera sempre più profonda e stratificata.

A farla da padrone in “Witness” sono i dettagli: oggetti, immagini, musica e sguardi non sono usati solo per abbellire l’estetica dello show, ma assumono qui un’importanza cruciale in quanto guidano e talvolta anticipano le svolte narrative, permettendo all’ambiente stesso di raccontare molto più di quanto facciano i dialoghi, che non a caso in questo inizio di stagione occupano sempre meno spazio.
È proprio in questo modo che la silenziosa ricerca di Mike, iniziata nel primo episodio, ci conduce qui non solo all’unione della sua storyline con quella di Jimmy, ma soprattutto nel cuore di un luogo (Los Pollos Hermanos) a dir poco iconico, e di un incontro con uno dei personaggi più importanti e amati di Breaking Bad: Gustavo Fring, interpretato sempre dall’impeccabile Giancarlo Esposito.

Il ritorno di Gus non è certo una sorpresa: gli autori stessi hanno ampiamente annunciato che lo avremmo rivisto. Tuttavia, il modo in cui Gilligan ha (ri)presentato il subdolo personaggio è a dir poco perfetto: la lenta introduzione dell’uomo – rappresentataci in maniera sfuggente alle spalle di un Jimmy completamente assorto in altri pensieri – concorre a creare un particolare “gioco” con lo spettatore che, in questa situazione, è l’unico ad avvertire in anticipo l’importanza cruciale di questi incontri.

L’aver deciso di presentare Gus in modo così sottile rispecchia oltretutto il carattere stesso del personaggio, la cui apparenza perfetta, gentile e ordinata nasconde una dimensione ben più cupa e subdola, che sale in superficie solo nei momenti di solitudine dell’uomo, i cui repentini cambi di espressione sottolineano il carattere di ambiguità che gli appartiene.
La fine della ricerca di Mike, quindi, chiude un cerchio e ne apre un altro molto più grande e dalle potenzialità narrative a dir poco immense, che sarà di grande importanza nei prossimi episodi.

Tuttavia, il ritorno di Gus non è l’unico colpo di scena della puntata: la trappola che Chuck tende al fratello è probabilmente una delle ragioni principali che porterà al passaggio da Jimmy McGill a Saul Goodman.
La freddezza e l’intransigenza con cui Chuck vuole agire vengono anticipate nel cold-open attraverso le carte da gioco provenienti dal casinò, tutte appositamente bucate per impedire di barare.
Nella buia ambientazione della casa di Chuck, queste assumono il ruolo di una perfetta metafora delle stesse intenzioni dell’avvocato, ormai totalmente deciso a consegnare il fratello minore alla giustizia, non concedendogli alcuna possibilità di “barare”, appunto.

La reazione di Jimmy è straziante: la splendida interpretazione di Bob Odenkirk ci permette di capire subito che l’avvocato è sconvolto non solo per essersi trovato legalmente nei guai, ma soprattutto per essere stato tradito da una delle persone che considerava a lui più vicine: si è irrimediabilmente incrinato quel rapporto fraterno che, nel bene e nel male, legava i due e Jimmy ha così perso in tutto e per tutto la speranza di ricevere ancora l’affetto di cui sente profondamente la mancanza.

Di nuovo, anche qui sono i dettagli a parlare: la rabbia con cui Jimmy strappa via il nastro adesivo quando si rende conto di stare utilizzando la tecnica di Chuck riassume in pochi intensi secondi la dolorosa consapevolezza dell’uomo nel constatare quanto il fratello maggiore abbia influito sulla sua vita e sul suo stesso modo di essere, nonostante le loro enormi divergenze.Chuck rappresenta l’avvocato che Jimmy avrebbe sempre voluto essere, ma adesso tutto è cambiato: paradossalmente – soprattutto se consideriamo il personaggio che Saul sarà in Breaking Bad – , Jimmy è l’unico che in questo frangente esprime e desidera un po’ di umanità e di comprensione.
Invece, il “colpo di grazia” finale inferto da Chuck sgretola definitivamente le sue speranze, e un gelido silenzio chiude il sipario su una delle puntate più significative di Better Call Saul, innestando alcune delle ragioni principali che porteranno alla trasformazione definitiva di Jimmy.

Con questo secondo episodio viene quindi messa ancora più in luce la grande capacità di Vince Gilligan di riuscire ad afferrare, nel monotono scandire dell’ordinario, tutta la potenza dello straordinario, regalandoci una narrazione intelligente e profonda, contornata da un’estetica mozzafiato e da un’interpretazione attoriale impeccabile. Tutto questo concorre senza alcun dubbio a rendere Better Call Saul un piccolo e prezioso gioiello fra le numerose serie tv attuali.
È difficile adesso prevedere come si svilupperanno gli eventi della vita di Jimmy, ma è certo che se il livello tecnico e narrativo della serie continuerà ad essere così alto, noi spettatori non potremo fare a meno di restare con gli occhi incollati allo schermo per osservare l’inesorabile “discesa” di Jimmy verso quel personaggio ambiguo, esuberante e complesso che avrà il nome di Saul Goodman.

Voto: 8½
Better Call Saul – 3×03 Sunk Costs
Il cliffhanger in chiusura dello scorso episodio preannunciava un punto di non ritorno per la serie, un momento traumatico per il protagonista, chiamato ad affrontare insidie forse troppo più grandi di lui. Sono gli strascichi di quel fallimento a monopolizzare Jimmy in questo momento, sempre più consapevole dei propri errori e dei propri limiti.

Si tratta però solo di una delle due facce della serie, quella apparentemente più solare, brillante e sorridente. L’altra è incarnata da Mike, il cui percorso è forse arrivato a un punto di ancor più profonda discontinuità, sintetizzato dall’attesissimo incontro con Gustavo Fring. È nell’intreccio di queste due anime che si articola Better Call Saul, che in questa stagione sta proseguendo il cammino quasi impeccabile effettuato nella scorsa, spingendo sull’acceleratore con la solita, maniacale raffinatezza. Nonostante la serie si sia posizionata sin dall’inizio su un livello qualitativo importante, è sulla distanza che emerge il lavoro fatto da Peter Gould e Vince Gilligan grazie a un concept nato per rendere lo show progressivamente più interessante e uno sviluppo che in due stagioni ha saputo prendersi tutto il tempo necessario per costruire una storia senza alcuna sbavatura. Gli autori hanno puntato su due assi in grado di dimostrare la loro efficacia in maniera crescente, se giocati nel migliore dei modi: da un lato più la serie procede nel suo corso più si fonde nell’universo di Breaking Bad, soprattutto dal punto di vista della diegesi narrativa; dall’altro il passare degli episodi amplifica tutto ciò che è unico in Better Call Saul, specie per quanto riguarda i personaggi di Jimmy, Kim e Chuck.

Here’s what’s gonna happen. One day you gonna get sick… again. One of your employees is gonna find you curled up in that space blanket. Take you to the hospital. Hook you up to those machines that beep and whir… and hurt. And this time, it’ll be too much. And you will… die there. Alone.

Scoprire Jimmy McGill è stato un po’ come sfondare uno specchio, attraversare l’immagine di Saul Goodman consolidata nella mente degli spettatori e vederne il suo controcanto, la carne dietro il simulacro, quella persona che con gli anni sarebbe andata incontro a trasformazioni di ogni sorta, fino a diventare il cinico e codardo avvocato che tutti conoscono.
Il rapporto tra Jimmy e Chuck è parte essenziale dell’identità della serie, come dimostrato in maniera incontrovertibile dal finale della scorsa stagione e confermato dai primi tre episodi di questa. Nella doppia costante che lega Jimmy sia a Mike (e quindi a Gus e quindi a Breaking Bad), sia a Chuck e Kim, il protagonista ha la possibilità di definirsi in maniera estremamente complessa, imponendo allo spettatore riflessioni sulle temporalità dell’universo narrativo e consentendogli di fare ipotesi sulle ragioni e le modalità dell’evoluzione del personaggio principale.
È proprio nella compresenza della suddetta doppia anima della serie che si afferma con forza il rapporto tra Chuck e Jimmy, tanto sul piano della costruzione dei personaggi quanto su quello della varietà stilistica dello show. Se la storyline legata a Mike vive di grande tensione e di una messa in scena particolarmente cinematic che rimandano in maniera diretta alla serie d’origine, tutto ciò che coinvolge Chuck e Kim si distingue per contrasto come il lato più intimo, più complesso e più sottile, divenendo l’arma in più dello show, in grado di distinguerlo in maniera significativa dalla serie d’origine. Sarebbe molto semplice ridurre il discorso a un Jimmy che pur usando metodi scorretti e poco ortodossi nasconde un cuore nobile contro un Chuck cattivo, arrogante e spietato. In realtà la grandezza di quest’ultimo sta proprio nelle pieghe della sua caratterizzazione, nella difficoltà di vivere in una condizione di handicap autoindotto, nella convivenza con la paranoia costante e le sue conseguenze. In questo discorso si inserisce il rapporto con Jimmy, che dall’infanzia all’età adulta è passato da traumi e mancanze d’affetto, da una professionalità eccellente non sempre riconosciuta e dall’incancrenirsi di un rapporto che negli anni ha fatto prevalere l’invidia e il rancore sul sincero affetto che pur lega i due personaggi.

I can’t allow you to kill Hector. However, I am not completely unsympathetic to your sense of justice. You hurt Hector when you robbed that truck-you hurt his business, his pride. Quite effectively. And, if you were to hurt him in the same manner again, I would not stand in your way.

Sulla scia dei due episodi che l’hanno preceduto, anche “Sunk Costs” si dimostra un piccolo gioiello dal punto di vista della regia, capace di metabolizzare la lezione di Vince Gilligan e quindi di raccontare grazie alla sola forza delle immagini, spesso senza alcun bisogno dei dialoghi. Il regista dell’episodio, John Shiban, dimostra di avere le qualità per insediarsi alla perfezione in questo solco già a partire dal cold open, in cui come di consueto si assiste a una vicenda leggermente scollegata dal resto dell’episodio ma che vi si allaccia dal punto di vista concettuale, vuoi perché correlata tematicamente, vuoi perché appartenente a una temporalità successiva che i minuti seguenti si occuperanno di introdurre. In questo caso abbiamo alcune immagini chiarificatrici, nessuna parola, un camion di Los Pollos Hermanos che passa davanti a un segnale stradale crivellato di colpi e un paio di scarpe appese a un cavo dell’elettricità. Solo a fine episodio sapremo che quelle calzature sono la risultante del primo accordo tra Mike e Gus, nonché in parte responsabili del successo “commerciale” dello spacciatore di colore.
Tutto il percorso di avvicinamento di Mike a Gus ha il merito di portare avanti il modus operandi estetico dell’episodio, utilizzando al meglio il paesaggio del New Mexico, gestendo la suspense a colpi di inquadrature ravvicinate rivelatrici e riabbracciando attraverso un altro punto di vista un universo narrativo per molti spettatori familiare, tanto da suonare come un ritorno a casa. L’intero arco narrativo incentrato sul rapporto tra Mike e Gus, che dal finale dello scorso episodio ci accompagna al loro faccia a faccia, è messo in scena come un western ed è millimetrico nel far emergere le qualità di entrambi e l’alchimia che dal primo minuto li accomuna. Si capisce immediatamente che non ci sarà mai amicizia, che il loro rapporto correrà sempre sul filo della minaccia reciproca, ma anche che si tratta di due professionisti eccezionali, i quali capiscono al volo di poter avere interessi in comune e quindi di stare, anche se per piccoli e mirati obiettivi, dalla stessa parte.

“Why would you… C’mon, this guy? Seriously?”
“Let’s just call it the fallacy of sunk costs.”


Una delle maggiori qualità della serie di Peter Gould e Vince Gilligan è quella di mantenere in ogni episodio un’identità estetica molto forte, fatta di trovate registiche brillanti, virtuosismi mai fini a se stessi e una fotografia sempre in continuo dialogo con le musiche di Dave Porter. È emblematico sotto questo punto di vista il montaggio musicale in fast forward dedicato alla prima parte della giornata di Kim: sveglia alle 5.30 in ufficio con addosso i vestiti del giorno prima, una serie di caffè, poi di corsa in palestra solo per la doccia e il trucco, poi via verso una nuova giornata di lavoro. In pochi divertenti secondi emerge un ritratto preciso e strutturato, quello di una macchina da guerra, stressata ma combattiva, indipendente e grintosa, ma al contempo sola e bisognosa di affetto, di qualcuno che colmi quel vuoto simboleggiato dall’assenza di allenamento in palestra.
Potrebbe sembrare una sequenza estemporanea questa appena descritta o comunque un’occasione come un’altra per unire il virtuosismo visivo tipico della serie e l’approfondimento su uno dei suoi personaggi principali. Tuttavia il finale dell’episodio sottolinea che si tratta di molto di più: a posteriori capiamo che la sceneggiatrice Gennifer Hutchison ha studiato con grande attenzione il posizionamento di quel montaggio in mezzo ai vari atti della discesa agli inferi di Jimmy – prima ammanettato e poi messo sotto processo grazie all’arguzia diabolica del fratello maggiore – in modo da dare ancora più forza alle parole di Kim nell’epilogo. Ebbene, lo splendido finale di “Sunk Costs” presenta l’incontro più dolce tra i due personaggi, sottolineando tutta la loro complementarietà. Un solo e sconsolato Jimmy, avvilito dal patteggiamento propostogli dal fratello, che ha come conseguenza inevitabile la sua radiazione dall’ordine degli avvocati, viene accolto e incoraggiato dalla donna da lui amata. Si farà fatica a dimenticare la potenza visiva delle sagome di Kim e Jimmy mano nella mano, soli contro il mondo eppure per nulla impauriti.

Dopo soli tre episodi della terza stagione Better Call Saul ricorda a tutti – nel caso qualcuno se lo fosse dimenticato – la sua smisurata bellezza, frutto di un rigore estetico e di una sapienza narrativa fuori dal comune, che non smette mai di stupire e anzi cresce episodio dopo episodio.

Voto: 8½
Better Call Saul – 3×04 Sabrosito
Nonostante possa sembrare un compito di volta in volta più gravoso, Better Call Saul riesce ad innalzare l’asticella della qualità ad intervalli regolari; con “Sabrosito”, scritto da Jonathan Glatzer e diretto da Thomas Schnauz, il team delle meraviglie Gilligan-Gould scrive una nuova, entusiasmante pagina della mitologia di Breaking Bad, producendo l’episodio più bello della stagione.

Andando a spulciare fra le interviste agli addetti ai lavori, uno degli aspetti che salta fuori più spesso è la meticolosità in fase di scrittura. L’assenza di particolari vincoli e pressioni temporali da parte di AMC ha permesso alla sceneggiatura di intessere una tela fitta e articolata, basata il più possibile sulla coerenza interna ai due prodotti. Si tratta di un lavoro ingrato che consiste in gran parte nel tratteggiare ed approfondire personaggi che nello show “madre” avevano una rilevanza e un approfondimento psicologico minore, ma che ora necessitano di un’introspezione più profonda, che non contrasti con le personalità originali. Esempio lampante di questa attenzione maniacale verso i collegamenti è la scena iniziale dell’episodio: la piscina in cui, nel primo fotogramma, nuota placido Don Eladio è la stessa in cui lo vediamo riverso, morto avvelenato, in “Salud”, l’episodio della resa dei conti fra Gus e il Cartello.

I tre appuntamenti precedenti erano serviti a preparare il campo di battaglia, introdurre un personaggio lungamente atteso e definire i confini delle due storyline in atto che, nonostante il personaggio di Mike a fare da tramite, restano nettamente separate. “Sabrosito” è un episodio diviso in due parti: i primi venticinque minuti appartengono interamente a Gus e gli ultimi venticinque a Jimmy ma, paradossalmente, il personaggio che ne esce meglio approfondito è quello di Mike. Una delle domande rimaste insolute anche al termine di Breaking Bad, infatti, riguardava il protrarsi della relazione professionale fra Saul e Mike, alla luce di un impiego decisamente più redditizio al soldo di un signore della droga. Il punto focale sta nella considerazione che Mike ha di se stesso: nonostante non si faccia troppi scrupoli a sporcarsi direttamente le mani, non si è mai sentito realmente un sicario, un criminale, e sente forte la nostalgia per la sua vita precedente da poliziotto rispettabile. Questo legame col suo passato più o meno onesto è rappresentato dal rapporto con la nuora e la nipote e si traduce, all’atto pratico, nella necessità di periodici distacchi dal feroce e distruttivo universo criminale. Il lavoro per Fring sembra avere più una motivazione economica che un personale desiderio di potere o rivalsa, visto che Mike trae piacere dalle cose più semplici, come riparare una porta e, nel tempo libero, legge riviste di fai da te.
Con lo stesso intento di approfondimento psicologico va letto uno dei momenti più iconici dell’episodio, il sorriso spontaneo di Gus dopo il canestro nel cestino della spazzatura. Si tratta di un momento molto intimo per un personaggio che abbiamo conosciuto solo nella sua veste pubblica, sia onesta che criminale, e la cui sfera privata rimane avvolta nel mistero. È una sequenza di pochi secondi, sufficiente a suggerire che, dietro all’impassibile uomo d’affari e allo spietato criminale, il vero Gus possa essere una persona completamente diversa.

Nonostante nell’episodio le atmosfere figlie di Breaking Bad e i corni di guerra che risuonano per la sanguinosa battaglia incombente abbiano fatto del loro meglio per catalizzare l’attenzione dello spettatore, a mostrare maggiore vitalità è lo standoff tra Chuck e la coppia formata da Kim e Jimmy; una vitalità dovuta principalmente a due fattori quali una costruzione narrativa più meticolosa e stratificata e l’assenza di legami vincolanti rispetto alla serie madre. In un quadro di più ampia libertà espressiva rispetto alle vicende del Cartello – di cui conosciamo o possiamo intuire interpreti e svolgimento – a beneficiarne maggiormente è la relazione tra Kim e Jimmy, arricchita notevolmente dalla presenza latente dei loro doppi, Giselle e Viktor, spesso sopiti ma sempre presenti. Non è un mistero che, nonostante una diversa propensione agli scrupoli morali, entrambi traggano piacere dal lato deviante delle loro personalità, e la derelitta sottomissione di Jimmy alle richieste del procuratore Hay e del fratello assume tutto un altro sapore alla luce dell’entusiastico “Bingo!” di Kim. Condividere un nemico comune li ha avvicinati molto più di quanto l’ingenuità di Jimmy li avesse allontanati. Il loro rapporto non è particolarmente fisico o emozionalmente soverchiante e si realizza perlopiù in silenzio, senza bisogno di troppe parole, in un gioco fatto di sguardi e di condivisione di brevi momenti di intimità.

Le interpretazioni di Bob Odenkirk meriterebbero una recensione a se stante, ma in “Sabrosito” il lavoro dell’attore sul personaggio, nonostante lo spazio limitato e le poche battute concessegli, merita di essere lodato. Si è già sottolineata la sua abilità nel far confluire nella stessa persona la verve comica e lo spirito drammatico di un personaggio spesso perdente; merita invece un’ulteriore menzione il discorso di scuse rivolto al fratello in cui le espressioni del viso e le parole – le parole di un uomo disilluso ma non per questo sono meno dolorose – si uniscono sublimandosi nel doppio intento di esprimere a Chuck la propria sofferenza e spingerlo all’interno della propria rete (qualunque essa sia).

Con una fotografia spettacolare – le scene girate a casa di Chuck, con il contrasto fra l’esterno illuminato e gli interni immersi nell’oscurità sono sempre da manuale ma, in questo caso, Marshall Adams compie un lavoro ancor più notevole –, “Sabrosito” riesce a mettere d’accordo entrambi gli schieramenti degli spettatori. I nostalgici di Breaking Bad possono godersi una prima parte traboccante di riferimenti e rimandi, in cui il sole torrido, l’aria greve di tensione e minacce e le atmosfere non hanno nulla da invidiare all’opera madre. Per chi, invece, si fosse appassionato maggiormente alle vicende di Jimmy McGill e alla nuova applicazione dello stile iconico di Gilligan e Gould, la seconda metà dell’episodio è più che sufficiente per solleticarne gli appetiti, maestra nel tenere nascoste, o perlomeno rendere difficilmente interpretabili, le proprie carte.

Voto: 8/9
Better Call Saul – 3×05 Chicanery
Sembra ormai superfluo continuare ad elogiare, settimana dopo settimana, lo show attraverso il quale Vince Gilligan ci racconta in modo sublime la trasformazione di Jimmy McGill nell’amatissimo Saul Goodman, eppure ogni complimento ricevuto dalla serie è del tutto meritato. Better Call Saul continua a non perdere un colpo, grazie ad un rigore stilistico e ad un’impostazione narrativa e registica sempre impeccabili; “Chicanery”, episodio scritto da Gordon Smith (già autore di classici della serie come “Five-O” e “Gloves Off”) e diretto da Daniel Sackheim (Game Of Thrones, The Leftovers), non fa eccezione, risultando un punto di non ritorno per la serie.

Come gli episodi già citati dello stesso sceneggiatore, anche “Chicanery” ha la peculiarità di concentrarsi in modo esclusivo su una delle storyline portate avanti finora nella serie, accantonando temporaneamente le altre. Non c’è spazio, infatti, per Mike e Gus nel corso dell’episodio, del tutto focalizzato sul processo a Jimmy e sul rapporto sempre più complicato tra i due fratelli McGill; l’aula del tribunale si trasforma in un terreno di scontro perfetto per i due avvocati, che giungono finalmente alla resa dei conti che ci si attendeva dal cliffhanger finale di “Klick”.

And the way my brother treats the law… it breaks my heart.

Uno scontro che è stato ben preparato negli episodi precedenti, creando i presupposti perché arrivassimo a questo momento con delle solide basi: dallo stratagemma di Chuck per incastrare Jimmy sino alle macchinazioni della coppia Wexler-McGill per preparare una controffensiva alle accuse, con l’obiettivo di evitare l’estrema pena, ovvero la destituzione del protagonista dalla sua professione di avvocato. Dalla parte di Charles questo possibile finale è l’unica opzione per ristabilire l’equilibrio della giustizia e difendere la legge – che intende come un’entità sacra che regola il mondo – dall’utilizzo improprio che ne fa il fratello, che la sovverte e la distorce per i suoi fini egoistici; dal punto di vista di Jimmy, invece, vincere è l’unico modo per salvare la propria figura professionale, che tanto ha faticato per portare in una posizione di rilievo. Dietro a queste motivazioni di facciata, tuttavia, non è difficile scorgere i reali motivi che spingono i due personaggi a tentare di prevalere l’uno sull’altro.

Se Jimmy trova in questa battaglia legale l’opportunità per poter definitivamente dimostrare al fratello di essere all’altezza del ruolo che occupa, e che non ha mai riconosciuto o accettato, per Chuck non è altro che una vendetta nuda e cruda per aver danneggiato con la manomissione dell’ormai celebre indirizzo – “I knew it was 1216. One after Magna Carta.” – la sua credibilità come professionista. In tal senso la vendetta si trasforma in un’occasione per poter mettere fine alle sue macchinazioni e al modo eticamente discutibile con cui opera nell’ambito legale.

Did Jimmy know his brother was the one that prevented you from hiring him?

Better Call Saul ha fatto di questo rapporto conflittuale tra i due avvocati un vero e proprio leit motiv su cui si regge l’intero show e intorno al quale ruotano il destino di Jimmy – di cui gli spettatori sono consapevoli – e quello dei personaggi secondari – soprattutto Kim. È proprio quest’ultima a mettersi in mostra nella difesa di Jimmy e nei tentativi di mettere in difficoltà un glaciale Howard chiamato a testimoniare. Le accuse di nepotismo rilanciate al mittente rappresentano una sorta di vendetta personale anche per la donna, che si può così togliere delle piccole soddisfazioni per come è stata trattata quando lavorava per la HHM e per le difficoltà che ha dovuto affrontare per ottenere la Mesa Verde come cliente. Kim dimostra, in questa stagione, una maturità che ha raggiunto con il tempo, dopo aver affrontato molti ostacoli ed essersi fatta le ossa nello spietato mondo della giustizia; nonostante questo non perde l’onestà che fa parte della sua caratterizzazione di fondo, mettendo prima di tutto in guardia i suoi nuovi clienti sulla possibilità che il processo possa mettere in dubbio la loro scelta sull’avvocato che li rappresenta.

You’ve been sold a bill of goods, Rebecca. I want you to see what’s what.

Nonostante l’episodio faccia del microcosmo del processo lo spazio narrativo esclusivo che lo contraddistingue, questo viene introdotto dopo un flashback che ci riporta ad un personaggio che non si vedeva dalla seconda stagione. Rebecca, ex moglie di Chuck, viene invitata da Jimmy al processo perché consapevole della debolezza del fratello nei suoi confronti; quest’ultimo infatti non ha mai avuto il coraggio di rivelarle la malattia di cui soffre, tenendola all’oscuro e mascherando il suo stato di salute quando si incontravano. Charles è un uomo che tiene troppo alla sua reputazione e che non riesce mai ad ammettere di essere in errore o in difficoltà, e proprio grazie a questo particolare risvolto caratteriale suo fratello, che lo conosce bene, riesce a metterlo in scacco e a rivelare tutta la rabbia repressa e la sua presunzione di essere nel giusto. Assistiamo così alla “caduta” di Chuck, la definitiva sconfitta del principale villain che tanto bene la serie ha saputo delineare in queste due stagioni e mezza. Per capire, però, quali saranno le conseguenze che questa vittoria avrà su Jimmy bisogna attendere con fiducia gli episodi che ci attendono da qui alla fine della stagione.

“Chicanery” è un episodio compatto e ben scritto, un punto di svolta cruciale per la serie e per i suoi protagonisti; registicamente ineccepibile e con una fotografia superba, caratterizzata dall’assenza di luce artificiale nella quale si svolgono la maggior parte delle scene, nient’altro che un riflesso della crudeltà di James e Chuck e della discutibile moralità dei torti che continuano a perpetrare l’uno all’altro.

Voto: 8/9
Better Call Saul – 3×06/07 Off Brand & Expenses
Dirigendosi ormai verso la fine della stagione, la serie gioiello di Vince Gilligan continua a stupire per la sua inesauribile qualità, accompagnandoci con maestria verso alcuni cruciali momenti affrontati dal protagonista, di cui vediamo compiere dei passi significativi verso la sua completa trasformazione. L’esito dello scontro tra i fratelli McGill in “Chicanery” non ha infatti colpito il solo Chuck, ma ha soprattutto posto le basi per la sottile quanto repentina evoluzione introspettiva di un Jimmy che si avvicina sempre di più a quel personaggio senza scrupoli che abbiamo adorato in Breaking Bad.

“Jimmy, he’s still your brother.”
“Not anymore, he’s not.”


Il confronto tra i due fratelli ha innestato una situazione dai risvolti paradossali: per la sete di vendetta nei confronti di Chuck – mai capace di apprezzare l’affetto disinteressato che il fratello minore gli ha dimostrato per così tanto tempo –, Jimmy ha inconsapevolmente sacrificato proprio quella parte di se stesso più buona e pura che ha difeso con impegno, fino a diventare esattamente quel tipo di persona che Chuck (ora con l’aiuto di Rebecca) gli ha sempre accusato di essere in passato.
Jimmy agisce e attacca come un animale ferito e, anche se le sue azioni hanno moventi significativi, è evidente quanto ormai il divario fra lui e Chuck sia divenuto incolmabile proprio per la decisione del protagonista di colpire meschinamente il fratello negli aspetti che, più di tutti, hanno da sempre sostenuto e caratterizzato la sua persona: il rigore e la professionalità. Colpirlo così profondamente e metterne a nudo le debolezze sfruttando la malattia concorre non solo all’abbattimento del suo lavoro, ma della sua stessa individualità, ormai umiliata davanti agli occhi di tutti.
Mentre però Chuck, con l’aiuto di Howard, è pronto a rialzarsi per fare i conti con se stesso e per celebrare “nuovi inizi”, l’evoluzione (o l’involuzione, a seconda dei punti di vista) di Jimmy è ulteriormente accelerata dai dodici mesi di sospensione da scontare, che saranno cruciali per mettere in scena i suoi cambiamenti definitivi: l’urgenza economica e il rischio di perdere la professione di avvocato portano infatti Jimmy alla necessità di inventare e di improvvisare sempre più soluzioni su due piedi, alimentando quell’aspetto esibizionista e intuitivo che caratterizza il personaggio che sarà in Breaking Bad.

“Saul Goodman.” “Yeah. It’s like: s’all good, man!” “That guy has a lot of energy.” “Yeah. It’s just a name.”

Non è un caso, dunque, che la nascita definitiva di Saul Goodman, il momento in cui la sua personalità dirompente va a sostituire quella di Jimmy, avvenga attraverso uno spot pubblicitario.
La pubblicità, regno del carisma, della finzione e – in questo caso – del grottesco si rivela l’ambiente perfetto e per nulla banale alla messa in scena della figura prototipale dell’alter ego di Jimmy. Figura nata quindi per caso, dalla necessità di mettere in piedi un breve spot di cui il protagonista si serve per tenere duro prima di tornare al suo lavoro; perché ovviamente Jimmy non ha ancora la minima idea di cosa significherà davvero quel semplice nome inventato di sana pianta in pochi secondi, anche se è facile intravedere i semi di ciò che rappresenterà nelle ultime azioni del protagonista.
Anche qui, il lavoro perfetto compiuto dagli autori continua a seguire la scia di una narrazione a posteriori che sa sempre come illustrare magistralmente agli spettatori ciò che già sanno in modi imprevedibili, soddisfacendo la loro curiosità e giocando bene con la loro nostalgia.

I più nostalgici, infatti, non potranno fare a meno di entusiasmarsi alla visione dei numerosi easter eggs presenti nelle puntate: oltre al ritorno di alcune facce conosciute, come quelle di Lydia (Laura Fraser) e di Krazy-8 (Max Arciniega), non saranno di certo passati inosservati i brevi e intensi minuti dedicati alla prima visita di Gus alla lavanderia, luogo madre di Breaking Bad.
Inoltre, la storyline dedicata a Nacho si fa sempre più interessante e promettente: il suo piano di svuotare le pillole di nitroglicerina per colpire Hector Salamanca darà sicuramente luogo a conseguenze fondamentali per l’andamento della storia che, con tutta probabilità, porteranno l’uomo alle terribili condizioni fisiche con cui l’abbiamo conosciuto in principio.

Tornando a Jimmy (o Saul?), è interessante notare quanto la sua repentina discesa parta da intenzioni del tutto diverse: ciò che infatti lo spinge ad agire in quel modo è soprattutto la paura di perdere Kim, di separarsi da lei e di abbandonare l’ufficio che condividono. Sotto questa luce, i comportamenti di Jimmy e tutte le avversità che si trova ad affrontare in “Expenses” condiscono la puntata di una crudele ironia, se teniamo in conto che sono proprio questi disperati tentativi di tenere Kim stretta a sé a sviluppare quel personaggio che porterà le loro strade a separarsi del tutto; e lo dimostra il senso di colpa della donna nei confronti di Chuck, attaccato personalmente in un modo che di certo non le si addice – “All we did was tear down a sick man.”

Your brother… he had a breakdown in court?

Si comprende, dunque, che quella nei confronti di Chuck è stata tutt’altro che una vittoria: il decadimento del fratello maggiore non è stato altro che il trampolino di lancio attraverso cui Jimmy ha innestato irrimediabilmente la sua trasformazione. Il tutto, ovviamente, è alimentato dalle difficoltà che l’uomo incontra in “Expenses”, approdando a una crisi esistenziale ed economica che non fa altro che fomentare la sua rabbia nei confronti di tutto ciò che lo ha condotto a questa situazione, Chuck in primis.

È nel finale della puntata, infatti, che questa rabbia agisce in un modo così subdolo e furbo che l’intera scena del finto pianto di Jimmy potrebbe essere letta, ora più che mai, come il suo passaggio definitivo a Saul Goodman. La grande intensità che caratterizza questi ultimi minuti è dovuta in particolare alla splendida interpretazione di Bob Odenkirk (quel pianto iniziale ha rischiato di ingannare un po’ tutti), che sta compiendo in generale un lavoro davvero superbo nel mostrare le numerose sfaccettature caratteriali di un personaggio così complesso come quello di Jimmy/Saul.
Attraverso l’insidioso tiro mancino finale, quindi, Jimmy sferra il colpo di grazia ad un già barcollante Chuck in un atto di pura e fredda vendetta che sottolinea ancora di più la rottura insanabile non solo fra i due, ma anche con il tipo di persona che Jimmy era in passato, introducendo un nuovo capitolo di una storia e di un personaggio a cui ormai possiamo dirci estremamente affezionati.

Per concludere, il sesto e il settimo episodio della terza stagione di Better Call Saul continuano a tenere alta la qualità di questa splendida serie e, soprattutto, si rivelano fondamentali nel caratterizzare l’evoluzione individuale del nostro protagonista, mettendo in scena con eleganza e intensità il delicato periodo di transizione che intercorre fra i personaggi di Jimmy McGill e di Saul Goodman.

Voto 3×06: 9
Voto 3×07: 8/9
Better Call Saul – 3×08 Slip
Dopo due settimane di lunga attesa, Jimmy McGill (ormai quasi al cento per cento Saul Goodman) ritorna a deliziarci con la sua lenta ma inesorabile trasformazione – o semplicemente presa di coscienza di sè? – in quello che è uno dei personaggi più amati del panorama televisivo contemporaneo.

What if it’s all in my head? And if that’s true, if it’s not real… then what I have done?

Come spesso accade, Vince Gilligan ci catapulta nel mondo di Better Call Saul con un flashback che non è mai solo emozionante in quanto ricordo fine a se stesso, ma affonda le radici in quella che è la maturazione del personaggio in questione.
Il ricordo del padre – che spesso torna nei racconti di Chuck come pietra di paragone al “malvagio” Jimmy – sottolinea come il futuro Saul abbia da tempo preso coscienza che essere buoni non serve a niente, ma anzi è controproducente: il negozio è andato in malora perché il padre aveva sempre comprensioni per tutti, una pacca sulla spalla anche per chi era evidente lo stesse fregando. “Non ha mai fatto quello che doveva fare”, dice Jimmy quasi con disprezzo misto a rimpianto: ha capito che per uscire dal pantano in cui quasi tutti ci troviamo ogni giorno non bisogna fare ciò che è giusto, ma solo quello che va fatto, qualsiasi cosa implichi.
E tutto questo è solo un bel momento in cui rivediamo anche il suo compare di scorribande giovanili Marco, ma diventa uno specchio pulito delle enormi differenze che intercorrono tra i due fratelli McGill. Saul ha preso la troppa bontà del padre come debolezza, come un qualcosa da combattere se non si vuole finire sotto i piedi di tutti; Chuck invece ne ha estremizzato i punti di forza fino a farli diventare una tallone d’Achille, un integralismo legislativo che spesso va anche contro qualsivoglia buonsenso.

Proprio questa rigidità di vivere porta Chuck ad una reazione del tutto in linea con la sua mente schematica, plasmata da decenni di studi di regole ferree: la tabella dell’intensità del dolore (o presunto tale) che prova all’esposizione con l’elettricità forse mette ancora di più in evidenza il suo stato confusionale.
Il pentirsi delle sue azioni – se rapportate a una presunta follia – è solo uno specchietto delle allodole per le persone che gli stanno intorno, perché è evidente che Chuck non creda affatto di essere affetto da una malattia mentale, e sta facendo di tutto per dimostrarlo a se stesso e agli altri. La cieca determinazione che sta mettendo nel suo obiettivo non ha altro fine se non quello di tornare in pista e probabilmente distruggere una volta per tutte suo fratello; tuttavia, purtroppo per lui, sappiamo già tutti che non ci riuscirà.

Jimmy, you don’t have to push yourself like this.

È di Kim invece il ruolo di grillo parlante e coscienza di Jimmy, perfetto connubio tra la donna che nessuno vorrebbe mai deludere e riflesso veritiero di quello che l’uomo della coppia sta diventando. Kim ha già capito quello che sta succedendo a Jimmy – molto esplicativa l’espressione durante il “gioco” del bar – ma ancora forse non riesce ad ammetterlo in totale sincerità, oppure più semplicemente non vuole farlo.
Il Jimmy che ha imparato a conoscere e probabilmente anche amare era un uomo molto intelligente ma troppo all’ombra del fratello per potere emergere, che adesso sta avendo una reazione uguale e contraria rispetto a quello che Chuck ha sempre tentato di farlo diventare: un uomo ligio e rispettoso delle regole. Kim si trova un po’ in mezzo: assolutamente convinta della sua professione e del rispetto delle leggi, ma molto più morbida al riguardo quando si tratta di tornaconto personale. Quella frase che abbiamo usato come titolo del capoverso è indicativa di quanto Kim abbia ormai capito, anche senza avere le prove concrete, che il periodo nero che sta attraversando Jimmy lo sta per portare oltre il ciglio del baratro.
Tutto il loro strano rapporto (sono una coppia davvero? È quasi inquietante che non si bacino o che non abbiano mai un’effusione amorosa) sappiamo che un giorno o l’altro vedrà la fine, e probabilmente non amichevole: non c’è traccia di Kim in Breaking Bad, nemmeno nei ricordi dei protagonisti, ed è un particolare che adesso comincia ad aleggiare pesantamente sul destino dei due.

Si va quindi verso il finale di stagione con un Saul Goodman sempre più formato, sempre più in primo piano rispetto a Jimmy McGill: come un novello Dr. Jekyill, Jimmy sta venendo soppiantato in tutto e per tutto da quel Mr. Hyde che era sempre stato lì, in forma minore durante le piccole truffe con Marco e ora sempre più prepotente e incisivo, sicuro nei suoi mezzi come quando riesce a guadagnare 700 dollari in poco meno di due minuti, minacciando la guardia dei servizi sociali.
Jimmy è lanciato a duecento all’ora verso il futuro che già conosciamo, e che sappiamo gli porterà via tutti quelli che al momento fanno parte del suo mondo: Kim e Chuck soprattutto, di cui non avevamo praticamente notizia prima di scavare nel suo passato con questo spin-off.
Rimarrà però Mike, che vediamo a un punto di svolta importante in chiusura di episodio, quando raggiunge l’accordo con Gus che darà poi vita a tutta quella catena di eventi che li porteranno ad incrociare Walter White.

“Slip” è un episodio denso di avvenimenti, come lo scambio di pillole di Hector Salamanca da parte di un disperato Nacho – una sequenza che ci ha fatto sudare come i protagonisti della serie – e che forse porterà Salamanca alle precarie condizioni di salute che tutti conosciamo.
Il titolo quindi prelude a una caduta (che infatti sarà il titolo dell’episodio di settimana prossima, “Fall”), come la mossa che mette in atto Jimmy per spillare i soldi dell’assicurazione ai proprietari del negozio di chitarre: prima si scivola, poi si cade.
E sappiamo bene quanto sarà fragorosa quella di Jimmy “Saul Goodman” McGill.

Voto: 7½
Better Call Saul – 3×09 Fall
Ad un solo episodio dal termine di una terza stagione che ha consacrato Better Call Saul come miglior spin-off della storia della televisione, il ritmo lento e compassato dei primi appuntamenti si è evoluto in un climax inesorabile – perfettamente sottolineato dai titoli delle ultime due puntate – che ha condotto ogni storyline pericolosamente vicino al punto di rottura.

Particolarmente indovinato è il potenziamento di significato relativo al titolo – con il termine fall che rimanda inesorabilmente alla sfera dell’irreversibilità – rispetto a quello della settimana passata – dove slip è un vocabolo decisamente meno definitivo a livello semantico. Ad un primo sguardo il principale interessato da questo climax è proprio Jimmy che ha definitivamente messo da parte ogni principio morale abbracciando l’identità balorda e multiforme che avevamo conosciuto in Breaking Bad. Il passaggio è sottile ma fondamentale: in passato era già capitato che Jimmy utilizzasse i metodi più creativi in maniera reattiva, per fronteggiare le situazioni più complesse; quello che sancisce la metamorfosi definitiva è il comportamento proattivo di Saul – ormai possiamo chiamarlo così – che ricerca e crea spontaneamente, a scopo di lucro, la possibilità di “delinquere”.

It’s like talking to Gollum. You’re transparent. And pathetic.

Nel corso delle stagioni ci siamo più volte chiesti quale sarebbe stato l’evento, possibilmente traumatico, che avrebbe instradato definitivamente il protagonista: l’abbiamo cercato nella nuova amicizia con Mike, nei contenziosi con HHM e Davies & Main e nello scontro fratricida con Chuck su cui aleggiava addirittura lo spettro di una pena detentiva. “Fall” ci mostra, ancora una volta, come la vocazione alla truffa e alla manipolazione sia una caratteristica intrinseca al personaggio interpretato da Bob Odenkirk che, indipendentemente dalle contingenze esterne, non riesce a trattenersi dall’indulgervi. L’inganno ai danni di Irene è il punto più basso raggiunto da Saul che, perfettamente conscio delle conseguenze, anzi contando su di esse, non esita ad approfittare di una donna anziana.

Nell’altra ala dello studio anche Kim si ritrova ad andare oltre i propri limiti, dimostrando la lungimiranza della sezione creativa di Better Call Saul che ha disseminato l’intera stagione di indizi e richiami che anticipassero la sequenza finale. Le notti in bianco e un’abnegazione che rasentava l’ossessività l’avevano condotta all’emblematica scena del power-nap di cinque minuti nel parcheggio, ma, come in ogni impianto tragico che si rispetti, è il peccato di hybris a decretare la rovina. Se già la Mesa Verde riusciva ad assorbire tutte le energie psicofisiche della donna, l’accettazione di un nuovo cliente, andando contro i suoi stessi propositi, è una volontà di potenza che fallisce alla prova dei fatti, schiantandosi simbolicamente e materialmente contro una roccia. La scena, anticipata anche esteticamente dal pisolino di qualche settimana fa, è girata da una prospettiva estremamente originale, perfetta nel rendere le sensazioni del colpo di sonno.

Vete de mi casa.

Con la loro scrittura certosina Peter Gould e Vince Gilligan hanno fatto convergere le varie storyline verso un punto di rottura che è anche un punto di contatto a livello tematico. In “Fall” assistiamo paralizzati all’inevitabile spezzarsi di legami: quello amicale fra Irene e le compagne di ginnastica e di bingo, quello famigliare che unisce Nacho e il padre – la cui rottura si consuma di notte in un ambiente ristretto, rendendo la scena intima e straziante – e, infine, l’inattesa frattura tra Chuck e Howard. Il maggiore dei fratelli McGill è drammaticamente preda di una visione distorta della realtà; incapace di riconoscere ed accettare le sue difficoltà, si scaglia contro di esse come un toro furioso dentro l’arena, cieco e sordo ad ogni ragione. Va menzionato, doverosamente, l’ottimo lavoro di Michael McKean, in grado, episodio dopo episodio, di rendere le sfaccettature di un personaggio che ha sacrificato tutto sull’altare della giurisprudenza e che ora, tradito anche dalla Legge, si ritrova privo di qualsiasi riferimento, solo nella titanica battaglia che ha intrapreso.

I’m concerned about what happens if you put my real name on your books.

C’è un ulteriore elemento che contribuisce ad intrecciare ancora più strettamente le diverse storyline, un tema di cui si fa portatrice l’incisiva scena di cui è protagonista Mike. Dipinto agli spettatori come un personaggio estremamente misurato, minuzioso fino alla pedanteria, è sempre apparso perfettamente in grado di affrontare la situazione. Per la prima volta, seduto in un ufficio della Madrigal, una multinazionale il cui potere economico fatica anche solo a concepire, lo vediamo coinvolto in una situazione in cui smarrisce il controllo che fluisce via, come acqua fra le dita, nel momento in cui è costretto a mettere nero su bianco le sue generalità, un gesto la cui portata e le cui conseguenze sono imprevedibili. Se per Mike si tratta di una perdita di controllo inevitabile ma consapevole, lo stesso non si può dire per Kim, per Chuck, per Jimmy e per Hector Salamanca che, accecati da rabbia ed ambizione, non riescono a leggere gli indizi attorno a loro.

Ad una sola ora dalla conclusione Better Call Saul si dirige con decisione verso il secondo picco dell’annata. Il consumarsi dello scontro fratricida fra Jimmy e Chuck aveva determinato un fisiologico calo della tensione accumulata, conseguenza anche di alcune puntate interlocutorie. La reintroduzione della Sandpiper Crossing sancisce il ritorno del fil rouge narrativo sotteso ad ogni stagione: la trasformazione di un uomo in quell’avvocato dalle mille risorse – Saul incarna perfettamente quel sapere astuto alla base della cultura greca pre-filosofica, l’uomo polytropon dell’Odissea per chi mastica un po’ di greco – che fa da tramite fra la legge e il mondo criminale. “Fall” accompagna gradatamente le varie fazioni verso quel baratro anticipato dallo schianto rovinoso di Kim. La scrittura sapiente permette alla tensione di aumentare senza che sia necessario indirizzare definitivamente la narrazione; ormai in dirittura d’arrivo tutte le porte sono ancora spalancate e praticabili e gli sviluppi del finale assolutamente imprevedibili. A Vince Gilligan e Peter Gould il compito di stupirci una volta di più.

Voto: 8
Better Call Saul – 3×10 Lantern
Cos’è quella luce in fondo al tunnel? L’alba di una nuova rinascita per i protagonisti della serie oppure i fari di un treno in corsa? È intorno a questo concetto che si muove il finale della terza stagione di Better Call Saul, a partire dall’immagine della lanterna che apre, chiude e dà il titolo a questo intenso epilogo.

L’immagine di un tunnel con una luce al fondo costituisce una sintesi perfetta non solo dello scioglimento di questo finale di stagione ma anche dell’intera serie. Better Call Saul nasce infatti come uno show a direzionalità forte, un racconto che sceglie in maniera arbitraria il suo punto d’inizio, conoscendo già quello d’arrivo. Questo tipo di rigidità è però messa in discussione sin dal pilot in cui nel segmento in bianco e nero si fa conoscenza con una temporalità non definita, che potrebbe essere successiva ai fatti di Breaking Bad, spostando quindi la parola fine dell’universo narrativo più in là di quanto sappiamo. La terza stagione di Better Call Saul ha portato avanti con intensità la fusione progressiva con la serie madre, dando sempre più la sensazione di rigettare le distinzioni tra i due prodotti, sia per una sostanziale continuità di autori e maestranze, sia per un mondo ormai totalmente condiviso, che solo a seconda dei personaggi analizzati e delle prospettive da cui è raccontato assume differenti tonalità.

Jimmy this is what you do. You hurt people. Over and over and over.

È sull’asse Jimmy-Chuck che hanno preso forma alcune delle principali maglie narrative di Better Call Saul in queste tre stagioni, è su loro rapporto che con un potente cliffhanger si è chiuso lo scorso season finale ed è sempre su di loro che, quasi inevitabilmente, si conclude la terza annata. Dopo uno sviluppo graduale e cadenzato con precisione millimetrica, il personaggio di Chuck ha dimostrato di poter competere a testa alta con il protagonista, sia per complessità emotiva e caratteriale che per importanza all’interno dell’economia narrativa della serie. Solo a partire da questa affine statura può essere analizzata la rivalità tra i due fratelli, che per tre stagioni abbiamo visto ingannarsi, riconciliarsi (realmente e, più spesso, per finta), proteggersi, tradirsi, ferirsi e vendicarsi vicendevolmente, scoprendo volta dopo volta una faccia in più delle loro magmatiche personalità.
Nonostante il tragico e magnifico finale, è nella parte centrale che si concretizza il climax narrativo stagionale in merito al rapporto tra i due. Il faccia a faccia tra Jimmy e Chuck è devastante e ha conseguenze di enorme entità per entrambi. Sono l’orgoglio, la paura, la fragilità, il rimorso a governare il dialogo, con Jimmy che cerca di riparare ai tanti errori commessi e per una volta di prendersi cura del fratello in difficoltà, mentre Chuck reagisce con smisurata aggressività verbale e al contempo con una spiazzante sincerità che annichilisce completamente Jimmy. Quest’ultimo si trova davanti a uno specchio in cui vede per la prima volta la deformità della propria immagine, riconoscendo nelle parole del fratello la propria ipocrisia, la propria natura irrimediabilmente fallace e il costante autoinganno che ogni volta lo porta verso sterili percorsi di redenzione. Gli effetti di questo confronto sono disastrosi e per Chuck addirittura mortiferi: proprio nel momento in cui stava emergendo dalle spire della malattia viene risucchiato dall’orgoglio, finendo in un vortice di paranoia che lo porta a perdere completamente il controllo, distruggendo l’appartamento in una scena che cita il meraviglioso finale di La conversazione di Francis Ford Coppola.

The answer is always the good stuff.

Immaginiamo Jimmy McGill come il vertice di un triangolo isoscele i cui estremi della base sono rappresentati da Chuck e Kim. Se per quanto riguarda il primo si è detto tanto ed è ormai chiaro che l’articolato legame che li unisce sia una delle principali direttrici narrative della serie, di Kim non si dice mai abbastanza. Il suo ruolo all’interno dell’economia narrativa di Better Call Saul è cruciale, così come la sua funzione nello sviluppo del protagonista, perché soprattutto inizialmente, in quanto personaggio secondario, il personaggio interpretato in maniera eccellente da Rhea Seehorn, come Chuck, aveva l’obiettivo di lavorare al servizio del principale e già noto Jimmy. Tuttavia con la seconda stagione Kim si afferma come un anello insostituibile della catena della serie, capace di reggere quasi da sola interi episodi e a cui Gould e Gilligan donano un approfondimento ammirevole.
Nonostante ciò che si è detto a proposito del legame tra il finale della stagione e i fratelli McGill, a ben vedere anche la figura di Kim è profondamente influenzata da quell’epilogo. La donna subisce impotente e inconsapevole il gesto prevaricatore (per quanto protettivo) di Jimmy, dopo il quale per entrambi si innesca una sequenza di eventi a cascata difficilmente arginabile. Il lavoro degli autori è meticoloso nel far emergere i valori di Kim, la quale è permeata da un amore per il protagonista che fa rima con affidabilità, rispetto e complicità. I due riescono a riemergere insieme dopo l’arresto di Jimmy e a risollevare allo stesso tempo la loro vita e la loro relazione. Da Gilligan e Gould non vengono nascoste nemmeno le fragilità della donna, tra cui la tendenza a caricarsi di ogni problema, a non riconoscere i propri limiti e il valore del riposo che la portano allo schianto che chiude il nono episodio. Proprio in quel momento, ferita e in difficoltà, Kim trova Jimmy al suo fianco e la stagione si chiude nel segno della loro intesa. Teniamoci stretta questa sensazione a lungo, perché potrebbe non andare sempre così bene.

No, no! Salamanca did! Salamnca money! Salamanca blood!

Better Call Saul è una serie che ha tantissimi pregi, tra cui una regia eccezionale, una scrittura sempre attenta a far emergere le parti più intime dei personaggi non rinunciando mai ad essere avvincente e avendo il coraggio di prendersi tutto il tempo necessario, attori perfetti in ogni ruolo e una serie di temi dalla portata universale. Tuttavia sarebbe ingenuo e forse un po’ miope non riconoscere che la serie tragga parte dei suoi meriti dalla derivazione da Breaking Bad. Ciò non vuol dire, attenzione, metterla in secondo piano rispetto alla serie madre, anzi, significa considerarla come un’evoluzione di quel mondo, sottolineando così la capacità degli autori di inventare tra le pieghe di un universo narrativo che già forniva importanti punti di riferimento.
Il modo con cui Gilligan e Gould hanno deciso di fondere le due serie è sintetizzato sostanzialmente dalla figura di Mike, personaggio dal quale per gemmazione vengono presentate una serie di figure ponte che in questa stagione hanno contribuito alla definitiva integrazione tra le due serie. La solitudine di Chuck trova un parallelo perfetto in quella di Hector Salamanca, il quale come il maggiore dei McGill è stato per anni uno dei dominatori nel suo campo, ma attualmente per orgoglio e vanità non riesce più a leggere i cambiamenti del proprio tempo e finisce per soccombere. In un mondo privo dei valori di una volta ciò che emerge e che affonda Salamanca è il tradimento, in particolare quello con il quale Nacho si fa strada nel mondo della criminalità avvicinandosi a Gus. La fine della terza stagione ci consegna anche il malore di Hector, che molto probabilmente ce lo restituirà sulla sedia a rotelle così come l’abbiamo conosciuto.

– Fight the good fight, change the world?
– Yeah, didn’t you?
– That was more Chuck’s thing.


A bocce ferme la terza stagione di Better Call Saul dimostra di essere uno dei vertici della serialità televisiva contemporanea, sia dal punto di vista narrativo sia da quello stilistico, raggiungendo una perfezione e una pulizia davvero cristalline. Come già anticipato, uno dei principali punti di forza risiede nella costruzione dei personaggi secondari, tra cui spicca quest’anno quello di Chuck, uno dei ritratti della malattia mentale più acuti, equilibrati e complessi espressi dalla serialità contemporanea, amplificato dal fatto che non si tratta del protagonista (un ruolo che ha spesso usato la malattia come strumento per creare profondità), ma di un carattere teoricamente laterale alla storyline principale.
La componente più innovativa della serie è però costituita dalla sua punta di diamante, Jimmy McGill, che episodio dopo episodio si fa sempre più sfaccettato, multiforme e complesso, arrivando in questa stagione a mostrare un ventaglio di sfumature amplissimo (aiutato dalla varietà interpretativa di Bob Odenkirk) a cui nessun di Breaking Bad si è mai avvicinato . Se lì i personaggi erano epici, degli (anti)eroi con grandi poteri, grandi responsabilità e autori di altrettanto imponenti errori, in Better Call Saul invece si lavora di cesello, analizzando la complessità del quotidiano con eccezionale raffinatezza, mettendo allo scoperto quel crogiolo di sensibilità, di registri e di emozioni che caratterizzano il protagonista della serie. Jimmy McGill è senza dubbio uno dei personaggi più complessi della televisione contemporanea, un protagonista che si smarca con intelligenza dal modello ormai usurato dell’antieroe (di cui Walter White costituisce uno degli esiti più compiuti) per dar vita a una figura maschile moderna e di elevatissimo spessore in tutte le sue contraddizioni, costruita non a caso proprio a partire da un comedian character.

La regia di Peter Gould e la sceneggiatura di Gennifer Hutchison chiudono una stagione di altissimo livello con un season finale che non dimentica nulla, concludendo alla perfezione la traiettoria narrativa di Chuck e sviluppando il discorso sul narcotraffico che l’anno prossimo dovrebbe vedere (il condizionale è d’obbligo perché la serie non è stata ancora rinnovata) una centralità maggiore di Gustavo Fring.

Voto episodio: 9
Voto stagione: 9
Better Call Saul – 4×01 Smoke
Fra i ritorni più attesi di quest’estate non poteva di certo mancare Better Call Saul, ormai amatissimo non solo per essere lo spin-off di una fra le serie più belle e celebri degli ultimi tempi, ma soprattutto perché ha dimostrato di possedere una qualità narrativa e visiva che non è mai venuta meno in nessuna delle tre stagioni precedenti. Quello dedicato a Jimmy McGill e alla sua lenta ma inesorabile trasformazione in Saul Goodman è un percorso curato nei minimi dettagli che ha permesso alla serie di brillare ben presto di luce propria, nonostante dipendesse da un colosso come Breaking Bad.

Quel buffo e sconsiderato avvocato che nella serie madre aveva risvolti più che altro comici si è rivelato come uno dei personaggi più complessi e tragici dell’attuale scenario televisivo. Dopotutto, lo stesso Vince Gilligan ha ammesso che la trasformazione di Jimmy in Saul Goodman è una vera e propria tragedia: è chiaro, infatti, che – nelle sue ingenuità e nei suoi difetti – Jimmy ha sempre mantenuto una bontà e un’empatia di fondo destinate a scomparire progressivamente man mano che ci si avvicina alla personalità dirompente di Saul. Il passaggio verso questa nuova dimensione non è mai definitivo né improvviso e non è mai scatenato da qualche evento particolare, per quanto importante esso sia: la trasformazione del nostro protagonista è graduale e complessa e, soprattutto, prevede la coesistenza delle due personalità (o, almeno, di una parte di esse) nello stesso tempo. Se la terza stagione ci ha offerto sprazzi decisivi di ciò che sarà Saul in un Jimmy che non aveva ancora perso tutte le sue caratteristiche, questa quarta annata ha tutta l’aria di avviarci verso la perdita dei tratti più “umani” di Jimmy.

Il tragico finale della terza stagione ha infatti indirizzato la narrazione di Better Call Saul su un sentiero che sembra essere molto più cupo e carico di tensione rispetto al passato. In questo senso, la morte di Chuck e, soprattutto, l’elaborazione della perdita del fratello maggiore da parte di Jimmy, è cruciale. “Smoke”, nell’approcciarsi alle conseguenze del suicidio di Chuck, ribadisce ancora una volta l’intelligenza e l’originalità degli autori dello show, che hanno dimostrato nuovamente quanto la gestione del silenzio sia fondamentale per colpire appieno la curiosità e l’interesse degli spettatori.
Il mutismo riflessivo in cui Jimmy si chiude dopo aver saputo di Chuck è, per la maggior parte della puntata, ben poco decifrabile, soprattutto perché le battute del protagonista sono così poche da poter essere contate sulle dita di una mano. Tuttavia, si capisce fin da subito che il silenzio di Jimmy non è soltanto il silenzio di chi soffre per la perdita di una persona cara: l’ottima interpretazione di Bob Odenkirk rende ben chiaro che la mente di Jimmy è in completo subbuglio non solo per lo shock e per l’elaborazione del lutto ma, con tutta probabilità, lo è soprattutto per l’elaborazione del proprio senso di colpa.

È davvero difficile pensare, infatti, che Jimmy non abbia capito fin da subito che non si è trattato di un incidente: il protagonista conosceva molto bene le abitudini e l’organizzazione quasi maniacale del fratello, realizzando ben presto che una disattenzione simile non poteva essere casuale. Chuck ha quindi deciso di togliersi la vita e, fra le ragioni che lo hanno spinto a compiere questo gesto estremo, i diverbi con Jimmy hanno sicuramente svolto un ruolo fondamentale nell’accrescere il suo malessere. La chiusura di Jimmy in seguito alla notizia della morte del fratello può essere letta, dunque, non solo come la spontanea reazione allo shock della perdita, ma soprattutto come una presa di coscienza per aver contribuito, in buona parte, all’accaduto. Un fardello, questo, che ha aleggiato nella mente di Jimmy per la maggior parte dell’episodio e che, in alcuni frangenti (come nella scena in cui ascolta l’elogio funebre) ci ha quasi fatto credere che il protagonista stesse per soccombere sotto il suo peso.

Ma la splendida, breve e intensissima scena finale ha riversato sullo schermo il rifiuto di Jimmy di accollarsi questa responsabilità: sfruttando la disperazione e le paure di Howard (scosso come non lo abbiamo mai visto prima), Jimmy, con una vera mossa alla Saul Goodman, ha scaricato il proprio senso di colpa sulle spalle di Howard, cercando così di assolvere se stesso, davanti allo sguardo sconvolto di Kim. Come si è detto prima, la trasformazione del protagonista non è improvvisa, ma graduale; una lenta erosione che colpisce, volta dopo volta, l’empatia di Jimmy. Tuttavia, non è possibile negare che questo improvviso slancio opportunistico dell’uomo sia il frutto di una trasformazione sempre più radicale: anche adesso, infatti, nel momento in cui l’emotività di Jimmy dovrebbe essere quantomeno scossa, si impone la forma prototipale di Saul Goodman – il cui emergere non poteva essere rappresentato in modo migliore –, il frutto di quella che è innanzitutto una progressiva perdita di se stessi.

Tutto in “Smoke”, a partire dal titolo della puntata fino alla visione della casa distrutta di Chuck, rimanda alla distruzione e alle ceneri che ne rimangono, al peso dell’assenza, alla mancanza di solide basi per ri-costruirsi. Non stupisce, dunque, che Vince Gilligan abbia anticipato che questa stagione avrà picchi di intensità tali da eguagliare e, forse, superare quelli di Breaking Bad. L’intera puntata è permeata, infatti, da una tensione di fondo non solo connessa alle vicende di Jimmy, ma anche a quelle di Gus e Nacho, sempre più intense e, ormai, sempre più vicine a delineare quel mondo che abbiamo conosciuto con Walter White. Anche per questo si spiega il motivo per cui lo spazio dedicato a Mike e al suo nuovo lavoro sia insolitamente più ironico, mirato ad alleggerire proprio questa tensione che investe, in un modo e nell’altro, tutti i personaggi dello show.

Dopotutto, il flash forward di inizio puntata non fa che suggerire che quest’angoscia si intensificherà con il succedersi degli eventi, anticipando una stagione che si è avviata con un’impronta decisamente cupa. La cura della regia e la bravura degli attori, inoltre, non sembrano essere state scalfite affatto: Better Call Saul ha tutta l’intenzione di continuare a contraddistinguersi per una qualità a dir poco inamovibile e ben difficile da eguagliare.
“Smoke”, insomma, riconferma i tantissimi pregi di uno show che, con la sua accuratezza dei dettagli e, soprattutto, con il suo rispetto nei confronti della complessità del proprio protagonista e dell’intero universo di Breaking Bad, dimostra di poter sfornare ancora episodi di alto livello, preparando il campo ad una stagione che si preannuncia avvincente e intensa.

Voto: 8
Better Call Saul – 4×02/03 Breathe & Something Beautiful
Uno dei maggiori punti di forza di Better Call Saul è sempre stato il tipo di rapporto che la serie spin-off è riuscita ad instaurare con la serie madre, Breaking Bad, senza farne un semplice omaggio, brutta copia o divertissement ma assumendo fino in fondo la propria natura derivativa per farne un valore. Se con la sua più famosa creatura Vince Gilligan era riuscito a far toccare al dramma seriale uno dei suoi punti più alti, con questa secondogenita l’autore riesce nell’altrettanto ardua impresa di dare piena dignità e spessore al genere spin-off riprendendo ambientazioni, tematiche e personaggi di partenza da altre angolazioni e con altre tempistiche, altri toni.

Ne risulta un universo assolutamente compatto e coerente, capace di stare in piedi da solo, ma che tende lo sguardo in avanti in modo incessante, verso gli avvenimenti ineluttabilmente già narrati dalla serie di riferimento.
Vince Gilligan e Peter Gould stanno pian piano reintroducendo tutti i personaggi a cui lo spettatore si era affezionato e di cui aveva pianto il triste destino in Breaking Bad e sembrano prenderci gusto a giocare con le aspettative del loro pubblico e a suscitare in questi un sentimento di nostalgia e di rinforzata empatia nel veder riapparire sullo schermo lo stesso eroe ironicamente naïf ed inconsapevole della sua prossima fine. In “Something Beautiful”, in particolare, rivedere Gale Boetticher (David Costabile) che canticchia spensierato è stato straziante se teniamo alla mente il momento culminante di “Full Measure” (tredicesimo ed ultimo episodio della terza stagione di Breaking Bad).

Better Call Saul sa bene, infatti, che essere a conoscenza dell’epilogo dell’arco narrativo di un personaggio non impedisce certo allo spettatore di fare supposizioni, di crearsi delle aspettative, di venire sorpreso, e, anzi, si dimostra estremamente abile nel maneggiare tempi e stratificazioni del racconto così da intensificare, spesso, anche l’importanza dell’epilogo già narrato. Su tutti, il lavoro fatto su Nacho Varga (Michael Mando) in questi due episodi è degno di nota per via della tragicità con cui tenta di fuggire al proprio destino ma non fa che accelerarlo: il tentativo di uccidere Don Héctor Salamanca (Mark Margolis) ha dato il la, come spesso accade nella scrittura di Gilligan, ad un concatenamento di eventi non previsti ben peggiori di quelli che cercava di evitare, non ultimi l’uccisione di Arturo da parte degli uomini di Gustavo Fring (Giancarlo Esposito, sempre impeccabile), il fatto di essere ora completamente nelle mani di quest’ultimo e la finta sparatoria che gli è costata, se non la vita, parecchie sofferenze. Il Dr. Caldera (Joe De Rosa) che gli sussurra all’orecchio che non vuole avere più niente a che fare col cartello sta, in realtà, ironicamente esprimendo il suo stesso desiderio.

Nel corso delle stagioni è diventato sempre più chiaro, inoltre, che Better Call Saul è Breaking Bad o, perlomeno, una sua versione alternativa nel senso che si tratta dello stesso esperimento narrativo realizzato stavolta con altri personaggi: com’era accaduto per Walter White, assistiamo qui alla trasformazione da eroe a anti-eroe, alla caduta di un personaggio prima “buono” ed ora sempre più “cattivo”, ovvero suscettibile di forzare, spingere fino ai limiti il discorso etico tradizionale. Dopo la realizzazione, a conclusione del primo episodio di questa quarta stagione, che la morte del fratello non era stata accidentale bensì una sorta di auto-immolazione, “Breathe” e “Something Beautiful” fanno procedere, lentamente ma inesorabilmente, Jimmy/Saul sulla via della dannazione o della messa in discussione dei comportamenti socio-morali codificati. È molto interessante che questa trasformazione avvenga, questa volta, nello spazio della giurisprudenza dove il “giusto” morale si accompagna e spesso si oppone al “legale” rendendo molto più ambiguo e sinuoso il percorso di “ri-codificazione” personale di Jimmy/Saul. “Making something beautiful”, fare qualcosa di bello, significa per lui un win-win, un’azione ingegnosa, furba, non percepita, quasi innocente nel suo lasciare indifferente la vittima, ma capace di cambiare a proprio vantaggio quel qualcosa di maldestro, di incidentalmente sbagliato nel mondo. Il Saul che conosciamo e che Jimmy sta diventando è un artista, un prestigiatore che esegue il suo trucco che per riuscire ha bisogno della performance, della parola che ammalia il suo pubblico per sviare l’attenzione dall’imbroglio.

Rimanendo fedele al modo di raccontare le cose che era anche di Breaking Bad, Better Call Saul non esplicita quasi mai gli avvenimenti ma lascia allo spettatore il compito di dedurli dalle sequenze, di indovinarli dalle espressioni dei protagonisti. Ci accorgiamo così del cambiamento di Jimmy comparando il suo comportamento in situazioni simili in passato a quello di questi due episodi: prima durante il colloquio di lavoro, dove manca ora l’entusiasmo e, soprattutto, la disposizione a dare l’ennesima seria possibilità al modus operandi comune e poi nella bellissima scena che chiude il terzo episodio della lettura della lettera di Chuck, che vede un Jimmy ormai anestetizzato rispetto alle preoccupazioni e l’emotività che avevano finora caratterizzato il rapporto col fratello e una Kim che cerca di metabolizzare questa trasformazione, questa parziale perdita di umanità da parte dell’uomo che ama. Si tratta di una delle sequenze più intime, sottili e disarmanti della stagione finora.

Un’ultima nota di merito all’incredibile lavoro fatto sul personaggio di Kim Wexler (Rhea Seehorn, bravissima), ormai più che degna erede, pur diversissima, del ruolo che era stato di Skyler White: attenta, perspicace, sofferente, combattuta, assiste da vicino, per prima, in silenzio, all’inesorabile trasformazione di Jimmy che è, senza dubbio, una trasformazione che la coinvolge pienamente a sua volta.

Better Call Saul è una serie sontuosa, sapiente e, come nessun’altra, paziente, girata con quell’inconfondibile mix di dramma, banalità, estetizzazione del quotidiano, black comedy (esilaranti in questi due episodi le scene della visita all’ospedale dei Salamanca a Don Héctor e del furto della statuetta a Mr. Neff) che ha reso classico lo stile di Gilligan. Tecnicamente impeccabile, esigente e genuinamente commovente, Better Call Saul è bella televisione.

Voto 4×02: 8
Voto 4×03: 8+
Better Call Saul – 4×04/05 Talk & Quite a Ride
Arrivati a metà percorso, Better Call Saul serve ai suoi spettatori una succulenta portata che funziona su due livelli: da un lato i nostalgici di Breaking Bad possono riempirsi gli occhi di scene, location e personaggi provenienti direttamente dalla serie madre, dall’altro lo stesso spin-off inizia a battere con maggior convinzione i sentieri che condurranno Jimmy a diventare Saul, ponendo i protagonisti di fronte all’ineluttabilità delle scelte e alle loro conseguenze.

You don’t want to hear what I have to say.

“Talk” è un episodio particolare e difficile da inquadrare, a partire dal titolo. Ad una sequenza brutale – ancor più sorprendente visti i precedenti della serie, molto più restia di Breaking Bad a mettere in scena la violenza -, con uno scontro a fuoco apparentemente centrale ma di impatto minimo sulla narrazione principale, si contrappongono momenti statici, in cui sono le parole e i dialoghi a cercare di modificare lo status quo. D’altro canto Better Call Saul è sempre stato uno show molto interessante dal punto di vista dell’economia del racconto, essendo costretto a convergere verso un epilogo già noto allo spettatore. C’è quindi una consapevolezza diversa nell’osservare le scelte dei protagonisti, convinti di possedere una sorta di libero arbitrio ma in realtà già condannati. Il dialogo e le parole che danno il titolo all’episodio costituiscono quindi un duplice inganno: per i protagonisti che si illudono di poter controllare il futuro ma devono ancora fare i conti con i propri demoni e per lo spettatore che crede di assistere ad un avanzamento del racconto, ad un ulteriore passo verso l’epilogo finale ma si ritrova di fronte ad un episodio tutto orientato sul passato e sulle difficoltà dei personaggi nell’affrontarlo.

You wanted me to talk, I talked.

L’esempio più calzante per ampliare quanto detto sopra ci viene fornito dall’arco di Mike, protagonista di una serie di scene evidentemente insignificanti all’interno della prospettiva generale. Better Call Saul utilizza questi momenti per sottolineare ancora di più la propria identità character-driven, in cui la trama, menomata da un epilogo già noto, è funzionale allo sviluppo dei personaggi. Lo stesso Jimmy si è trovato più volte coinvolto in una situazione simile. Quante volte, analizzando l’episodio, ci siamo trovati a commentare “Ecco, questo è il punto di non ritorno, Jimmy è diventato Saul”? Eppure ogni settimana il personaggio interpretato da Bob Odenkirk si rivela più profondo e complesso, rendendosi protagonista di un percorso non lineare, non organico ma perfettamente coerente con la sua natura di “Slippin’ Jimmy”. Jimmy McGill non è uomo da piani quinquennali, da progetti ariosi e a lungo termine ma è l’uomo dell’ispirazione momentanea, dell’improvvisazione, della trovata estemporanea, dell’incapacità di stare nella noia. Lo vediamo in “Quite a Ride”, episodio notevole e spartiacque all’interno della stagione e, su un grado differente, dell’intera serie.

A sancire l’importanza di “Quite a Ride” è, evidentemente, la presenza di una scena che appartiene in toto alla linea temporale di Breaking Bad. Avevamo già avuto modo di assistere a momenti in cui le due serie si accarezzavano appena, lasciando briciole e tracce da seguire per gli appassionati, ma i primi cinque minuti dell’episodio abbandonano ogni cautela, ogni caccia all’indizio e ci consegnano le ultime, frenetiche e nostalgiche ore di un Saul Goodman sconfitto ma in qualche modo soddisfatto, quasi realizzato. La scena – magnifica anche senza contesto – si arricchisce di significato con il resto dell’episodio. Il tedio del lavoro da CC Mobile solletica l’ingegno di un Jimmy ormai perfettamente aderente alle logiche del futuro Saul: l’espediente con cui vende cellulari usa e getta di fronte alla Dog House non è più una truffa ai danni di qualcuno, ma un escamotage per aggirare la legge, e quindi ingannarla, senza che nessuno ci rimetta in maniera visibile. A gestire la transizione del personaggio ci pensa un Bob Odenkirk sempre encomiabile nel trasmettere le sfumature della recitazione, capace di destreggiarsi tra i momenti più leggeri – la tuta in acrilico che fa criminale dai tempi dei Soprano – e le occasioni in cui fa emergere il malessere che si porta dietro. Magistrale, in questo senso è la gestione tecnica della scena del film serale con Kim: l’inquadratura, privata della presenza della donna, è asimmetrica e scomoda, e Jimmy, costretto su un lato, sembra contorcersi nervosamente nel disagio.

Come si diceva “Quite a ride” è così importante all’interno delle logiche dello show proprio per il significato conferito dalla sequenza iniziale alla scena finale. Il lavoro di Gilligan si è sempre fondato su schemi strutturali e simmetrie e non è difficile intuire come la fine definitiva di Saul Goodman dei primi minuti si leghi ad un nuovo inizio, a quel testardo “Lawyer” con cui Jimmy cerca di convincere se stesso che c’è ancora un futuro in cui lui e Kim torneranno a lavorare insieme, che in qualche modo demoni, natura e destino si possono combattere.

Do yourself a favour and go see someone.

In totale contrapposizione rispetto a Jimmy troviamo il personaggio di Kim. A questo punto del racconto è difficile lasciarsi sfuggire il chiasmo disegnato dagli archi dei due protagonisti, con il momento di massima congiuntura raggiunto con l’apertura dello studio legale Wexler-McGill la scorsa stagione. Mentre Jimmy rimpiange il suo passato da scavezzacollo, Kim percepisce nell’impegno con Mesa Verde la dissoluzione degli ideali che l’avevano spinta ad intraprendere la carriera legale. Provata dal suo ruolo in difesa di Jimmy e turbata dal cambiamento di quest’ultimo, va in cerca di antiche sicurezze, delle convinzioni profonde e sincere che può trovare nelle cause pro-bono, assumendosene l’onere come se fossero indulgenze per i suoi peccati, nonostante questa scelta rischi di compromettere il suo impegno con Mesa Verde.

“Talk” e “Quite a Ride” sono due episodi molto diversi sia nell’economia generale del racconto che come valore assoluto, con il secondo che prevale sul primo. Focalizzato sull’assorbimento delle scorie del passato e sull’approfondimento dei personaggi, “Talk” è un riempitivo di qualità in cui i dialoghi e i confronti muovono molto poco e il cruento scontro a fuoco – centrale nella trama verticale ma apparentemente irrilevante in quella orizzontale – serve solo a portare un po’ avanti la storyline di Nacho, sempre più sballottato dalle dinamiche distruttive della guerra segreta tra Gus Fring e la famiglia Salamanca. Al contrario “Quite a Ride” è un pilastro, soprattutto simbolico, del ponte che sta lentamente congiungendo Better Call Saul a Breaking Bad e traccia una netta linea di demarcazione tra il prima e il dopo, tra Jimmy McGill e Saul Goodman.
Arrivati a metà della quarta stagione lo show ha radici profonde e tronco stabile e, per la prima volta, concede agli spettatori un’occhiata su quello che c’è al di là del muro.

Voto 4×04: 7
Voto 4×05: 8+
Better Call Saul – 4×06/07 Piñata & Something Stupid
Si stringe sempre di più lo spazio per Jimmy McGill e cominciano ad accendersi i riflettori su Saul Goodman e tutto quello che riguarda Breaking Bad: l’inquietudine, il dilagare dell’illegale e il lento spegnersi del volersi bene.

I didn’t hear you come to bed.

Una delle cose che distinguono Breaking Bad e il suo figlioccio Better Call Saul dagli altri prodotti è sicuramente la fotografia, che entra di diritto nel campo dei protagonisti della sceneggiatura. Come sarà per le camicie di Saul una volta che affermerà la sua carriera di avvocato imbroglione, in Better Call Saul i colori (spesso desaturati, o usati su svariati oggetti di scena) indicano la trasformazione di una situazione o di un personaggio, che cambia la propria visione del mondo all’interno della storia e la fa cambiare a noi nei suoi confronti.
Nel cinema, si cominciarono ad usare i colori “parlanti” nei film dell’espressionismo tedesco, dove appunto la parola ancora non esisteva e bisognava in qualche modo far sentire un’emozione a chi stava guardando: la musica non bastava più, serviva la pellicola virata al rosso per la paura, al blu per la notte, al verde per l’angoscia, ecc. La stessa cosa che fanno gli autori qui: a partire dalla sequenza della colazione, dove vari oggetti di scena – e soprattutto l’aranciata, di un colore troppo evidente per essere vero – tendono verso l’ocra. Abbiamo imparato che il blu/verde di solito è abbinato alla legge, ai buoni; mentre il rosso e l’arancione ai fuorilegge, ai cattivi. Sembra quindi che vogliano farci capire che Jimmy ha cominciato a virare dal verde al rosso, e per il momento è bloccato lì in mezzo.

Proprio qui cominciamo a comprendere effettivamente che la distanza tra Jimmy e Kim sta iniziando ad essere incolmabile. I due non hanno più gli stessi orari e continuano a cenare in modo freddo e distaccato, sempre con cibi più strani a domicilio.
Il senso di esclusione di Jimmy da un mondo che desidera ma per cui evidentemente non è tagliato si percepisce già da quando era giovane, con Kim prima della classe e Jimmy che tenta in tutti i modi di attirare la sua attenzione e quella del fratello, senza riuscirci. Il suo mondo, nonostante in una sequenza simbolica torni sui suoi passi ed entri in biblioteca, è quello dei Fanta-Oscar, dove può imbonire la gente e guadagnare soldi in modo strano prima e illegale poi.
E allora il loro rapporto si rompe definitivamente – o quantomeno, per come lo conosciamo noi – al ristorante, quando Kim ammette di avere accettato un lavoro che non le permetterà di rimettersi in affari con Jimmy quando lui potrà tornare ad esercitare. Significativa quindi la presa di coscienza di quest’ultimo, che fa finta di andare in bagno e, chiudendo gli occhi e respirando affannosamente, dice più di quanto possa dire a parole (anche qui, si ferma vicino a un cartello giallo, e una luce soffusa, sempre giallognola, gli illumina il volto).

Jim sta quindi uscendo dalla vita di Kim e da tutto quello che è stato finora – le insegne “Exit” si sprecano nel negozio di cellulari e al nail saloon – per entrare in quella di Saul Goodman e di tutto l’altro mondo che già conosciamo.
A tal proposito, Gilligan ci regala un’autocitazione nemmeno troppo velata: la strepitosa sequenza di Fring al capezzale di Salamanca non può non ricordarci quella dove proprio Gus muore per mano di Hector. Anche qui, la tensione si taglia con un coltello, ma stavolta la mano di Salamanca non ha nessuno “spasmo muscolare” per far saltare in aria tutto.
La trasformazione di Jimmy, come un novello Dottor Jekyll, si ha visivamente al cento per cento nel finale di questa puntata quando, per dare una lezione ai ragazzi e per avere campo libero nella vendita dei cellulari, Jimmy tende loro una trappola facendosi inseguire; il tutto si consuma sotto a dei lampioni dalla luce ocra e con una tuta che più rossa di così non si può. Simbolismo, espressionismo: le parole non servono più.

You don’t know the whole story.

Better Call Saul ci ha abituati a delle intro fenomenali, e in questo caso gli autori si sono addirittura superati.
Qui ci dicono chiaro e tondo che la storia tra Jimmy e Kim è giunta al capolinea: lo schermo diviso, i colori diversi che ancora ritornano prepotenti – anche se non in maniera nettissima – il tutto incorniciato dalla bellissima Somethin’ Stupid di Frank Sinatra, che dà anche simbolicamente il nome alla puntata.
Sono quasi sei minuti di puro cinema, di un’introduzione magistrale alla tematica del distaccamento per seguire la propria strada che altri non riescono a dire nemmeno in un film intero.
La definitiva scelta dei due da che parte stare è messa in dubbio solo in pochissime circostanze, quando per esempio uno dei due “rompe” la simbolica barriera e invade la metà dell’altro, perché non tutto può essere spezzato così in poco tempo (anche se passano mesi, e capiamo di essere arrivati al 2004), non tutto può essere blu/verde o giallo/rosso. Ancora i colori quindi, come dicevamo poco fa, ritornano prepotenti, in sostituzione delle parole che ormai Jim e Kim non si dicono più. Ci sono sequenze dove il blu e l’ocra sono ben visibili e spezzano a metà lo schermo, altre dove l’ocra invade anche la metà di Kim e il blu quella di Jimmy, ma sono sempre scene dove la solitudine e il rimpianto si fanno più intensi, come a volerci dire che quei colori non sono fatti per loro, tutto il contrario.

La distanza tra i due assume i contorni di un abisso quando, in macchina, Jimmy preferisce accendere la radio a tutto volume piuttosto che parlare con la fidanzata, un atteggiamento che avrebbe stonato solo fino alla scorsa stagione e che ora sembra del tutto normale.
Le loro vite e la loro relazione sono spezzate dalle loro scelte, dal loro modo di essere, dalla loro visione del mondo: Kim ha deciso di aiutare gli altri per sentirsi realizzata, Jimmy ha deciso di sopravvivere per salvare se stesso. Sono entrambi facce della stessa medaglia che ormai non riescono a vedersi più, messi uno di spalle all’altra.

C’era bisogno quindi di una variabile impazzita, una scheggia venuta direttamente dal mondo di Breaking Bad – tanto per dirci di nuovo quanto ormai ci siamo vicini: Huell è uno dei personaggi più iconici del mondo di Gilligan, un no-sense fisico e morale, un personaggio che fa da collante a svariate situazioni e che, anche in questo caso, sembra far riavvicinare Jimmy e Kim, forse per l’ultima volta.
Anche in questo caso, Gilligan vuole farci capire che in amore non può essere o tutto bianco o tutto nero, o tutto blu/verde e ocra/rosso: ci sono delle sfumature, fino alla fine. Kim ama Jimmy e allora tenta di aiutarlo in ogni modo, ben sapendo della natura del suo uomo, sempre alla ricerca di una scorciatoia che gli semplifichi la vita.
Allora, con il mondo di Breaking Bad sempre più vicino e con Kim che ne entra ufficialmente in contatto con un suo esponente, l’elefante nella stanza che ci portiamo avanti dalla prima stagione comincia anche a scalciare: quale sarà la fine di Kimberly Wexler? Perché in Breaking Bad non ne abbiamo traccia?

Better Call Saul continua a stupire sia dal punto di vista della regia che da quello della scrittura, coniugando scelte di trama, fotografia, montaggio che rendono questo show uno dei meglio riusciti degli ultimi anni. E queste due puntate non fanno di certo eccezione.

Voto 4×06: 7/8
Voto 4×07: 8
Better Call Saul – 4×08/09 Coushatta & Wiedersehen
Esiste un legame speciale tra le creature di Vince Gilligan e i suoi protagonisti: Breaking Bad è stata la storia un uomo di mezza età alla ricerca di una nuova definizione di sé; Better Call Saul è un processo narrativo simile alla serie madre nella forma ma molto diverso nella sostanza, poiché la trasformazione di Jimmy in Saul è caratterizzata da una crescita individuale più lunga e legata a doppio filo alla carriera lavorativa.

È proprio su questa sovrapposizione tra la persona Jimmy e l’avvocato McGill che si costruisce la profondità del personaggio. Cos’è la legge per lui? Sicuramente ciò che lo definisce e che lo rappresenta; è stato il mezzo grazie al quale ha potuto vendicarsi del successo del fratello ed è di gran lunga l’arte che esalta maggiormente la sua abilità oratoria e la sua scaltrezza. La qualifica di avvocato è anche una forma di riconoscimento nei confronti di tutti quelli che continuano a trattarlo con condiscendenza e implicita superiorità. Questo meccanismo psicologico è evidente quando nel finale del nono episodio si sfoga su Kim: “Yeah, you look at me, and you see Slippin’ Jimmy.”. Jimmy, infatti, sarà sempre tormentato dall’essere il fratello meno famoso, quello che non potrà mai competere con il grande Chuck e, anzi, è costretto a convivere con una nomea poco gratificante derivante dal suo discutibile passato. Ciò spiega anche la scelta di non nominare il parente morto davanti alla commissione per la riammissione, decidendo consapevolmente di rimuoverlo dalla testimonianza e di non lasciare che si potesse intromettere nella sua – poi svanita – risalita sociale.

Jimmy McGill, quindi, non può esistere senza la sua professione, si identifica totalmente in essa. Saul Goodman, d’altro canto, è come se fosse un’altra persona: un doppio oscuro evocato da un senso di onnipotenza che si cela nell’animo controverso del personaggio. Saul può tutto, persino ribaltare una sentenza già scritta. La complessa truffa architettata con l’aiuto di Kim – e qualche centinaio di viaggiatori – è il documento d’identità perfetto che mostra il potere – e la pericolosità, verrebbe da dire – che questa personalità è in grado di esercitare sulle persone.

Prendiamo Kim, per esempio. La donna, sebbene inizialmente disturbata dai metodi poco ortodossi del partner ed eticamente meno propensa a sbilanciarsi, si lascia trasportare dall’adrenalina che il caso Babineaux genera in lei e sceglie di reiterare l’imbroglio (“Let’s do it again”) ottenendo illegalmente un ufficio più grande per il suo cliente. È l’influenza di Saul a portarla sulla “cattiva strada”, che qui si intende come la scelta di affacciarsi temporaneamente oltre la sottile linea della morale per poi tornare ad essere un integerrimo e onesto avvocato. Così come quando truffavano i ricchi al bar quasi per gioco, Kim non è nuova a queste dinamiche nella relazione con Jimmy. È questa complicità ad avvicinarli e, paradossalmente, a segnare quello che sarà il punto di distanza massima tra i due: la già citata sfuriata che chiude “Wiedersehen”. Al di là del bellissimo dialogo che li vede protagonisti sulla cima del palazzo, è il ritorno a casa dei personaggi a rappresentare la summa artistica della serie di Gilligan (non per niente alla regia di questo episodio). Una serie di inquadrature che posizionano Kim e Jimmy sui due lati opposti di un corridoio – si diceva la massima distanza emotiva tra i due – e che sezionano l’immagine grazie al riflesso di uno specchio, coadiuvate da uno scavalcamento di campo per soffermarsi prima sull’uno e poi sull’altro. Alla fine sarà Kim a riavvicinarsi al protagonista, ma è chiaro che il rapporto è ormai definitivamente incrinato.

Ma perché è così doloroso per lo spettatore il rifiuto della commissione per la riammissione di Jimmy? La grandezza della scrittura di Better Call Saul non risiede solo nella costruzione di archi narrativi coerenti e affascinanti, nella definizione di personaggi sfaccettati e tragicomici o nel perfetto lavoro di incastro rispetto alla serie madre. È come viene gestito il dramma del protagonista a risultare fondamentale perché il sentimento empatico che travalica lo schermo sia portato a livelli altissimi: per tutta la stagione Jimmy è ossessionato dal tornare ad esercitare come avvocato, è ciò che spinge e muove ogni sua azione. Svanita questa possibilità e accettata la sconfitta, non è solo l’universo del personaggio a crollare ma anche le speranze che lo spettatore riponeva perché questo accadesse. Lo sguardo vacuo di Bob Odenkirk al termine dell’episodio, svuotato di ogni parvenza di vita, si pone in netta antitesi rispetto all’uomo determinato e sicuro di sé che diventerà – e che abbiamo già conosciuto. Si capisce, quindi, di essere di fronte al punto più basso toccato da Jimmy, un uomo che alle sconfitte è abituato (“Jimmy, you are always down”), ma che forse da questa non si riprenderà più, lasciando campo aperto a Saul Goodman.

Better Call Saul racconta della difficoltà di migliorare la propria condizione e dell’impossibilità di modificare il proprio ruolo. Nacho lo sa bene: dopo aver tanto penato a causa della famiglia Salamanca – tanto da causare un incidente quasi mortale ad uno di loro – ora si ritrova nuovamente a prendere ordini da un soggetto ancora difficile da inquadrare, Eduardo detto Lalo, ma decisamente spaventoso. Sia lui che Gus temono la spavalderia con la quale questo individuo si aggira per le strade di Albuquerque dispensando consigli e falsi sorrisi; piccoli indizi che vengono seminati in una storyline solo apparentemente secondaria nei confronti di un finale che si preannuncia esplosivo.

D’altro canto se il personaggio interpretato da Giancarlo Esposito deve far fronte ad una nuova minaccia, è Mike a trovarsi nella situazione peggiore. Per la prima volta l’ex poliziotto paga un rilassamento di troppo e si lascia ingannare dal viso docile di Werner Ziegler, l’ingegnere capo della costruzione del laboratorio. Le condizioni di lavoro imposte dalla segretezza del progetto, unite all’isolamento prolungato, portano l’uomo sull’orlo di una crisi di nervi che, razionalizzata e in un primo momento trattenuta, viene tradotta in un elaborato piano di fuga. Anche questo segmento narrativo, difficile definirlo più debole ma sicuramente meno interessante rispetto agli altri, raggiunge il suo climax e rimanda la sua soluzione all’ultimo episodio della stagione, chiamato a tirare le fila di un percorso organico fin qui quasi perfetto.

Si spendono migliaia e migliaia di parole sul sopraffino lavoro tecnico e narrativo dietro Better Call Saul, e probabilmente continueranno a non bastare. Dietro il successo di un grande show c’è sempre un amore smisurato da parte degli autori per i suoi personaggi e questi due episodi dimostrano come mai prima d’ora il grande cuore di Vince Gilligan e del suo team.

Voto 4×08: 8½
Voto 4×09: 9

Note:
– Il finto sito della parrocchia di Coushatta ideato per sostenere Huell esiste veramente, è stata la pagina Facebook della serie a condividerlo.
Better Call Saul – 4×10 Winner
In un panorama televisivo iperattivo, in cui gli show nascono e muoiono in pochissimo tempo, le puntate diminuiscono di numero e le stagioni si riducono, Better Call Saul è un ottimo esempio di controtendenza, uno show capace di ampliarsi e stratificarsi stagione dopo stagione, dando vita a personaggi tragici e complessi.

‘S all good man.

In “Winner” troviamo cinque minuti fondamentali, quelli del monologo conclusivo, che sono uno spartiacque tra un prima e un dopo. Sembra strano trovarsi a dirlo per l’ennesima volta dopo quaranta puntate in cui siamo arrivati a conoscere Saul Goodman senza mai averlo davvero sotto gli occhi. Il lato evasivo ed immorale di Jimmy è stato una presenza ectoplasmatica per quattro anni, percepibile solo a momenti ma sempre incombente sul destino del più giovane McGill. Quelle quattro parole, giunte al termine di un monologo che sancisce l’irredimibilità del personaggio, lo caratterizzano definitivamente, come uomo e come avvocato, agli occhi di Kim. È un colpo per lei così come lo è per lo spettatore, che nell’ambivalenza morale leggeva ancora un’apertura al bene e alla giustizia.

Lo sguardo nauseato di Kim è una crepa che si allarga sulla loro relazione fino forse a spezzarla, stornando dal computo le teorie secondo cui Jimmy sarebbe diventato Saul anche a causa di Kim. In realtà Jimmy diventa Saul nonostante Kim. Pur dimostrando un’attrazione feticistica per le scorciatoie, la donna è il contraltare morale di Jimmy, la cartina di tornasole del protagonista: dalla reazione di lei ricaviamo la misura dell’azione di lui, intuiamo la profondità dell’abisso che Jimmy sta scavando; dalle parole di quest’ultimo emerge la sua condizione di amareggiato col mondo, di arrabbiato e deluso. È lo sguardo miope, egoistico e autoindulgente di chi non sente riconosciute intelligenza e capacità; se queste parole dovessero in qualche modo ricordarvi le motivazioni ultime che spingevano Walter White all’azione, ebbene, è proprio così. Jimmy McGill, così come Mr. White, è un uomo sconfitto nelle sue ambizioni, disposto a tutto pur di ottenere ciò che pensa di meritare.

The winner takes it all.

L’indovinato cold open apre la struttura circolare e densa tanto cara a Better Call Saul. La giustapposizione tra la prima e l’ultima sequenza funziona per analogia e per contrasto: si tratta di due momenti trionfali per Jimmy ma, se nel primo caso è disposto a mettersi da parte e lasciare il palco al fratello, nel secondo non vuole condividere la vittoria con nessuno. Nel tempo intercorso tra i due momenti Jimmy si è lasciato alle spalle gli attributi e le qualità che lo differenziavano da Chuck come uomo: calore umano ed empatia. Questo non vuol dire che sia dispensato dal lutto e dal cordoglio – i suoi comportamenti stagionali ci suggeriscono a più riprese come Jimmy stia camminando su una china sottile –, semplicemente non può concederseli perché farlo significherebbe aprire la porta alla responsabilità e alla sua stessa colpevolezza. E, se Jimmy è colpevole, Chuck vince, ancora. Non ci sono mezze misure, non c’è conforto possibile né liberazione; la strada imboccata ha un solo epilogo.

I’ll take care of it.

Con Mike Better Call Saul si concede al suo lato più action. L’entusiasmo nel vedere la genesi del superlaboratorio sotto la lavanderia si è esaurito in breve tempo e la storyline al riguardo si è un po’ trascinata, avendo un sussulto solo arrivati al finale di stagione. La costruzione dell’intreccio, con il legame cresciuto tra Werner e Mike, e la risoluzione finale sono deludenti da almeno due punti di vista. In primo luogo il colpo di testa dell’ingegnere tedesco è inspiegabile ed è un insulto alla cautela e all’intelligenza da lui dimostrate fino a quel momento. Stante l’enorme investimento di Fring nell’attività sotterranea e le precauzioni prese per mantenere il segreto, non è credibile che Werner si fosse davvero convinto di poter completare la sua fuga d’amore ed uscirne tranquillo con un buffetto sul naso. Di che cosa si tratta, quindi? Di desiderio di morte? E se cosi fosse, questo da dove viene?

Il secondo appunto riguarda proprio il personaggio di Mike, a cui viene affidata una centralità scenica senza che ci sia una storia da raccontare. L’intera stagione che cosa ci dice di più di quello che già sapevamo? Il colpo di pistola conclusivo – magistralmente girato – vorrebbe porsi come un confine oltrepassato e un punto di non ritorno, ma è un’azione perfettamente in linea con il senso di responsabilità del personaggio, una conferma più che una novità. Vedere Mike risolvere problemi e vincere ogni battaglia con la sua intelligenza pratica superiore rimane una delizia per gli occhi ma, arrivati a questo punto, comincia a non essere abbastanza.

It was like improv or jazz.

Arrivati al termine della quarta stagione inizia ad avere senso una discussione sul valore di Better Call Saul, sia nei confronti della serie madre che in termini assoluti; un discorso che si inserisce in un contesto in cui il livello medio delle produzioni televisive si è livellato verso l’alto rendendo difficile, per questo, spiccare in maniera evidente. Pertanto è ancora più ammirevole come il lavoro di Gilligan e soci sia, in molti aspetti, l’incarnazione dell’eccellenza: si parla, per esempio, della fotografia, capace di rendere eloquenti la luce o la sua assenza, della centralità del dettaglio che non è mai solo un espediente didascalico e arriva ad ergersi a simbolo di un concetto più ampio, o della minuziosa caratterizzazione dei personaggi, i cui archi diventano preponderanti e complessi puntata dopo puntata, quasi fagocitando la narrazione orizzontale.

È proprio qui che si nasconde il vero punto dolente di questa quarta stagione. Dove la suggestione dell’immagine non ha perso la propria acutezza, lo stesso non si può dire per lo svolgimento del racconto, mai come quest’anno labile e avvoltolato su se stesso. Non si tratta dell’ormai proverbiale lentezza ma di una scrittura che, nel focus sui personaggi, perde di vista la destinazione finale. La menomazione dovuta ad un epilogo già noto è una giustificazione soltanto parziale, soprattutto se gli eventi mostrati hanno valore per i protagonisti ma sono irrilevanti per lo spettatore. Si parla soprattutto di Nacho, centralissimo nella prima metà di stagione, coinvolto in una faida di cui non può tenere le redini e poi dimenticato, ma soprattutto di Mike, costretto in un ruolo alla McGyver per nove episodi prima del finale.

Con “Winner” si conclude una stagione che è di gran lunga la più debole dal punto di vista narrativo. Esiste però una chiave di lettura alternativa che può edulcorare questo giudizio non proprio felice. Better Call Saul è uno show fatto di sfumature ed interpretazioni e il graduale distacco che si crea tra i protagonisti li erge a simboli di categorie più ampie, aprendo la porta alla possibilità che Mike (a rappresentanza del mondo violento della criminalità organizzata), Kim (quale esponente dei colletti bianchi) e Jimmy (in una sorta di anello di congiunzione tra due mondi altrimenti incompatibili) non siano altro che versioni alternative dello stesso dilemma etico: fino a che punto ci si può addentrare nell’ambiguo e nell’oscuro prima di perdersi irrimediabilmente?

Alla luce delle diverse prospettive attraverso cui può essere analizzato il lavoro di Vince Gilligan, diventa particolarmente difficile dare una valutazione coerente ad un’opera che lavora su piani differenti, eccellendo nel comparto tecnico e nella capacità di traslare dal piccolo al grande e dal singolare al plurale ma rischia di impantanarsi nelle esposizione delle sue idee, patendo una minore efficacia narrativa. Nonostante queste difficoltà Better Call Saul resta un piacere per gli occhi e un esempio positivo e sempre più isolato della complessità e della stratificazione a cui può aspirare la televisione.

Voto episodio: 9
Voto stagione: 7½
Better Call Saul – 5×01/02 Magic Man & 50% Off
Nel corso delle quattro precedenti stagioni, abbiamo praticamente esaurito i complimenti per Better Call Saul, uno show che, più di ogni altro, è riuscito a mantenere costante un livello qualitativo altissimo.
Lo spin-off di Vince Gilligan e Peter Gould ha superato di volta in volta le aspettative degli spettatori, stupendo anche chi, in principio, pensava che non potesse mai raggiungere il livello e il fascino della serie madre, Breaking Bad.

Better Call Saul ha “scioccato” tutti in positivo nel suo raccontare con maestria la caduta morale di un personaggio che solo superficialmente appare comico, ma che, come abbiamo potuto notare nelle ultime annate, è invece intrinsecamente tragico, figlio dello stesso tipo di pessimismo che ha pervaso la figura di Walter White in Breaking Bad. Capace di staccarsi da quest’ultima, Jimmy/Saul ha assunto uno stile e una dimensione peculiari che hanno permesso al personaggio di acquisire una totale autonomia, tale da non farlo più dipendere dall’eredità del passato. Si potrebbe dire, anzi, che Better Call Saul abbia addirittura superato la qualità stessa di Breaking Bad, presentandoci personaggi molto più complessi in un contesto che viene rappresentato con una cura che, spesso, rasenta la maniacalità.

Le prime due puntate di questa quinta stagione non modificano affatto questo stato di grazia, introducendo un’annata che ha tutta l’impressione di proseguire sotto il segno della tensione. Lo stesso flash-forward* di “Magic Man”, il più lungo andato in onda fino ad ora, ci introduce in un futuro cupo e ansiogeno, che presagisce come la figura di Saul Goodman sarà insostenibile e spaventosa anche per il nostro stesso protagonista, che cerca inutilmente di scrollarsi di dosso l’ombra di quell’identità.
A tal proposito, è gestito splendidamente il contrasto fra questo mood pessimistico e cupo, premonitore di futuri risvolti negativi, e quello comico con cui viene presentato un Jimmy che ormai ha completato quasi del tutto la sua trasformazione in Saul. Questo contrasto si avverte non solo nella costruzione della puntata, ma soprattutto nella consapevolezza da parte degli autori di come gli spettatori accoglieranno con felicità il ritorno di questa figura tanto familiare per i fan dell’universo di Breaking Bad.
È impossibile non accogliere con un sorriso il ritorno di Saul Goodman, dei suoi completi sgargianti, della sua parlantina furba e instancabile, della sua innata abilità di rivoltare le situazioni a proprio favore, infischiandosene della moralità delle sue azioni. Saul Goodman, insomma, è tornato (o, perlomeno, siamo dinanzi alla sua figura prototipale) ed è difficile non essere felici di rincontrare un personaggio che, fino ad ora, ha scalpitato dietro i pensieri e i desideri di Jimmy, nutrendosi dei suoi dubbi, del senso di inferiorità che provava per la figura del fratello maggiore, simbolo di un avvocato realmente legato al senso di giustizia.

E tuttavia, nonostante la comicità di certi momenti (da notare come anche la colonna sonora suggerisca questo mood utilizzando brani jazz e movimentati nei frangenti più tipicamente ironici di Saul), è impossibile non avvertire un’amarezza di fondo nel veder calpestare il personaggio di Jimmy da questo nuovo, esuberante alter ego. Questo perché, come tutti sappiamo (e temiamo) l’allontanamento di Jimmy presagisce, inesorabilmente, anche quello di Kim, uno splendido personaggio nato con questa serie che, come ben sappiamo, non sarà presente nella futura vita di Saul. È proprio la gestione di questo presentimento amaro a rivelarsi l’elemento più riuscito di queste due puntate iniziali, tant’è che si può tranquillamente affermare che la tensione che si avverte per Saul e Kim non viene raggiunta neanche dai momenti che coinvolgono Gus e i Salamanca, su cui torneremo fra poco.

La perenne perfezione della resa tecnica dello show e, soprattutto, le interpretazioni fantastiche di Bob Odenkirk e di Rhea Seehorn mettono in luce un rapporto che sembra stia arrivando al capolinea, proprio perché Kim non riesce a superare e ad ignorare quei confini morali che invece Saul calpesta con tanta leggerezza. Per quanto l’avvocata si sia lasciata spesso trasportare da alcuni atteggiamenti alla “Slippin’ Jimmy” (distinguendosi così da una figura tanto irremovibile com’era quella di Chuck), Kim semplicemente non può superare determinati limiti e la differenza sostanziale fra i due non sta tanto nelle loro azioni, ma nella reazione a queste ultime. L’aver seguito il consiglio di Jimmy riguardo il cliente che rifiutava il patteggiamento, di fatto ingannandolo, ha devastato la nostra Kim: la differenza fra i due sta nella reazione immediata della donna, nel suo rileggere e rivalutare la moralità delle proprie azioni; cosa che, inutile dirlo, Saul non arriva neanche a contemplare. È una differenza, questa, che Kim non riesce più ad ignorare e che avrà sicuramente ripercussioni nelle puntate successive.

Ma queste puntate iniziali – in particolare “50% Off” – hanno saputo dedicare spazio anche al lato “criminale” della serie, quello che più di tutti ci riallaccia agli avvenimenti di Breaking Bad. Inutile dire che, anche in questo frangente, Better Call Saul rasenta la perfezione. La tensione che si avverte nella collaborazione tra Lalo e Gus è palpabile: i due attori (i validissimi Tony Dalton e Giancarlo Esposito) sono davvero bravi nell’interpretare un rapporto che è di cooperazione solo all’apparenza, ma che nasconde nel “sottosuolo” una guerra silenziosa, una lenta e pericolosa partita a scacchi in cui uno dei due aspetta con pazienza il primo passo falso dell’altro, assaporando il pensiero della propria vittoria. Il pezzo più importante di questa partita, in questo caso giocato sapientemente da Gus, è Nacho, il personaggio che più di tutti è soggetto al pericolo e alla tensione scatenati da questa battaglia silenziosa. Nell’interpretazione di quest’ultimo, Michael Mando spicca positivamente sullo schermo, mettendo bene in mostra la paura e, al tempo stesso, l’impotenza di chi passa ogni giorno fra la vita e la morte, in quella sorta di limbo in cui cadono coloro che si sono spinti fin troppo al di là di ogni scrupolo morale.

Limbo che ha accolto anche il nostro Mike – che continua ad imporsi come uno dei personaggi meglio scritti dell’intero universo di Gilligan e Gould –, la cui contraddittorietà fra un’umanità che non l’abbandona mai del tutto (e che si riflette nel suo rapporto con la nipote e nel senso di colpa che prova per Werner Ziegler) e una quotidianità fatta di crimine e morte si sposa benissimo con il pessimismo e la tensione che pervadono questi due episodi. Queste non perdono mai di credibilità ma, anzi, infondono alla serie stessa nuove sfumature e sensazioni che invadono non solo Mike, ma ogni personaggio dello show, a prescindere da quanto le loro vite possano distinguersi le une dalle altre.
Non è un caso, allora, che il finale di “50% Off” veda il riavvicinamento della vita da avvocato di Saul a quella, criminale, di Nacho: testimonianza di questa stessa condivisione di emozioni e di due mondi che, d’ora in avanti, perderanno le loro differenze e si confonderanno tra loro in maniera sempre più incisiva, aprendo la strada alla creazione di quell’universo che abbiamo conosciuto con Breaking Bad.

Per concludere, Better Call Saul continua a sfornare episodi che rasentano la perfezione, mantenendo altissima l’asticella della qualità anche nei momenti più difficili e cruciali della sceneggiatura. Lo spin-off di Gilligan e di Gould continua ad imporsi, insomma, come una garanzia, e non ci resta che aspettare con impazienza – ma anche con un po’ di timore nei riguardi delle svolte inevitabili che stanno per accadere – le prossime puntate di una serie che resta fra le migliori in circolazione.

Voto 5×01: 8/9
Voto 5×02: 8/9

*Il flash-forward presente in “Magic Man” sarà tristemente ricordato anche per l’ultima apparizione televisiva, nei panni del magnetico Ed Galbraith, di Robert Forster, venuto purtroppo a mancare lo scorso Ottobre.
Better Call Saul – 5×10 Something Unforgivable
Better Call Saul arriva al finale della quinta stagione in maniera tesa, angosciosa, con quelle sfumature che ricordavamo benissimo dalle ultime annate di Breaking Bad. E questo finale, così come tutta questa stagione, eleva a rango di protagonista e incensa come uno dei migliori personaggi seriali degli ultimi anni quello di Kim Wexler.

“What about tomorrow? Or the next day? Jimmy, what about next week?”
“I don’t know.”

Kim e Saul hanno trovato, durante le ultime due stagioni, un’alchimia che definire perfetta è riduttivo: se in precedenza il loro rapporto intimo era lasciato a pochissimi particolari che ne facevano intuire la portata (se ricordate, si baciavano a malapena), ora è chiaro come i due siano fatti esattamente l’uno per l’altra.
Al di là dell’arringa incredibile della scorsa puntata, dove Kim riesce a battere Lalo con le sole argomentazioni, in questo ultimo episodio possiamo notare come Kim non sia solo uguale a Saul, ma che Kim è Saul. È il suo corrispettivo femminile, la sua esatta rappresentazione bionda con gli occhi azzurri. Anche lei ha come spinta decisiva la sua autodeterminazione, il suo essere se stessa a tutti i costi, voler dimostrare al mondo di non vivere all’ombra di nessuno e per nessuno.

Il suo dialogo con Howard – che per quanto possa essere snob, per certi versi cattivo, o come dice Kim totalmente egoriferito, in questo caso ha ragione – è esplicativo in tal senso: a Kim non interessa essere messa in guardia da quello che fa Saul, perchè come già detto Kim è Saul. Non c’è bisogno che arrivi un principe azzurro a salvarla dall’orco cattivo, perché come abbiamo già visto Kim lo sa fare molto bene anche da sé. E a Kim sta cominciando a piacere essere come l’orco cattivo, soprattutto se pensa che le sue azioni siano spinte da un bene superiore: una scorciatoia per fare del bene a molte persone facendo del male a una sola.
Kim in questo momento è addirittura più pericolosa di Saul: perché Saul aveva Kim come freno, lei non ha apparentemente nessuno. E il dialogo riportato come incipit a questo paragrafo ci porta proprio lì, alla forza di volontà che anima Kim, che sembra venir meno a Saul dopo la sparatoria nel deserto: ora è inutile fermarsi, la biglia ha cominciato a rotolare sul piano inclinato e andrà sempre più veloce. Anche Saul lo sa, ma sembra non avere più la forza di volontà per accettarlo, mentre Kim fa sua la situazione e rilancia. Chi l’avrebbe mai detto fino a una stagione fa?

Poi c’è Lalo Salamanca, ancora più villain di Gus Fring, anzi forse il vero villain di questa serie, anche se comparso da relativamente poco. Lalo è la perfetta rappresentazione del male inestirpabile, quello che ormai ha messo radici così profonde da non poter essere sradicato da nessuno. Ovunque passi ci sono morti a ogni angolo, ma lui non viene quasi mai scalfito.
La tensione torna in questa puntata in tutta la sequenza con lui e Nacho protagonisti (con un enorme lavoro di Michael Mando), dove solo con l’espressione del viso e il sudore i due danno spettacolo per dei minuti davvero interminabili. Lalo è quindi, oltre ad una malefica scheggia impazzita, anche l’altro enorme elefante nella stanza insieme a Kim: siamo ormai a pochi passi dalla collisione tra i mondi di Better Call Saul e quello di Breaking Bad e ancora i due personaggi sembrano saldamente ancorati alla narrazione. Anche perché, se di Kim in Breaking Bad non si parla mai, di Lalo invece c’è un seppur piccolo riferimento proprio di Saul, che ci fa pensare al fatto che il giovane Salamanca sarà con noi ancora per molto tempo.
Per quanto riguarda Kim ormai sono anni che ce lo chiediamo, e la soluzione al rompicapo sembra davvero difficile da afferrare: la svolta “aggressiva” del personaggio fa propendere per il finale tragico, ma conoscendo Gilligan siamo sicuri che la soluzione non sarà così scontata come ce la immaginiamo da tempo. Sappiamo solo che Kim non ci sarà più, e questo di per sé è già comunque un male.

Kim, you’re shitting me, right?

Un altro degli aspetti solo accennati e che saranno al centro della prossima e ultima stagione di questa serie è il nuovo lavoro di Kim, che sarà dedita al cento per cento alle cause pro bono, ad aiutare i più deboli. Questa è un’altra chiave di lettura interessante della coppia protagonista: sono una sorta di Robin Hood del tribunale, anche se in maniera diversa e uguale. Saul ha intrapreso questa strada per aiutare principalmente se stesso, cercando di convincere lui e il mondo che quella che è la sua passione è anche la sua vocazione, anche se prendendo delle scorciatoie; Kim invece cerca da sempre di aiutare i più deboli, ma agendo ormai alla Goodman – quando può trovare delle scorciatoie lo fa. Ed è proprio quel faldone che porta a casa sul finire dell’episodio che potrebbe essere un gancio con i personaggi del mondo che sta per arrivare: lì dentro non ci sarà mica un certo giovane finito nei guai per lo spaccio di droga?
Il gancio ben visibile che c’è è invece visivo in prima istanza e simbolico in seconda, con il finale della scorsa stagione: Kim che si gira verso Saul facendo finta di sparargli è esattamente la stessa scena del tribunale, dove era invece lui a fare quasi lo stesso gesto a lei, dopo che Kim era rimasta allibita dalla sua decisione di cambiare nome. Le parti si ribaltano, e non solo fisicamente: qui è Saul a non capacitarsi di quello che sta insinuando sua moglie.

Better Call Saul porta a termine un’altra stagione da incorniciare: se era facile aspettarsi una caduta verso il baratro man mano che si avvicinasse la fine e quindi l’inizio di Breaking Bad, vederlo scritto e recitato così fa sicuramente effetto.
Questo finale e questa stagione in particolare ci hanno regalato un’altra sfaccettatura del personaggio di Kim che è ormai diventato talmente centrale e fondamentale per tutto quello che succede a Saul che pensarla morta, o scappata, o chissà cos’altro non può che regalarci un’attesa spasmodica per la prossima, decisiva stagione di questo meraviglioso show.

Voto 5×10: 8
Voto stagione: 8
Better Call Saul – 6×01/02 Wine and Roses & Carrot and Stick
Rieccoci qui, ancora tra il sole e la polvere che invadono ogni spazio del New Mexico (e anche del Messico originale), con i protagonisti di Better Call Saul che arrivano all’ultimo passo del loro percorso tracciato dal destino. Come andrà a finire per loro? Per alcuni lo sappiamo già, per altri lo ignoriamo, ma di una cosa siamo sicuri: ci divertiremo a scoprirlo in questi ultimi episodi.

Partiamo da Nacho, in fuga disperata dopo l’agguato nell’hacienda di Lalo Salamanca: lo avevamo lasciato in un momento di pathos estremo, una delle sequenze più tese dell’intera serie e, non essendo a conoscenza del fatto che Lalo fosse ancora vivo – lui, ma noi spettatori sì -, anche questo inizio non è da meno.
La sua fuga, e soprattutto la sua sosta nel motel, riescono perfettamente nell’intento di reinserirci immediatamente nel mondo di Better Call Saul – e di conseguenza nell’universo Breaking Bad – mettendoci addosso quel senso di attesa e di ansia che sappiamo già dall’inizio non porterà a nulla di buono. Le facce sudate, il sole accecante, il riverbero sui tetti di lamiera, le piscine vuote, gli stivali impolverati, tutto è messo al proprio posto per farci sentire in trappola come Nacho, braccato praticamente da tutti.
Anche l’azione non manca, e non avevamo dubbi: se è vero che il punto di forza di questa serie e della scrittura di Vince Gilligan in generale è la costruzione della tensione, il dubbio, l’attesa, il ristagnare di sensazioni pesanti e sinistre, anche le scene di pura action si inseriscono molto bene per spezzare il ritmo e dare un’accelerata al racconto: quella che vede Nacho contro i cugini Salamanca e i loro scagnozzi non manca certo di inventiva, soprattutto nel momento in cui i due sicari sparano anche ai propri accoliti per rimarcare il fatto che Nacho vada preso vivo – e anche per sottolineare la totale spietatezza dei due, che di parole proprio non ne vogliono usare.

Tutto questo si ricollega ovviamente a quello che ormai possiamo definire il villain della serie, ovvero il redivivo Lalo Salamanca.
Una delle prime sequenze che lo riguarda, quella dove va a trovare una coppia di conoscenti, ricorda molto da vicino le atmosfere di Non è un paese per vecchi, il film dei Coen, e anche qui la strategia delle tensione che permea il racconto esplode in tutta la sua potenza. Capiremo solo più tardi il senso della minaccia incombente sull’uomo che grazie a lui è riuscito a operarsi ai denti, ed è talmente spinta e violenta che la resa delle immagini e del non detto è magistrale: siamo noi che dobbiamo immaginarci tutto quando un corpo carbonizzato viene riconosciuto proprio dai denti, e siamo sicuri che quel cadavere aveva anche una bella mosca e baffi appena rifiniti sotto la bocca.
L’assoluto male diabolico rappresentato da Lalo è quasi fastidioso da vedere ma decisamente ipnotico e magnetico: la tranquillità con cui si muove, con cui pensa e con cui fa qualunque cosa è molto sinistra, una caratteristica necessaria per delineare il tipo di pericolo che corrono Saul e gli altri personaggi, tra cui soprattutto Kim.

Diciamoci la verità: tutta la parte che riguarda Lalo e Nacho ma anche i Salamanca, Gus Fring e Mike è fondamentale per l’economia della serie e di sicuro appeal, ma la storyline che riguarda Saul e Kim è quella alla quale siamo più affezionati.
I motivi ovviamente sono molteplici: non staremo qui ancora a sottolineare la bravura degli attori, la splendida sceneggiatura, e tutto il comparto tecnico che accompagna le sequenze, perché arrivati alla sesta stagione non avrebbe più senso rimarcarlo; i motivi vanno ricercati ora più che mai nel futuro dei personaggi, non nel presente. Ci spieghiamo meglio: è palese che le loro azioni, ormai da novelli Diabolik e Eva Kant, sono cruciali per il loro sviluppo narrativo (ci arriviamo tra poco), ma arrivati all’ultima stagione è chiaro che siamo tutti tesi nello scoprire quale sarà l’anello di congiunzione tra Better Call Saul e Breaking Bad. Perché ad essere onesti, se nelle annate scorse scorgevamo solo con la coda dell’occhio l’elefante nella stanza, ora quell’ingombrante e tremenda domanda è sempre più vicina a noi: che fine farà Kim Wexler? Stiamo andando in questa direzione, volenti o nolenti, e se abbiamo imparato a conoscere Vince Gilligan, siamo sicuri che la risposta non ci piacerà.

Manca però ancora un pezzetto di percorso insieme a questa coppia sposata che non ha mai effusioni – l’unica concessa è il dormire assieme – e quindi ora più che mai dobbiamo gustarci la chimica che si è venuta a creare tra loro, addirittura troppa se si considerano le espressioni che il clamoroso Bob Odenkirk riesce a dipingere sul volto di Saul senza dire mezza parola. La trasformazione di Kim è ora avvenuta completamente e l’elaborato piano per vendicarsi dei suoi ex colleghi è talmente diabolico che anche Saul tentenna, stenta a riconoscere la donna che probabilmente ama perché ha sempre pensato potesse essere la sua ancora di salvezza, mentre ora si accorge che la nave è salpata con l’avvocato Wexler al comando, e lui guarda la costa allontanarsi con sempre più sgomento.

Anche il capitolo dedicato agli ex clienti, i coniugi Kettleman, è perfetto in questo senso: Saul ha sempre il guizzo da avvocato da strapazzo, e riesce a spuntarla quasi subito agitando una metaforica carota, ma serve la nuova Kim – col bastone – a risolvere la situazione quasi senza scrupoli. È proprio in quel momento che l’ultima pagina comincia a voltarsi e a farci intravedere qualcosa sul futuro imminente dei due: a Kim succede qualcosa per questa sua troppa sicurezza? Saul non riuscirà a difenderla e diventerà ancora più disperato, come lo abbiamo conosciuto in Breaking Bad?
La situazione è già sfuggita di mano, e Gilligan è un maestro nello scrivere di questi particolari frangenti, trovandovi poi una soluzione che nella migliore delle ipotesi è sempre terribile per qualcuno di quelli coinvolti. Saremo sinceri anche qui: lo sappiamo sarà tremenda, ma non vediamo l’ora di scoprirla.

Con questi primi due episodi della stagione di chiusura, Better Call Saul si dimostra ancora una volta un prodotto di altissimo livello, che non lesina perle a livello registico, come l’apertura di “Wine and Roses” che, come spesso succede senza dialoghi ma con il solo aiuto della musica, ci aiuta a dare uno sguardo sull’imminente futuro che attende il fu Jimmy McGill.
La stagione sarà più lunga del solito con i suoi tredici episodi, e soprattutto verrà spezzata in due: la prima parte terminerà con il settimo episodio il 24 maggio, mentre la seconda e ultima parte ripartirà il 12 luglio. Un lento progredire che ci farà godere ancora di più questa perla rara della serialità contemporanea.

Voto 6×01: 7½
Voto 6×02: 8
Better Call Saul – 6×03/04 Rock and Hard Place & Hit and Run
Dopo un’ottima doppia premiere, la sesta (e ultima) stagione di Better Call Saul prosegue con due episodi molto diversi tra loro sia dal punto di vista del tono che del focus narrativo, confermando, se ancora ce ne fosse bisogno, l’altissima qualità dello show di Gilligan e Gould.

6×03 “Rock and Hard Place”

Nonostante manchino ancora dieci episodi al finale, in “Rock and Hard Place” il senso di fine imminente si fa sempre più forte, complice l’addio di uno dei personaggi che, a sorpresa, è stato tra i più riusciti di questo spin-off: Nacho Varga.
Nato dalla penna di Gould e Gilligan sulla base della famosa frase pronunciata da Saul durante la prima sua apparizione in Breaking Bad, Nacho si è rivelato, con il passare delle stagioni, come una delle più interessanti new entry dello show, anche grazie alla straordinaria interpretazione di Michael Mando, che ha convinto gli autori a riservargli un ruolo sempre più determinante nell’economia del racconto. In questo senso, il suo addio non fa che confermare queste impressioni: infatti, pur mantenendo la bipartizione tra le due storyline principali (quella legata al mondo dei narcotrafficanti e quella “legale” di Saul e Kim), il cuore pulsante dell’episodio è senza dubbio rappresentato dalle vicende che vedono protagonista Varga.

Dopo una sequenza d’apertura al cardiopalma che ha il merito di sottolineare nuovamente l’ingegno e le capacità di sopravvivenza del personaggio, Nacho prende coscienza di non avere via di scampo e, dopo la toccante telefonata in cui dice addio al padre, si arrende al piano di Fring. Se lo sguardo di Nacho al vetro rotto ha volutamente il compito di instillare nello spettatore il dubbio della sua possibile sopravvivenza, in realtà si rivela essere lo strumento di una fine molto più coerente, e in un certo senso soddisfacente, per il suo personaggio, ormai al di là di qualsiasi salvezza o possibilità di redenzione. Pur scagionando Fring dall’attentato a Lalo, Nacho non rinuncia infatti a sfogare sui Salamanca tutto l’odio accumulato nel corso degli anni nei loro confronti, per poi togliersi la vita, in una sequenza tesissima che rientra di diritto tra i momenti migliori dell’intero show.

Nonostante resti in secondo piano, anche la storyline di Saul e Kim procede a passo spedito: da un lato il ritorno di Huell fa riflettere nuovamente Saul sul senso ultimo del machiavellico piano che sta mettendo in atto con la moglie, mostrandoci ancora una volta un uomo in preda ai dubbi; dall’altro le sue implicazioni con il cartello stanno lentamente venendo alla luce. Anche in questo caso Kim gioca un ruolo fondamentale, non solo in quanto tramite dell’offerta a collaborare con le autorità (che, ricordiamolo, credono che Lalo sia morto), ma soprattutto per il modo, cinico e spietato, in cui mette il compagno di fronte alla realtà di una scelta impossibile, ovvero continuare a collaborare con i narcotrafficanti (“friend of the cartel”) oppure diventare una spia (“rat”).

6×04 “Hit and Run”

In maniera speculare rispetto al precedente episodio, “Hit and Run” sposta il suo focus principale su Kim e Saul, lasciando il cartello sullo sfondo e proponendo un ritmo più lento ma altrettanto teso. Diretta da Rhea Seehorn, alla sua prima prova dietro la cinepresa, la puntata mostra chiaramente come i fili tra Better Call Saul e Breaking Bad siano sempre più intrecciati, così come quelli tra avvocati e cartello. L’esempio più evidente è senza dubbio quello di Saul, alle prese con le conseguenze del rilascio di Lalo Salamanca: da un lato viene rifiutato dai colleghi del tribunale, che lo trattano come un complice dei narcotrafficanti, dall’altro inizia a essere ricercato da criminali di vario rango che lo vogliono come avvocato. Si tratta naturalmente di due risvolti della stessa medaglia, ma ciò che è significativo è la reazione di Saul, ben poco dispiaciuto per il trattamento subito in tribunale ed entusiasta per l’improvviso arrivo di nuovi clienti, pronto a lasciare il salone di Mrs. Nguyen per acquistare gli uffici dove lo abbiamo conosciuto in Breaking Bad. Anche le remore riguardanti l’intricato imbroglio ai danni di Howard sembrano essere scomparse, o forse solo sopite dall’adrenalina del momento derivante dal successo; quello che è certo è che la distanza tra il Jimmy McGill che abbiamo conosciuto all’inizio di questo show e il Saul Goodman di Breaking Bad è ormai quasi del tutto colmata.

“Hit and Run” vede anche il primo incontro tra Kim e Mike, un altro momento emblematico dell’ineluttabile fusione dei due mondi e dei due show, in cui le domande sul destino della donna si fanno sempre più pressanti. La scena ha il merito di sottolineare come entrambi siano ormai molto diversi da come li abbiamo conosciuti: lei un’avvocatessa irreprensibile, lui un semplice guardiano del parcheggio del tribunale (anche se con un passato di corruzione), ora entrambi costretti a fare i conti con la lotta intestina al cartello che li vede più o meno direttamente coinvolti.

Le sequenze di apertura e chiusura hanno infine il compito di ricordarci della spada di Damocle che incombe sulle teste di tutti i protagonisti: grazie a una scrittura magistrale, scopriamo che non solo il pedinamento di Kim, ma anche le telecamere puntate sulla casa di Fring sono entrambi opera proprio di Gus, sempre più roso dall’attesa del ritorno di Lalo, proprio come noi spettatori in attesa della prossima puntata.

Voto 6×03: 8
Voto 6×04: 7½
Better Call Saul – 6×05/06 Black and Blue & Axe and Grind
“Black and Blue” e “Axe and Grind” sono gli episodi che precedono il mid-season finale, giro di boa della sesta stagione di Better Call Saul, che ci condurrà alla conclusione della serie e quindi al suo incontro con Breaking Bad. È piuttosto scontato che la prossima puntata ci darà qualche indizio sul futuro di alcuni dei protagonisti dello show, perlomeno quelli che non compariranno nella serie madre: non stupisce quindi che, con l’andare degli episodi, i riferimenti tra le due serie continuino ad aumentare, portando gli spettatori a unire quelle tessere che sono sotto gli occhi di tutti e a cercare di capire come verranno utilizzate in un’ottica duplice.

Non dobbiamo infatti dimenticare che quello che ci aspetta post-Better Call Saul non è solo l’universo di Breaking Bad, ma anche quello successivo, quello di Gene – ennesima identità di Jimmy/Saul – in Nebraska. Se possiamo dire con assoluta certezza che alcuni personaggi di questa serie non ci saranno in Breaking Bad – una su tutti è Kim, sulla cui morte si è speculato da sempre –, non possiamo effettivamente escludere che non ci saranno nel flashforward.
Queste puntate giocano moltissimo muovendosi tra il doppio – la doppia identità, lo sdoppiamento, la doppia faccia che i personaggi offrono al mondo – e la duplice possibilità: quella delle strade non scelte e di quelle scelte con cognizione di causa, a costo di fare un’inversione a U imprevista eppure perfettamente in character. Con queste diramazioni che ci vengono svelate di volta in volta, paradossalmente quello che doveva apparire come un imbuto, un destino a cui è impossibile sfuggire – l’universo di Breaking Bad, punto immutabile nella narrazione – si trasforma e si mostra per quello che è: solo un momento di passaggio per i personaggi, che hanno vissuto certo quella vita, ma che potrebbero averne un’altra (un seguito) a noi al momento preclusa, proprio in quel futuro che conosciamo solo per pochissime scene.
Ci avviciniamo insomma a vedere tutte le carte sul tavolo, ma non è ancora detto che quello che vedremo sarà lo stesso tavolo su cui abbiamo fatto le nostre previsioni.

6×05 – “Black and Blue”

Se in Breaking Bad “Negro y Azul” era l’episodio della seconda stagione che precedeva quello chiamato proprio “Better Call Saul”, possiamo tuttavia dire che i riferimenti finiscano qui e siano più semplicemente i due colori che rimandano agli occhi di Jimmy dopo il confronto con Howard.
Eppure è proprio la scena di Jimmy e Kim in bagno che parlano dopo la scontro sul ring più comico di sempre a costituire per molti versi una chiave interpretativa di quanto sta accadendo in questa stagione tra i due e a causa dei due. Partiamo innanzitutto da una considerazione: la scelta di non spiegare minimamente quale sia il piano di Kim e Jimmy contro Howard ma di svelarcene solo un pezzetto per volta è una delle cose più interessanti e rischiose che la serie abbia mai fatto. E questo perché non è per niente facile seguire un piano di cui non si sa proprio nulla – da cui il compito della writers’ room di tenere viva l’attenzione del pubblico nonostante il gigantesco non detto.
Quello scambio di battute a letto, quando Jimmy si chiede come mai abbia dato corda ad Howard su quel ring per sentirsi rispondere da Kim “You know what’s coming next” può sembrare il teaser più frustrante dell’universo, ma la realtà è che per una volta non è il pubblico a essere onnisciente e noi non siamo abituati a stare in una posizione simile: ecco da dove nasce il potenziale tensivo incredibile della storyline.

Ma c’è altro in quella scena del bagno, soprattutto se collegata a quella della mattina. La sveglia suona, il suo riflesso – un altro doppio – sembra proprio dirci LIE, come “bugia”, “mentire”, e infatti Kim non riesce a dormire non solo perché ha il terrore di Salamanca, ma anche perché non può dire la verità a suo marito. Ha visto Mike una volta sola, eppure sa che ha ragione: Jimmy non reggerebbe al sapersi di nuovo target di Salamanca, lei sì. Lei sì perché è capace di cose su cui non avremmo scommesso nulla fino a poco tempo fa, ma soprattutto perché senza saperlo sta costruendo le basi di Saul Goodman: il negozio, i suggerimenti, e ora quella frase, “I’ll fight for you”, che Saul utilizzerà nei suoi annunci televisivi. Tutto ci sta dicendo che sì, è vero, Kim non sarà fisicamente presente in Breaking Bad, ma ci sarà eccome, perché senza di lei non sarebbe nato quel Saul che conosciamo tutti.
E poi, di nuovo, torniamo al piano: quella convinzione che portano avanti ogni volta, anche quando sembra che siano un passo indietro – persino l’incontro/scontro con Howard sembra sia stato previsto, come vedremo nell’episodio successivo – ci mostra una coppia unita dall’amore, dalla stima, dalla voglia reciproca di difendersi, ma anche da un desiderio di riprendersi il mondo a morsi che un tempo pensavamo appartenesse solo a Slippin’ Jimmy e che invece fa parte di Kim molto più di quanto pensassimo.

Kim e Jimmy riflessi sullo specchio insieme, ma anche Kim riflessa nel caffè mentre aspetta Viola dalla HHM e Jimmy riflesso da solo nello specchietto dell’investigatore privato; sono doppi loro è lo è anche Gus, riflesso allo specchio di casa in una puntata che ce l’ha mostrato come raramente è – fuori controllo.
Gustavo Fring sa che Lalo Salamanca è vivo e che è solo questione di tempo (“It’s a waiting game”, dirà Mike) prima che lo scontro tra i due arrivi: la sua capacità di porsi in pubblico come calmo e pacato anche quando dentro di sé è una furia arriva qui al punto di rottura perché non è lui in controllo delle tempistiche. Gus sa aspettare anche anni, ma solo se è lui a tirare i fili: in questo caso gli rimane solo da attendere che Lalo ritorni dal mondo dei quasi morti, e per uno come lui – così abituato al controllo da nascondere una pistola al punto di scavo, giusto nel caso servisse – l’attesa è la tortura più estenuante. Il doppio di Gus è questo, non quello che abbiamo visto fino ad ora: è l’uomo che esplode dentro la copertura, e non possiamo neanche cominciare a pensare a quali saranno le conseguenze.

Nel frattempo, Lalo è esattamente dove nessuno si aspetta che sia, cioè a farci vivere uno dei finali di puntata più terrificanti della stagione con la sua ricerca “della prova”, quella di cui parlava a Hector. Chi mai poteva aspettarsi che andasse proprio da una delle poche persone innocenti di tutta questa vicenda? L’obiettivo è Margarethe Ziegler, moglie di Werner, l’ingegnere tedesco che aveva gestito la costruzione del laboratorio di Gus – e con cui Lalo aveva parlato durante una breve telefonata prima che Werner fosse ucciso da Mike.

Se è forse un po’ irrealistico che un uomo ritenuto morto e ricercato dalla polizia stia girando per l’Europa come se nulla fosse, è però certo che nulla viene lasciato al caso: ed è solo alla fine che capiamo quel cold open così particolare, con la costruzione del blocco di lucite e del regolo calcolatore inserito al suo interno come ricordo dei ragazzi di Werner, seine jungs.
Lalo si sta avvicinando sempre di più alla verità e chissà, forse per questo decide di risparmiare la vita a Margarethe. Quel che è certo è che se abbiamo temuto per la sua vita è stato grazie all’impeccabile regia di una veterana dell’universo di Breaking Bad e di Better Call Saul, e si vede: Melissa Bernstein, passata da co-produttrice a produttrice fino a executive producer per la serie madre, torna dietro la macchina da presa per la seconda volta per questo episodio, che mescola sapientemente la parte thriller a quella più comica, senza dimenticarsi le interiorità dei personaggi e le loro duplicità, messe in scena quel tanto che basta per farcele notare e soprattutto per non permetterci di scordarle.

6×06 – “Axe and Grind”

Il sesto episodio, girato da Giancarlo Esposito al suo esordio nella regia di una serie TV, ancor più del precedente dà la sensazione che i nodi stiano arrivando al pettine; tutta quella attesa che permeava “Black and Blue” arriva qui al secondo prima dello scoppio, cristallizzato in quaranta minuti di televisione in cui succede di tutto, in cui capiamo quasi ogni parte del piano e soprattutto in cui assistiamo impotenti al futuro di Kim che si sgretola proprio quando finalmente eravamo riusciti a carpirne l’animo, unendo i puntini tra passato e presente.
L’episodio si apre infatti con un flashback su Kim e sul rapporto con sua madre, che ci evidenzia non solo quello che già sapevamo – un contesto familiare non facile – ma anche un tratto del carattere di Kim che continuiamo a vedere da tempo e che sta alla base di quel cambiamento che ci è parso così inaspettato. Come una sorta di imprinting, Kim impara da sua madre che l’amore e l’affetto non le arrivano quando si comporta bene, quando è una brava studentessa e un’ottima figlia, ma quando mente, quando diventa così brava nella sua performance da meritarsi un “I didn’t know you had it in you” e un paio di orecchini che indosserà persino da adulta, come vediamo durante la puntata. Né noi né Jimmy sapevamo che Kim avesse questo lato oscuro dentro di sé, che si affianca senza contraddizioni al suo voler fare del bene per la comunità a cui presta il suo servizio: ma l’inconscio e l’educazione emotiva sono impulsi decisamente più forti, e non possiamo quindi stupirci se l’essere apprezzata per quel suo lato nascosto sia una molla molto più forte dell’altra.

Se nel cold open la giovane Kim non ha alcuna possibilità di scelta su quanto sta accadendo, nella conclusione ce l’ha eccome: davanti alla strada che la porterà a Santa Fe e a un’occasione d’oro (per lei e per le persone che vuole aiutare), sceglie scientemente di abbandonare tutto, invertire la rotta e prendere la strada della vendetta per il caso Sandpiper e del piano contro Howard (letteralmente a “bad choice road”, per citare la nona puntata della scorsa stagione). Sceglie consapevolmente di non seguire una strada che la porta al suo sogno, quello che, lo abbiamo visto, le illuminava gli occhi solo a parlarne: perché il suo lato oscuro ha la meglio, perché inconsciamente sa che senza di lei Jimmy non è Saul – e adesso lo sappiamo anche noi.

Rimanendo su Kim, questa puntata ci offre più di un indizio su quello che potrebbe essere il suo futuro – non necessariamente legato alla morte. Parte del piano contro Howard, infatti, conduce i due coniugi dal noto veterinario con losca attività parallela, luogo in cui vediamo ben due oggetti a noi familiari: il libretto nero che abbiamo visto tra i possedimenti di Saul nel cold open dell’ultima season premiere – a dimostrazione di come tutti i contatti di Saul in Breaking Bad potrebbero essere frutto di un furto, e dunque perfettamente in character – e soprattutto un biglietto da visita che ha molto da dirci. “Best Quality Vacuum” letto dalla voce di Kim apre tutto un altro scenario per il suo futuro. Sarebbe così impossibile pensare che Kim sia ancora viva? Che si sia rivolta all’estrattore Ed (il compianto Robert Forster) per sparire per sempre con una nuova identità?
Forse no. Forse non è una coincidenza che Gene si sia rifugiato in Nebraska – da dove viene Kim –, in particolare nella cittadina di Omaha, che in questa puntata (anche se con un significato diverso) viene citata ben due volte nel parallelismo tra il loro D-Day, Eisenhower e Omaha Beach.

Proprio quando ci sembra di sapere tutto perché ci stiamo avvicinando al punto di incontro con Breaking Bad, come si diceva all’inizio, arriva qualcosa a raccontarci l’esatto contrario.
La questione dell’investigatore privato assunto da Howard, ad esempio, sembra con questa puntata essere stata perfettamente prevista e utilizzata da Jimmy e Kim – anche se non ci stupirebbe scoprirlo al loro servizio fin dall’inizio. Quelle foto sospette del prelievo di 20mila dollari da parte di Jimmy fanno infatti parte del piano, lo stesso piano che – insieme alle foto con il finto giudice Casimiro – dovrebbero indurre Howard a pensare che Saul abbia corrotto il giudice del caso Sandpiper. Dovrebbero condurre a un’autentica esplosione di rabbia (ancor più notevole in un uomo profondamente controllato come lui, secondo in questo solo a Gus Fring), agevolata da pupille dilatate e l’equivalente di due Red Bull a stomaco vuoto in circolo.
Un piano perfetto: dimostrare durante la mediazione che Howard è completamente fuori di testa – accuserebbe il giudice di essersi fatto corrompere blaterando di un incontro di cui il vero Casimiro non ha la benché minima idea –, facendo passare la sua rabbia per Jimmy per una vera e propria ossessione, perdendo così ogni credibilità. Da qui al patteggiamento, e dunque alla quota che spetta a Jimmy e Kim per il caso Sandpiper, sarebbe davvero questione di attimi.
Il braccio ingessato del giudice
, però, farebbe mangiare la foglia persino a un Howard in stato di coscienza alterato: e mentre Jimmy è molto più propenso a rimandare tutto e a riprovare un’altra volta, Kim non ha alcuna intenzione di sprecare questa possibilità a cui hanno lavorato per settimane – ma soprattutto quella per cui lei ha messo in gioco tutto di sé, anima compresa.

Mentre Lalo prosegue le sue ricerche con l’indizio trovato a casa Ziegler (una parte del racconto quasi horror e ottimamente girata, ma forse troppo breve per essere inserita nel ritmo di questo episodio), i fili del racconto si accorciano e ci portano a quello che sarà il duplice scontro finale: da una parte Lalo e Gus, dall’altra Jimmy e Kim contro Howard. Nel mezzo, solo un momento per tirare il fiato con Mike che vigila sulla nipote: una scena di una tenerezza a cui non siamo abituati in questa serie, che viene dal personaggio che forse più di tutti ha dimostrato cosa voglia dire tenere fede alle promesse – rinuncia alla sua stessa protezione pur di mantenere non solo quella sulla sua famiglia, ma anche quella sul padre di Nacho.

“Black and Blue” e “Axe and Grind” aumentano la temperatura sotto una pentola a pressione che pensavamo di conoscere e che invece nasconde ancora delle parti ignote. Si accende una piccola speranza per Kim, quantomeno che possa sopravvivere a quella che consideravamo una morte quasi certa; ma mancano ancora abbastanza puntate per vedere tutto cambiare – “cosa succederebbe ai nostri protagonisti se Howard dovesse non reggere fisicamente quella quantità di caffeina” è solo una delle tante domande che ci rimangono addosso dopo queste puntate.
Manca poco, eppure manca moltissimo: attendiamo la prima delle due conclusioni che questa stagione ha deciso di regalarci con un sensazione duplice, che proprio per questo non può che farci sentire ancora più vicini ai personaggi della serie.

Voto 6×05: 9
Voto 6×06: 8½
Better Call Saul – 6×07 Plan and Execution
Così come è accaduto con Breaking Bad, anche questo mid-season finale segna un punto di svolta determinante nell’universo di Better Call Saul, non solo per quanto riguarda la caduta a spirale sempre più repentina verso gli avvenimenti della serie madre e del futuro di Saul/Gene, ma anche e soprattutto per le ripercussioni emotive che piomberanno su Jimmy e Kim dopo questo episodio che, indubbiamente, rappresenta un punto di assoluto non ritorno, sia per quanto riguarda la psiche dei personaggi principali, sia per l’unione ormai totale del mondo di Better Call Saul con quello di Breaking Bad.

L’intera prima metà di quest’ultima stagione è stata caratterizzata da una tensione sotterranea costante, dovuta proprio all’attesa snervante, nostra e di molti personaggi, di avvenimenti destinati a sconvolgere gli scenari e gli equilibri passati – eventi della cui inevitabilità noi siamo al corrente, ma le cui modalità e tempistiche sono a noi oscure. È proprio su questo che Better Call Saul ha sempre lavorato con grande maestria, adattando le informazioni in nostro possesso in un percorso che ha saputo sempre restare imprevedibile. In questi ultimi episodi tale gioco è stato compiuto non solo nei confronti degli spettatori ma anche dei personaggi stessi, delineando uno scenario in cui tutti – chi più e chi meno – sono convinti di avere la situazione sotto controllo attenendosi, appunto, a un piano ben congegnato che dona loro la sensazione di riuscire a tenere d’occhio ogni situazione e di avere la possibilità di scovare ogni piccolo dettaglio fuori posto. È quello che accade con l’artificioso piano di Jimmy e Kim nei confronti di Howard (che assume chiarezza soltanto in questo episodio), ma accade anche e soprattutto con Gus e il suo controllo ai limiti della paranoia di tutto il quartiere in attesa del ritorno di Lalo. Il tema del controllo e della sorveglianza è stato, infatti, onnipresente in questa prima metà di stagione: tutti i personaggi principali spiano le vite dei loro avversari, con la sicurezza di avere in mano le redini del gioco. Ciò che “Plan and Execution” ha dimostrato, però, è che questa sicurezza non è altro che un’illusione e che le scelte compiute per la messa a punto di piani all’apparenza impeccabili possono portare a conseguenze imprevedibili e devastanti.

Ad esempio, Howard era sicuro di aver messo Jimmy sotto scacco facendolo seguire da un investigatore privato che, si scopre, è stato in realtà ingaggiato da Jimmy stesso per l’artificiosa costruzione del suo piano per distruggere la reputazione dell’avvocato. L’intera messa in scena del piano di Jimmy e Kim è stata girata benissimo da Thomas Schnauz, la cui regia e scrittura sono riuscite a mettere in luce non soltanto la concitazione dei preparativi e delle ultime modifiche del piano, ma anche l’incontenibile trepidazione di Jimmy e Kim che, tramite queste azioni, si sentono vivi e uniti come mai prima d’ora.

“This is where I need to be”, rimarca Kim con sicurezza mentre si dà da fare negli ultimi preparativi, sottolineando ancora la portata della scelta che ha compiuto nella scorsa puntata in cui, con quell’inversione a U, ha modificato irrimediabilmente non solo il suo futuro, ma anche – senza poterlo immaginare – quello dell’intero show. In quello che è partito come un episodio dalla vena quasi comica a causa della scena grottesca e divertente della riunione di Howard, sono tanti i segnali di un qualcosa che si sta irrimediabilmente dirigendo verso un punto di non ritorno, che appaiono ancor prima del finale scioccante della puntata. È da notare, infatti, che tutta la scena della riunione si svolge sotto lo sguardo di Chuck nel quadro appeso alla parete: la messa in ridicolo di Howard non si limita più alla dimensione del dispetto nei confronti di un collega indigesto, ma rappresenta ormai il totale abbandono da parte di Jimmy del rispetto e della dignità per quella professione di cui Chuck era divenuto il simbolo; l’ennesimo passo verso Saul Goodman a scapito di Jimmy McGill. È anche affascinante notare come questo oltrepassare i limiti riesca ad alimentare il rapporto fra Jimmy e Kim e ad accendere la passione in una coppia fra cui, nel passato, abbiamo visto ben poche effusioni.

Si diceva prima che l’intera stagione gioca molto sulla certezza dei personaggi di possedere il pieno controllo delle loro azioni e “Plan and Execution” dimostra con brutalità quanto si sbaglino. C’è una variante impazzita in questa stagione che, agendo nell’ombra, è destinata a scombinare ogni piano e a far crollare questa illusione: Lalo Salamanca, l’unico ad avere davvero il controllo del gioco. L’incontro con Margarethe Ziegler gli ha aperto la strada per scoprire i segreti di Gus, conducendolo infine a pochi passi dall’iconica lavanderia. Costretto ad accamparsi in una fogna, il villain si muove ormai letteralmente nel sottosuolo, aspettando con pazienza il primo passo falso di Gus e la prima occasione per attaccare. Un altro elemento che dimostra l’incredibile ossessione per i dettagli di Better Call Saul è l’espediente utilizzato nell’episodio per collegare Lalo a Jimmy e per il suo cambio di piano: ciò che permette a Lalo di ricordare l’avvocato è il passaggio di una cucaracha, la blatta che rimanda alla scena in cui, nell’ottavo episodio della quinta stagione, Lalo dice a Kim che Jimmy gli ricorda proprio questo animale.

Con questo minuscolo dettaglio, l’episodio ci conduce verso quei decisivi e scioccanti ultimi minuti che segnano non solo la tragica fine di Howard, ma anche la caduta repentina dell’intero show verso quello che sarà il suo atto finale, lasciandoci in uno scenario in cui i contorni che dividono Better Call Saul da Breaking Bad non sono mai stati così labili. Meravigliosa la scena finale della puntata, con l’intensa e bellissima interpretazione con cui Patrick Fabian saluta il suo Howard che, nella disperazione, non è mai apparso così autentico e umano.

Nel mettere a nudo le sue fragilità, gli ultimi momenti di Howard non fanno altro che dimostrare quanto quell’atteggiamento narcisistico e da “figlio di papà” con cui l’abbiamo conosciuto non sia altro che un filtro che nasconde una personalità complessa e tragica, che trova nel lavoro le soddisfazioni che non riesce più ad avere nella sua vita privata, costellata dalla depressione e da un matrimonio che sembra ormai finito. La sua disperazione finale non può che far sentire in colpa anche noi spettatori che, incantati dalle azioni di Jimmy, siamo stati i primi a giudicare frettolosamente il suo personaggio. E infine, con le parole con cui Howard descrive Jimmy e Kim, quella che è sempre apparsa come la persona più artificiosa e costruita dello show si rivela l’unica a descrivere le cose per quelle che sono davvero: Jimmy e Kim hanno ormai oltrepassato un limite morale che non trova più alcuna giustificazione razionale, ma che è ormai radicato nel loro inconscio e che guida silenziosamente ogni loro scelta. Ed è proprio il risultato delle loro scelte a condurre, infine, Howard alla morte.

L’entrata di Lalo nella stanza, anticipata dal danzare della fiamma della candela – espediente semplice quanto splendido nel rappresentare la tensione del momento – simbolizza anche la fine decisiva della linea di demarcazione che divide il mondo criminale di Lalo e il mondo di Jimmy e Kim. L’universo di Breaking Bad entra di prepotenza nella casa di Jimmy e l’assassinio così brutale di Howard ne sottolinea ancora di più l’irreversibilità e la tragicità. Il lavoro sopraffino fatto in “Plan and Execution” sta nel fatto che la brutale morte di Howard non è il frutto di un errore o di un caso: è la diretta – per quanto imprevedibile – conseguenza delle loro azioni, il risultato dell’attuazione perfetta del loro piano. Il titolo dell’episodio riassume in maniera sfacciatamente perfetta ciò che accade, mostrando come i piani di Jimmy, Kim e Lalo finiscano per collimare nella stessa esecuzione, quella di Howard. Le conseguenze di questo finale saranno indubbiamente immense, non solo per l’entrata in scena di Jimmy nella battaglia fra Lalo e Gus, ma anche e soprattutto per quelle che saranno le ripercussioni psicologiche di questo omicidio.

Sono innumerevoli gli scenari che possono aprirsi a seguito di questa scena. Saranno forse i sensi di colpa per la morte di Howard ad allontanare Kim e a separarla definitivamente da Jimmy? Oppure questo episodio non farà altro che spingere Kim con ancora più velocità in quel vortice in cui ha deciso di buttarsi nelle scorse puntate? La bellezza di questa serie ci ha insegnato che è davvero difficile riuscire a prevedere cosa accadrà, ma una cosa è certa: questo colpo di scena finale condizionerà drasticamente il destino dei nostri protagonisti.

La morte di una persona così innocente e lontana dagli intrighi criminali poggia la pietra tombale definitiva sopra quei Jimmy e Kim che abbiamo conosciuto nelle prime stagioni. Non è neanche un caso che il modo in cui Howard muore ricordi moltissimo la caduta di Chuck nel finale della seconda stagione: un dettaglio che sottolinea ancor di più la morte simbolica dell’innocenza di Jimmy e di tutto ciò che rappresentava il suo mondo prima di lasciare spazio a Saul.
Per concludere, “Plan and Execution” è un episodio decisivo che ci accompagna con maestria negli atti finali di uno show che continua a mantenere altissimo il suo livello. In un crescendo di tensione, questo mid-season finale non ha davvero nulla da invidiare a quello della serie madre. L’attesa per gli episodi finali sarà davvero snervante e le aspettative non possono che essere altissime perché Better Call Saul, fino ad ora, non ci ha davvero mai delusi.

Voto: 9
Better Call Saul – 6×08/09 Point and Shoot & Fun and Games
Better Call Saul ci aveva lasciato in balia degli eventi come l’ormai famosa fiamma dell’ancor più famosa candela che chiudeva “Plan and Execution” subito prima di una pausa che è sembrata interminabile. E ora eccoci qui, a riprendere da quel salotto pregno di quella tensione che ormai abbiamo imparato ad amare e ad odiare allo stesso tempo, con una situazione che ormai sta letteralmente precipitando a velocità supersonica. La domanda che ci siamo posti nelle lunghe settimane di attesa è stata: si può fare meglio di quanto visto finora? Sembra incredibile, ma probabilmente la risposta è sì.

“Point and Shoot” non poteva che iniziare con il classico cold opening che fa ormai da firma al prodotto di Vince Gilligan: capiamo quindi subito quale sarà la fine della storia di Howard, ovvero la messa in scena di un suicidio, ed era logicamente quella più percorribile, una classica risoluzione alla Mike. La forza di questa serie, non ci stancheremo mai di ripeterlo, sta anche in queste piccole cose che vengono rese grandi: far sparire il corpo e inscenare un suicidio era appunto la risoluzione più naturale delle cose, visto anche il piano di Saul e Kim, ma è come viene mostrata che fa tutta la differenza del mondo. La scena iniziale ribalta una risoluzione semplice e la fa diventare quasi poetica, inserendola alla perfezione nel clima di assoluto terrore e tensione che sappiamo arriverà di lì a breve.
E così ovviamente sarà: non c’è nessun inserimento lento nel cuore della puntata, il tutto ricomincia esattamente da dove lo avevamo lasciato, ovvero dalla candela e da tutto quello che è successo in quel soggiorno. Qui abbiamo un’altra prova fenomenale degli attori, specie di Bob Odenkirk e Rhea Seehorn – e ne avremo una ancora migliore, sembra impossibile ma è così – nel momento in cui Saul decide che è meglio che Kim esca di casa e si allontani da lì: il terrore nella voce, negli occhi e nello sguardo dei due è talmente reale e credibile da far venire la pelle d’oca. Visto che ormai siamo anche vicinissimi al raccordo con Breaking Bad, non mancano le citazioni: una su tutte, in questa puntata, è la scena in cui una Kim tremante e terrorizzata suona alla porta di Gus e aspetta con la pistola in mano. È chiaramente un rimando a Jesse e alla celeberrima scena dell’omicidio di Gale in “Full Measures”.

Se la prima parte di puntata è un raccordo con quella precedente e si focalizza su Saul e Kim, il cuore della puntata (e probabilmente il vero riferimento del titolo) è quello che succede tra Gus e Lalo: la definitiva resa dei conti tra i due. “Point and Shoot” è una puntata ricca d’azione, e infatti anche nello scontro finale tra i due villain l’adrenalina e la tensione non mancano di certo. Tutta la sequenza sembra muoversi con estrema cautela sul ciglio di un burrone: anche in questo caso sappiamo che Gus non può morire, e quindi il calcolo è presto fatto, ma come dicevamo prima è proprio in questi casi che si nota la grandezza della scrittura di questa serie tv. Sebbene questo sia uno spin-off e nonostante il pubblico conosca il destino di quasi tutti i personaggi principali, la curiosità di vedere cosa succede e di scoprire come verrà scritto è senza dubbio una delle più alte degli show degli ultimi anni. Sappiamo anche, grazie alla certosina costruzione delle puntate precedenti, che Gus utilizzerà la pistola che ha nascosto nel bunker, proprio per risolvere a suo favore un’eventualità del genere.
La decisione, poi, di seppellire Lalo e Howard nello stesso posto, proprio sotto al bunker che conosciamo bene, fa un certo effetto: sapere che per tutto quel tempo Walter e Jesse hanno lavorato sopra una specie di fossa comune – con dentro due protagonisti della storia, che hanno plasmato il destino per arrivare fino a lì – è un’altra di quelle piccole ma decisive scelte di scrittura che tolgono il fiato.

“Fun and Games“, al contrario della puntata che la precede, ha praticamente zero azione, ma si concentra sugli effetti di quello che è appena successo.
La prima parte serve per chiudere definitivamente il capitolo Lalo Salamanca, con la riunione del Cartello nell’ormai famoso giardino con piscina di Don Eladio. Qui Gus diventa definitivamente il nemico giurato di Hector Salamanca e si consolida come uomo di fiducia di Eladio; anche in questo caso la sequenza serve sì a chiudere in modo forse definitivo la storia su Lalo ma serve anche soprattutto per un contesto extradiegetico, ovvero l’ennesima citazione che ci fa capire quanto l’universo di Breaking Bad sia ormai alle porte: Gus Fring che si specchia nella piscina di Eladio, proprio nel punto in cui aveva visto morire il suo partner dell’epoca, Max Arciniega, assassinato brutalmente da Hector nel loro primo incontro.
Questa scena, che come si confà a Breaking Bad e Better Call Saul è molto più potente senza le parole che con, si lega indissolubilmente a quella che si svolge al ristorante, dove Gus intrattiene una piacevole discussione sul vino con il sommelier David. È uno dei rarissimi momenti, se non l’unico, in cui vediamo Gus rilassarsi e prendersi del tempo libero, addirittura facendoci intuire i suoi sentimenti. Questa sorta di coming out del personaggio di Gus sottolinea come l’amore, il voler legarsi a qualcuno e prendersi del tempo per se stessi sia praticamente impossibile, addirittura vietato da chi vive una vita come quella di Gus. Qui Giancarlo Esposito sfodera tutta la sua bravura con la mimica facciale: quando si accorge dell’errore che sta facendo la sua espressione cambia radicalmente, come se prima e dopo quel pensiero stessimo vedendo due personaggi completamente diversi.

E tutto questo è importante per due cose, principalmente: la prima, è che il dolore e l’amarezza di fondo che hanno sempre contraddistinto Better Call Saul qui emergono in tutta la loro tristezza nel far capire come non ci sia spazio per amare qualcuno, che l’empatia è una debolezza e la solitudine è l’unico rimedio per nuocere solo a se stessi e non agli altri.
La seconda, ancora più importante per quanto riguarda la trama, è che quello che succede a Gus è una sorta di antipasto di quello che stiamo per vedere succedere a Saul e Kim. L’enorme vuoto che ci lascia dentro tutta la sequenza del funerale di Howard è lo stesso cratere che lascia nell’anima di Kim: dover fingere in quel modo e soprattutto spingere la moglie del defunto a credere definitivamente alle voci sul marito, e quindi di fatto infangandone la memoria, è una delle cose più crudeli che abbiamo visto fare a un personaggio dello show.

Il dialogo che ne consegue tra Kim e Saul è uno dei picchi più alti dell’universo creato da Vince Gilligan e sicuramente il più alto toccato da queste sei stagioni di Better Call Saul. Non solo perché vediamo una delle coppie più belle della televisione implodere, ma perché la presa di coscienza di Kim è quanto di più toccante e drammatico potesse succedere. Quel “so what?” detto a Saul crea un vuoto che sarà impossibile da colmare: Saul è a tutti gli effetti un personaggio che incarna una tragicità senza eguali. La persona che ammirava di più – suo fratello – non ha mai creduto in lui, reputandolo sempre una mezza tacca, e la donna della sua vita gli dice che, ora che il divertimento non c’è più e si è trasformato in qualcosa di molto più nero e oscuro, il gioco finisce lì.
Non fatichiamo dunque a capire il salto temporale che la puntata compie sul finale e ora capiamo perfettamente come Saul Goodman sia diventato quel Saul Goodman, con quella casa e con quell’ufficio, che si sveglia in un letto degno dei peggiori motel con una prostituta. I giochi sono chiusi, il divertimento è finito: è ora che la situazione precipiti in modo definitivo.

Ormai non abbiamo più parole per descrivere questa serie. Se le stagioni precedenti andavano sempre più in crescendo lasciandoci piacevolmente sorpresi per uno spin-off di una delle serie tv migliori di tutti i tempi, questa sesta stagione sta ridefinendo i parametri del capolavoro. Se fino a oggi avevamo il dubbio – e anche un po’ il timore reverenziale – di pensare a Better Call Saul come a un prodotto forse anche migliore di Breaking Bad, dopo questi due episodi (e specialmente dopo l’ultimo), possiamo sbilanciarci un po’ di più: sì, Vince Gilligan si è clamorosamente superato.

Voto 6×08: 8½
Voto 6×09: 10

Note: questi sono i due episodi che riguardano l’attacco di cuore che ebbe un anno fa Bob Odenkirk. Come ha spiegato l’attore, il malore lo colpì proprio nella scena iniziale della 6×08, mentre Lalo spiegava alla coppia come comportarsi.
Better Call Saul – 6×10/11 Nippy & Breaking Bad
Con le precedenti puntate Better Call Saul ci ha guidati con maestria alla visione dei momenti cruciali che hanno permesso al protagonista di immergersi nel personaggio di Saul, portandoci infine a rivederlo sullo schermo così come l’abbiamo conosciuto in Breaking Bad. Ma adesso, alla luce di questo meraviglioso spin-off, la figura vivace e colorata dell’avvocato risveglia in noi un’amarezza che prima non potevamo avvertire, perché ora conosciamo bene la tragicità della sua persona e di tutto ciò che ha contribuito a costruire, pezzo dopo pezzo, Saul Goodman.

L’ultimo e il più decisivo dei passi verso questa direzione è stato, indubbiamente, l’addio di Kim e, di conseguenza, l’addio all’ultimo e unico legame emotivo davvero autentico di Jimmy. Con questa dolorosa separazione ha senso il dirigersi dello show verso la linea temporale di Breaking Bad e, soprattutto, verso l’inevitabile finale della serie. Come ben sappiamo, questo show non è mai stato un semplice corollario della serie madre: Better Call Saul si è distinto immediatamente, mostrando che il suo spessore non è definito solo dall’incredibile livello qualitativo messo in scena, ma anche e soprattutto da come è stato in grado di delineare ogni sfumatura del suo protagonista in questo suo scivolare inesorabile nel baratro di un destino tragico. Un destino che però – e sta qui l’enorme fascinazione di Jimmy/Saul/Gene – non si delinea come il risultato di una serie di avvenimenti che impattano sul personaggio senza che lui possa controllarli, ma come la conseguenza di scelte ben precise, svolte e percorsi del tutto consapevoli.
La tentazione, che ha perseguitato il protagonista fin dai tempi in cui era solo Slippin’ Jimmy, di cedere a quell’euforia che soltanto essere Saul Goodman gli dona, è sempre stata presente e ha modellato l’intera vita del protagonista. È tuttavia indubbio che gli eventi che accadono in Breaking Bad abbiano portato Saul a un punto di non ritorno, costringendolo a cambiare identità e a sotterrare l’animo dell’eccentrico avvocato sotto i panni del semplice Gene Takovic. Il percorso intrapreso dallo show in questi due episodi è allora quello di indagare più a fondo la figura di Gene, accompagnandoci negli eventi successivi a quelli di Breaking Bad, per scoprire che quella tentazione di cui si diceva prima non è affatto sparita.

È soprattutto in “Nippy” che esploriamo più a fondo la vita di Gene, di cui abbiamo avuto pochi e significativi accenni nel corso dello show. Quello di Gene è un futuro che la regia ha deciso di mostrarci in bianco e nero, probabilmente anche per enfatizzare la forzata quotidianità di questa nuova vita monotona, costellata da movimenti che si ripetono giorno dopo giorno. Quello che a un primo impatto sembra solo un uomo rassegnato e provato dai drammi avvenuti in passato, si dimostra ben presto come una semplice maschera incapace di contenere l’esplosività del fantasma di Saul Goodman.

L’incontro con Jeff che, in teoria, dovrebbe essere per Gene un pericolo, non fa altro che accendere in lui la possibilità di risvegliare Saul. È significativo che la serie mostri il cedere del protagonista alla tentazione di essere di nuovo Saul Goodman in un tempo i cui i fatti di Breaking Bad sono già accaduti, quindi in un tempo in cui Gene sa bene che essere Saul Goodman ha significato perdere davvero tutto. Nonostante quello che gli è successo e tutti i rischi che potrebbe incontrare, Gene non riesce a sopprimere gli istinti di Slippin’ Jimmy, anzi: li accoglie, perché è soltanto nei panni di Saul Goodman che è capace di sentirsi vivo. Nel guardarsi allo specchio, Gene è entusiasmato all’idea di rimettere in scena tutti i suoi trucchetti, dando slancio vitale a questa nuova esistenza noiosa e monotona. Alla luce di questo, Jeff allora non appare più come una minaccia, ma come una ghiotta opportunità che Gene coglie di buon grado, aprendo la strada alle tipiche macchinazioni di Saul e alle bellissime scene che vedono quest’ultimo conquistare la fiducia di Marion (la madre di Jeff interpretata da una brillante Carol Burnett) davanti agli occhi spaventati del figlio e ad organizzare il furto nel centro commerciale, girato oltretutto magistralmente.

Sappiamo bene quanto Saul sia in grado di manipolare le scelte degli altri, e non stupisce dunque vederlo manipolare Jeff con tanta facilità, ma le parole usate per convincere Jeff sono significative: la tentazione e l’euforia di entrare in quel gioco di cui parla il protagonista sono, in realtà, le motivazioni di Gene stesso. È lui a voler rientrare in gioco, spinto dalla mancanza di quello slancio vitale che soltanto essere Saul Goodman riesce a dargli. Il piacere che Gene prova nel rimettere in moto quei meccanismi arrugginiti che si attivano nei panni dell’avvocato è talmente forte da riuscire a mettere da parte il suo buon senso: il brivido del rischio di quel tipo di vita vissuta oltre i limiti della moralità è stato sempre preferito da Jimmy a scapito della sua razionalità e, talvolta, anche della sua incolumità. È questo un elemento del suo carattere che non è mai cambiato e che Chuck aveva già ben individuato in tempi non sospetti, quando credeva che il fratello non avrebbe mai potuto fare a meno di essere Slippin’ Jimmy.

Questa pulsione vitale e distruttiva che continua a plasmare la vita di Gene sembra incrementare sempre di più in “Breaking Bad”, il cui titolo gioca con gli eventi della serie madre, in particolare con quelli dell’ottava puntata della seconda stagione, ovviamente intitolata “Better Call Saul”. Questo episodio si farà indubbiamente ricordare, non solo per l’attesa partecipazione di Bryan Cranston e di Aaron Paul, ma soprattutto per la capacità mostrata dagli autori di destreggiarsi fra la timeline di Gene e quella di Breaking Bad.

È davvero incredibile il lavoro che la sceneggiatura e la regia sono riuscite a compiere qui: tutto ciò che ci viene mostrato, sia nelle scene su Gene, sia in quelle nella timeline di Breaking Bad, aiutano a mettere ancora più a fuoco le ragioni inconsce che si nascondono dietro i comportamenti meno comprensibili di Saul, riuscendo a incrementare ancora di più la complessità e lo spessore del protagonista, anche a soli due episodi dalla fine. Com’era da aspettarsi dal titolo, in “Breaking Bad” assistiamo al punto di maggior fusione fra le due serie, simboleggiato dal ritorno in carne ed ossa di Cranston e di Paul nei panni di Walter White e Jesse Pinkman. La scena relativa al loro peculiare incontro ha poco di davvero impattante sul percorso di Saul/Gene (dopotutto, questo è un’ulteriore segno dell’autonomia di Better Call Saul rispetto alla serie madre) e si configura principalmente come una sorta di tributo ai personaggi più iconici dell’universo di Gilligan ma, anche in questa scena dai toni apparentemente superficiali, possiamo cogliere un elemento significativo che si ricollega al tema affrontato in precedenza.

Nel conoscere Walt e Jesse, Saul è inevitabilmente ammirato dal loro lavoro e anche da quella ingenuità che li caratterizzava nella seconda stagione. In questa ammirazione nei loro confronti si insinua quella stessa pulsione indefinita che ha spinto Saul verso i comportamenti che tutti conosciamo, la stessa attrazione che lo porta a spingersi sempre al di là di ogni limite morale e razionale. Non è un caso, allora, se l’episodio si concentra su due momenti precisi appartenenti a due tempistiche diverse, ma ugualmente determinanti per il futuro di Saul/Gene: il primo ci mostra Saul ignorare i consigli di Mike per dirigersi da Walt di sua spontanea volontà, seguendo il richiamo di quella pulsione e innescando la discesa vertiginosa degli eventi di Breaking Bad; e il secondo, in cui Gene ignora gli avvertimenti di Jeff e del suo amico e decide di portare avanti il suo piano in prima persona per derubare l’uomo conosciuto al bar. Sappiamo bene l’entità delle conseguenze della scelta di Saul in Breaking Bad ed è facile aspettarsi adesso delle conseguenze altrettanto decisive.

Il fatto che anche l’uomo conosciuto al bar abbia il cancro è un dettaglio senza dubbio importante, ma è impossibile considerare questa svolta ancora più spericolata di Gene senza pensare alla scena più significativa dell’episodio, e cioè quella telefonata con Kim di cui non abbiamo potuto udire nulla, ma di cui abbiamo potuto osservare la reazione spropositata di Gene, la cui intensità è stata solo l’ennesima dimostrazione della bravura immensa di Bob Odenkirk.

Dopotutto, anche se conosciamo le modalità con cui i due si sono separati, non sappiamo ancora nulla del destino di Kim. Non possiamo neanche essere sicuri che Gene stesse effettivamente parlando con lei; è possibile che quella rabbia sia dovuta alla frustrazione per non essere riuscito a parlarle, oppure per una qualche notizia ricevuta da terze parti. Insomma, le possibilità sono tante, ma l’unica cosa certa è che il contenuto di quella telefonata ha sconvolto Gene oltre ogni misura, portandolo non solo a ricadere nei trucchetti di Saul, ma anche a diventare totalmente incurante del pericolo in un modo in cui non l’abbiamo mai visto prima. La differenza, in questo senso, rispetto a “Nippy” non può essere più netta: se lì abbiamo visto Gene andare in panico e prendersi dei secondi per riprendere fiato dopo il rischio di essere scoperto, qui invece abbiamo una sconsideratezza del tutto nuova che porta Gene a irrompere della casa della sua vittima senza neanche preoccuparsi di nascondere le sue tracce, quasi come se volesse essere scoperto.

Per concludere, questi due episodi confermano l’incredibile qualità della serie, donandoci nuove prospettive e dettagli che ci hanno permesso di aggiungere elementi nuovi alla complessa personalità di Saul. Se “Nippy” ha delineato con più chiarezza il futuro scolorito della quotidianità di Gene, “Breaking Bad” ha portato Better Call Saul al punto di vicinanza massimo con la serie madre, mettendo in scena un episodio i cui innesti tra un universo e l’altro sono stati gestiti con una maestria incredibile, e in cui tutto è stato preparato al meglio per gli episodi finali. Ci troviamo ormai davvero agli sgoccioli di uno show che ci ha sempre stupiti per la capacità di superarsi in continuazione, anche quando pensavamo che non potesse essere possibile. Non ci resta che tenerci forti per i suoi ultimissimi episodi: le aspettative sono alle stelle.

Voto 6×10: 8½
Voto 6×11: 9½
Better Call Saul – 6×12/13 Waterworks & Saul Gone
Opportunità. Intorno a questo concetto negli ultimi quindici anni Vince Gilligan e Peter Gould hanno lavorato a fondo per costruire due personalità complesse e quelle di chi li circondava. “L’opportunità, l’occasione, fanno l’uomo ladro?”, ci si potrebbe chiedere richiamando il celebre detto: i modi in cui gli autori hanno risposto creando Walter White e Saul Goodman hanno diversi punti in comune ma soprattutto un oceano di differenze, dovute in gran parte al periodo in cui Breaking Bad e Better Call Saul sono nate e si sono sviluppate. “Waterworks” e “Saul Gone” chiudono la sesta e ultima stagione del prequel più riuscito della serialità e lo fanno portando a compimento il lavoro costruito proprio attorno a questo concetto: non tanto la domanda se l’opportunità cambi o meno le persone (lo sappiamo già), quanto ciò che avviene quando questo accade e se la rotta si possa invertire o se esista un termine oltre il quale ogni speranza è perduta.

Walter White era un anonimo professore di chimica quando una diagnosi lo mise nella condizione di rivedere le sue priorità morali e di cogliere l’opportunità di provvedere alla sua famiglia compiendo azioni a cui mai avrebbe pensato prima; il punto però divenne un altro, quando, nel processo che lo aveva portato a diventare Heisenberg, acquisì sempre maggior consapevolezza del suo potere, sempre più gusto nel rivestire i panni di un uomo che per la prima volta nella sua vita non subiva ma dettava legge.
Proprio nel finale di serie troviamo la sua completa ammissione (“I did it for me. I liked it. I was good at it”), senza alcun rimorso per quel cambio radicale di vita avvenuto attraverso la sua stessa trasformazione – una sorta di reincarnazione senza possibilità di recupero.

Non stupisce questo genere di parabola, soprattutto se si considera Walter White come uno dei più famosi antieroi della TV: una figura che ad oggi è stata ampiamente superata in favore di personaggi più variegati, “contenenti moltitudini” – per citare il poeta Walt Whitman che ben conosciamo –, ma che è stata senza alcun dubbio necessaria nella serialità per passare da personaggi buoni o cattivi, in una divisione manichea senza possibilità di appello, a figure in grado di essere entrambe le cose.
“Il cattivo che amiamo odiare” è stato un riferimento nella narrazione degli ultimi venticinque anni, da Tony Soprano in giù: poi i tempi sono cambiati, o semplicemente questo modus narrandi ha esaurito il suo corso. Ed è sorprendente che siano stati gli stessi due autori (Gilligan, ideatore di entrambe le serie; Gould, sceneggiatore e produttore di Breaking Bad, creatore di Better Call Saul insieme al collega) a renderci partecipi di un’evoluzione della televisione che ha saputo seguire i tempi, cogliere le necessità di cambiamento nella narrazione contemporanea e restituirci un personaggio che sì, nasce nell’universo della prima serie, ma che con l’autonomia della seconda ne mostra una naturale e mai forzata evoluzione.

Con Saul Goodman, la più nota e importante delle maschere di Jimmy McGill, non abbiamo dovuto scoprire se quello che faceva gli piacesse o meno, se si stesse divertendo: l’abbiamo sempre saputo perché ce l’ha sbattuto in faccia a ogni occasione, ostentando la sua ricchezza e la sua “genialità al servizio del male” senza che ci fossero dubbi a riguardo, fino a diventare il “comic relief” della serie madre. Partire da qui e decidere di scavare dentro a un personaggio come questo vuol dire fare un lavoro a ritroso per ritrovare le radici dell’individuo, per capire quali sono stati gli eventi, gli incontri, i traumi che l’hanno portato a essere quella persona: quella da chiamare quando si è nei guai.

Non solo: Gilligan e Gould hanno capito che per spiegare il personaggio di Saul non serviva solo tornare indietro, ma anche andare avanti, perché la sua parabola non era affatto conclusa con Breaking Bad. La decisione è stata presa da subito: il pilot della serie si apre infatti con Gene Takovic in un futuro non ben identificato in cui il suo passato rimane l’unica cosa colorata nella sua vita. Il riflesso a colori sulle lenti degli occhiali alla fine di “Waterworks” è un rimando al pilot proprio in questo senso: se allora le pubblicità di Saul rappresentavano uno sguardo nostalgico a quando le cose per lui andavano bene, nel penultimo episodio quel ritorno di colore si trasforma in un’intromissione non voluta, nel momento e nel posto sbagliato.

Per capire chi è Saul Goodman si è tornati indietro a quando Saul non era neanche nato: abbiamo fatto conoscenza con Jimmy McGill, abbiamo scoperto che prima ancora era stato Slippin’ Jimmy, ma soprattutto ci siamo confrontati con un uomo mosso sin dall’inizio da un motore più grande di lui. Le insicurezze, i sogni più grandi delle sue tasche, la mente geniale incapace tuttavia di reggere il confronto con un fratello come Chuck, sono stati l’innesco da cui è partito tutto, il fuoco lento sopra al quale si sono create tutte le sue evoluzioni.
Jimmy cresce come persona adulta che non solo deve dimostrare tutti i giorni a se stesso di valere, ma che soprattutto necessita di qualcuno che gliene dia atto, che lo faccia sentire validato in questo sforzo: qualcuno che lo veda, che gli riconosca ciò che fa e come lo fa. Del resto, che cos’è l’ostentazione pacchiana che caratterizza Saul Goodman se non un modo di urlare al mondo: “Ce l’ho fatta, ho tutto quello che voglio: guardatemi e riconoscetelo”?

Have a nice life, Kim.

C’è stato un tempo in cui gli bastava che una sola persona lo vedesse: la sua complice, compagna, moglie e amica Kim Wexler, il cui sguardo di riconoscimento era sufficiente per farlo sentire vivo. La decisione di Kim di lasciarlo apre un vuoto talmente grande che l’unico modo per (provare a) riempirlo diventa l’eccesso, lo sfarzo, l’avidità e la mancanza di scrupoli, come quella che lo porta ad approfittare non di una ma di ben due persone malate di tumore.
Il dolore negli occhi di Saul davanti ai documenti del divorzio, mostrato nel cold open di “Waterworks”, è una vulnerabilità che Kim non ha più il diritto di vedere; l’unica cosa che lei può osservare è quello che ora lo fa sentire vivo al posto suo: la ricchezza, la sicurezza, quello che ha costruito senza di lei, come a dirle che ha trovato un surrogato del suo amore e che funziona anche bene.
Sappiamo che Saul non parla mai di Kim in Breaking Bad perché non esisteva, ma dopo questa scena è perfettamente comprensibile che lui non abbia più voluto menzionarla, perché il dolore era troppo grande e perché si illudeva di aver trovato un altro modo per sentirsi come lei lo faceva sentire.

La “buona vita” augurata a Kim si rivela completamente diversa da quella che ci si aspettava: trasferitasi in Florida, con un lavoro d’ufficio, una vita da città di provincia e un compagno noioso, Kim si è con ogni evidenza autoreclusa in una prigione a cielo aperto, un mondo in cui è vietato tutto ciò che può darle soddisfazione o divertimento. Sarebbe facile vederla come punizione che si autoassegna per la morte di Howard, ma la realtà è che Kim sa quanto sia facile per lei passare dal divertirsi al vedere all’improvviso un’altra parte di sé, quella che “è sempre stata lì” da quando era ragazzina, tanto quanto Slippin’ Jimmy è sempre stato nell’ombra di Saul. Una parte di lei che riconosce come potenzialmente pericolosa e che dunque vuole tenere lontana, ma della cui portata non è neanche minimamente consapevole.

Ognuno è artefice del proprio destino, è vero, ma è altrettanto vero che senza Kim non sarebbe nato Saul: l’abbiamo visto accadere quando temevamo che l’influenza di lui avrebbe danneggiato lei, ne siamo rimasti stupefatti quando abbiamo capito che le cose stavano andando nella direzione opposta. Se c’è della genialità nel lavoro di Gilligan e Gould sta nell’essersi inventati un personaggio che non era mai stato previsto prima e averlo reso credibilmente indispensabile per la creazione del protagonista. Non solo: esattamente come Saul Goodman rappresenta l’evoluzione dell’antieroe à la Walter White, Kim Wexler risulta uno dei personaggi femminili meglio scritti degli ultimi decenni proprio grazie a chi l’ha preceduta. La sua costruzione dimostra non solo come nella serialità la scrittura delle figure femminili si sia evoluta, ma anche come le critiche ricevute su Skyler White (giuste o sbagliate che fossero, dicevano una cosa chiara: il pubblico non l’ha amata) abbiano spinto gli autori a creare un personaggio assolutamente indimenticabile, anche perché supportato dalla performance eccezionale di Rhea Seehorn.

È Kim il motore propulsore delle scelte di Jimmy, e questo proprio per il ruolo che lui le ha attribuito nella sua vita. Ogni decisione della donna porta l’uomo a reagire in maniera uguale o opposta ma mai neutrale, perché è da come Kim guarda Jimmy (o da come lui crede che lei lo guardi) che lui decide cosa fare della sua vita.
É sotto la sua influenza che crea il personaggio di Saul; è grazie al suo supporto e al reciproco spalleggiamento che porta avanti il suo comportamento truffaldino; è quando lei lo lascia che lui si trasforma definitivamente in Saul Goodman; ed è quando ci litiga al telefono che decide, nelle vesti di Gene, di tornare a truffare le persone.

“You want me to say something?”
“Yeah.”
“You should turn yourself in.”


Nel penultimo episodio sentiamo finalmente la famosa telefonata, chiarificatrice per i comportamenti di entrambi: come si diceva, a seguito della reazione di Kim Gene torna in azione, disegnando una serie di passi, tipici del suo comportamento, che lo portano a essere scoperto – fermarsi nella casa dell’uomo truffato quando Jeff è già fuori col taxi ad aspettarlo è ciò che innesca, come in un domino, tutti quegli eventi che porteranno Marion a stanarlo usando peraltro quelle conoscenze del web che le sono state insegnate proprio da Gene.
D’altro canto, Kim stessa subisce le conseguenze di quella telefonata: la reazione di Jimmy, che le rinfaccia di predicare bene e razzolare male, la spinge ad affrontare le sue responsabilità, confessando tutto alla polizia e alla stessa Cheryl, con tutti i rischi che questo può comportare. Sarà esattamente questa scelta a cambiare, di nuovo e per sempre, la vita di Jimmy nel series finale: ma ci arriveremo.
La confessione di Kim, il suo pianto doloroso e al contempo liberatorio sul pullman, sono la miccia per provare a far ripartire la sua vita: torna a piccoli passi indietro, ripresentandosi nel vecchio studio di Saul e proponendosi per un lavoro volontario di assistenza legale. Ora che non sente più l’obbligo di punirsi, può forse tornare a vivere qualcosa che le dia soddisfazione, vedere l’effetto che le farà e se sarà in grado di gestirlo.

Ma non è solo questo che porta Gene alla fuga e dunque all’arresto. Jimmy si trova davanti a una possibilità e per un attimo la sfiora: è lui, da solo, davanti a una donna anziana che potrebbe uccidere senza grosse difficoltà. Solo che Marion gli dice una cosa, un “mi fidavo di te” che funziona da incantesimo senza che lei nemmeno lo sappia. Forse è perché quella frase arriva da una persona anziana, che gli ricorda i clienti della causa SandPiper ma al contempo anche Chuck, forse è perché la fiducia per lui è una cosa importante (vuol dire che qualcuno lo ha visto, lo ha riconosciuto, ha creduto in lui): forse è per tutti questi motivi insieme, che affondano le radici nelle insicurezze di Jimmy e di tutte le sue maschere, che nessuna delle sue personalità riesce a fargli cogliere quella opportunità di salvarsi.
Walter guardò Jane morire senza fare nulla per impedirlo, e questo fu uno dei momenti capitali che segnarono la sua discesa agli inferi; ma Jimmy non è Walter, Jimmy è un concentrato di manie di grandezza e complessi di inferiorità la cui commistione genera esiti ora prevedibili, ora sorprendenti, in ogni caso vagliati di volta in volta. Jimmy e tutte le sue maschere sanno che la sua vita vale, ma non quanto l’omicidio di una donna anziana che ha creduto in lui.

“S’all good, man!”
“S’all gone”


“Saul Gone” è il titolo del series finale, che gioca con la nascita del nome Saul Goodman per dirci che “it’s all gone”, è finito tutto, per sempre. Ma c’è modo e modo per uscire di scena: laddove Walter White morì di una morte tragica e necessaria, larger than life come era stato il suo Heisenberg, la fine di Saul non poteva che essere come la sua personalità: sorprendente a tratti, ricca di emotività e vulnerabilità, geniale e scapestrata.

Quello che non potevamo sapere era la risposta a quella questione iniziale: è possibile invertire la rotta? Oppure ciò che si è stati, ciò che si è diventati facendo di necessità virtù (e di opportunità un vizio) a un certo punto finisce con l’aderire completamente al nostro destino?
I tre flashback che punteggiano l’ultimo episodio viaggiano tutti attorno al medesimo concetto, che non è la macchina del tempo di per sé, ma qualcosa di più sottile. Jimmy tornerebbe indietro solo per soldi non perché non abbia neanche un rimpianto, ma perché non riesce nemmeno a individuare un momento del suo passato che possa cambiare il presente; perché quell’insicurezza, da cui sono nati Slippin’ Jimmy e gli altri, è sempre stata lì. È questo il senso di tutti e tre i momenti nel passato: quello con Mike (“That’s it. Money?” “What else?”), quello con Walter (“So you were always like this”), e infine quello con Chuck, preconizzato dall’intervento a lui dedicato durante la confessione e da quella scritta “Exit” che rimanda alla schermaglia in tribunale di “Chicanery”. Se nei primi due flashback il confronto lo porta a vedersi con gli occhi degli altri – un uomo che pensa solo ai soldi, che non è mai stato diverso da così –, è nell’incontro col fratello che ne comprendiamo il senso. In un raro momento di conversazione onesta da parte di Chuck, il suggerimento sul “tornare indietro e cambiare strada senza vergogna” viene rispedito al mittente, e questo per una ragione sola: perché Jimmy non ha idea del punto a cui dovrebbe risalire per non essere quella persona, per non avere più quel coping mechanism, quella strategia adattiva che lo caratterizza da quando ha memoria.
Ma forse c’è una strada: e se c’è, non può che essere quella che conduce a Kim.

I was terrified… but not for long.
That night, I saw opportunity.

Quando Jimmy viene arrestato, il suo primo pensiero va a chi si è fidato di lui: chiama il negozio e si accerta che la sua assenza non causi danni ai colleghi. Sembra una scena da poco, ma rappresenta di nuovo quello che si diceva prima, cioè quanto Jimmy sia una persona capace di fregare chiunque ma mai chi gli dà una possibilità accettandolo per quello che è.
Dopo un momento di crisi, si decide a chiamare come consulente legale il suo storico avversario in tribunale, Bill Oakley, e supportato da lui mette in scena la sua magia: da un ergastolo più altri 190 anni, Saul riesce a scendere fino a sette anni e mezzo, nonostante davanti ai suoi occhi abbia Marie Schrader, una sorpresa inaspettata ma perfettamente centrata, con una Betsy Brandt che sembra non aver mai smesso i panni di Marie. Jimmy non racconta bugie fattuali su quanto accaduto, la descrizione di come ha conosciuto Walter e Jesse è onesta: ma fare la parte della vittima gli riesce benissimo ed è così che le cose per lui sembrano cambiare. Arriva a una pena ridicola con la sola forza delle sue capacità oratorie, la sua conoscenza della legge ma soprattutto quella delle dinamiche personali e professionali che governano il mondo legale. È così che convince il procuratore Castellano a dargli retta ed è così che, proprio quando ormai si sta divertendo a distribuire prove per ottenere qualsiasi cosa, scopre che la sua rivelazione su Howard vale meno del gelato menta e cioccolato che aveva richiesto, perché Kim ha parlato.
E questo cambia tutte le carte in tavola.

Per anni Kim è stata come lui, quantomeno nella sua testa: entrambi colpevoli, entrambi in fuga dalle proprie responsabilità, si erano infine costruiti una prigione a testa – lei in Florida a vivere una vita letteralmente in bianco e nero, lui con l’ennesima nuova identità. Ma la confessione del suo ruolo nella morte di Howard li separa nettamente in due universi morali diversi; una volta liberatasi dal suo peso morale, come potrà Kim anche solo rispondergli al telefono, sapendo che lui invece l’ha fatta franca, e per ben altri reati?

Insomma, sembra pensare Jimmy: è meglio uscire dopo sette anni ritrovandosi di nuovo solo a costruirsi l’ennesima prigione di solitudine, o vivere il resto della vita in una prigione concreta ma con il perdono di Kim e la coesistenza nello stesso universo morale? Per Jimmy la domanda non si pone nemmeno.
Non è un discorso di pragmatica etica, non risponde a un “cosa mi conviene per sentirmi meglio”, ma alla necessità di un radicale cambio di prospettiva: se non posso cambiare il passato, posso però fermarmi; posso riguadagnarmi la fiducia della persona a cui tengo di più, anche a costo di vivere in due mondi paralleli per il resto delle nostre vite – ma almeno in comunicazione nello stesso universo.

Jimmy usa tutti i trucchi di Saul per quel giorno in tribunale: l’abito, le menzogne su Kim per averla lì, il discorsino sull’incontro con Walter e Jesse praticamente identico a quello ripetuto davanti a Marie. Ma poi interviene la scelta: Jimmy coglie l’opportunità di cambiare vita, e non sarà quella che aveva sognato, ma di sicuro sarà più leggera. Lo capiamo dalla sua necessità di riappropriarsi di tutto, delle sue responsabilità, del suo godimento in tutta la storia, del suo essere stato indispensabile per la trasformazione di Walter White in Heisenberg, della differenza tra lui e Kim e persino del suo ruolo nell’aver condotto Chuck al suicidio, qualcosa che non c’entrava assolutamente nulla col caso in tribunale – ma era ormai chiaro da un pezzo che quella confessione non era per nessuno se non per Kim.
E infine si riappropria del nome, chiede di essere chiamato Jimmy McGill. Come in qualunque legge del contrappasso che si rispetti, è proprio quando lascia andare Saul Goodman che questi torna a tallonarlo: è sul pullman verso il carcere che “una giuria di suoi pari” invoca il suo nome – criminali che esaltano un altro criminale – e sarà proprio in prigione che svilupperà evidenti ottimi rapporti con tutti rispondendo però al nome di Saul, che gli rimarrà addosso come una punizione divina.

“You had them down to seven years.”
“Yeah, I did.”

C’è sicuramente qualcosa di molto poetico nel rimando finale a quella inquadratura del pilot, in cui Jimmy e Kim condividevano una sigaretta illuminati da un taglio di luce; e c’è, di nuovo, del colore a ricordarci che qualcosa del passato rimane, in quella sigaretta accesa che rifugge da qualsiasi bianco e nero. Il riconoscimento di Kim della sua bravura in tribunale è tutto quello di cui Jimmy ha bisogno, e lo si vede nello sguardo finalmente sereno di un Bob Odenkirk straordinario. Ma la vera inquadratura che rappresenta il discorso fatto finora è quella che li vede dalle due parti opposte delle recinzioni: due mondi separati e paralleli, destinati a non incontrarsi più, ma che perlomeno possono vedersi, salutarsi, provare ancora rispetto e riconoscimento l’uno per l’altra.
E se per raggiungere questo è stato necessario finire in prigione per il resto della sua vita, così sia: è stata l’opportunità che Jimmy ha deciso di cogliere. Se all’inizio di Better Call Saul non si faceva altro che rimarcare la sua natura di “spin-off eccezionale”, che dipendeva da un prodotto inarrivabile e che ciononostante stava facendo un ottimo lavoro, col passare del tempo l’allievo ha cominciato a insidiare il maestro. La discussione si è quindi spostata, tra pubblico e critica, su una specie di gara in cui ora questi, ora quelli, hanno ribadito le loro ragioni per cui una serie dovesse rimanere la migliore o dovesse diventarlo l’altra.

Classificare è tremendamente umano, ma è un’operazione che non può fare a meno di essere influenzata dalla soggettività e dal qui e ora: ciò che Breaking Bad ha fatto a suo tempo è stato straordinario, e ciò che ha fatto Better Call Saul negli ultimi anni lo è stato altrettanto, riuscendo a superare la serie madre per molte cose per il semplice fatto che ci si evolve e si può sempre fare di meglio, sfruttando al contempo l’universo di partenza di uno show che ha fatto la Storia della TV e quindi partendo sicuramente avvantaggiato.
Forse l’unica cosa su cui dovremmo soffermarci è la capacità di due autori (e di varie writers’ room) di produrre in quindici anni un capolavoro e uno spin-off d’eccellenza riuscendo a parlare sempre con lo stesso codice, ma al contempo cambiandolo e costruendo per la seconda volta personaggi memorabili e sempre più realistici. Si potrebbe parlare per ore del cast, degli easter egg, dei collegamenti geniali tra i due show, che mostrano come ci voglia un’attenzione al dettaglio esemplare se si vuole puntare alle stelle. Quello che ci basta è aver avuto un finale all’altezza di una serie incredibile e di una stagione eccellente, con un cast di livello altissimo e una storia che ha prodotto una delle migliori coppie che la televisione abbia mai conosciuto.

Voto 6×12: 9
Voto 6×13: 10
Voto Stagione: 9
Voto Serie: 8½
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