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Mindhunter – Stagione 1
Mindhunter è una di quelle serie che alimentano costantemente il dibattito su cosa la televisione stia diventando di recente: per il coinvolgimento di un mostro sacro come David Fincher, certo, ma anche per l’impostazione narrativa, per la capacità di destrutturare tantissime regole di genere, portandolo un passo in avanti senza tradirne lo spirito di fondo. È un progetto che, su carta, era molto difficile venisse rifiutato da Netflix, ma che date le sue ambizioni nascondeva ben più di un’insidia nell’esecuzione.

Conclusa questa prima stagione, si può dire che il fascino iniziale non è per nulla scemato, e forse questo si può collegare alle molteplici anime che caratterizzano lo show, tutte riconducibili allo stile e alla poetica di un autore come Fincher: e si parla dell’ovvia ossessione per il crimine e le sue fondamenta, alla base del suo primo classico Se7en; della capacità di estendere un racconto di ampio respiro all’epoca in cui viene inserito, rendendola componente imprescindibile per la comprensione dei fatti – e qui si pensa, invece, a Zodiac; ma si parla anche, in maniera sorprendente, del percorso di evoluzione e crescita turbolenta affrontato egregiamente in The Social Network e che si fa tema portante della conclusione di questo primo ciclo di episodi (il secondo è già stato confermato da Netflix). Siamo di fronte, quindi, ad un prodotto più variegato ed ambizioso di quanto si potesse immaginare anche dopo aver raggiunto la prima metà di stagione: una caratteristica che avrebbe causato una quantità di problemi non indifferente sotto diverse mani, ma che in questo caso riesce, nonostante alcuni passi falsi, a sfruttare la sua capacità di cambiare forma rendendola un grande punto di forza.

Il pregio della serie agli inizi era senza dubbio la sua capacità di rielaborare il procedurale secondo un modello tutto suo. I primi episodi (soprattutto dal secondo al quinto) sono tra i più riusciti della stagione nella costruzione di uno stile accostabile al noir e al procedurale ma che, al contempo, sviluppa un’identità ben precisa, che fugge le tentazioni dei polizieschi più tradizionali per concentrarsi sull’introspezione e la definizione delle atmosfere. Non passa molto, infatti, prima che ci si renda conto che il cuore pulsante di Mindhunter sono le conversazioni, semplicemente una manciata di personaggi in una stanza che si affrontano e si sviscerano a vicenda, lasciando nell’angolo la parte più abusata e trattata del genere nel corso degli anni: la risoluzione del caso. La dimensione narrativa, in questo senso, svolge la componente più mystery della ricerca del colpevole in maniera quasi marginale, liberando i casi dalla loro dimensione verticale (nel senso che vengono presentati e risolti spesso in poche puntate) e analizzandoli soprattutto per le loro implicazioni riguardo la percezione degli omicidi e dei serial killer nell’America degli anni Settanta.
L’aspetto più interessante della prima parte di stagione sta appunto nella capacità degli autori di deviare dai metodi già visti e rivisti nel poliziesco tradizionale per raccontare un’epoca e un modo di pensare, ed in particolare l’effetto sconvolgente che la nascita di una perversione così mostruosa e sorprendente ha provocato sulle piccole ed isolate comunità locali. Sono diversi i casi in cui i problemi che nascono nella serie di interrogatori o di indagini sono soprattutto dovuti all’incapacità di accettare che il marcio è presente all’interno della propria piccola cittadina, problemi a cui viene affiancata intelligentemente la difficoltà del team di comunicare con chi è inesperto nel settore. E non si parla solo di Holden che fatica a catturare l’attenzione del gruppo di polizia locale, ma anche della difficoltà ad interagire con il procuratore convincendolo del reale pericolo del cognato del colpevole, considerando che in realtà l’omicidio è stato fisicamente commesso dal più innocuo dei due.

Se la prima parte convince soprattutto per la sua profondità nella scrittura e la capacità di evitare alcuni percorsi fin troppo ricorrenti, la volontà di ampliare il racconto toccando altri temi porta ad alcuni piccoli scivoloni nella fase centrale dell’annata, in particolare dal sesto all’ottavo episodio. E si parla, soprattutto, del maggior peso che viene attribuito a delle storyline personali meno interessanti ed ispirate della parte delle indagini, a partire della vita a Boston della dottoressa Carr per arrivare alla storia tra Holden e Debbie, fin troppo prevedibile e già vista per suscitare lo stesso interesse della linea narrativa principale. Quando, quindi, queste dimensioni vengono approfondite assumendo un peso quasi centrale, il ritmo del racconto ne risente e inciampa in qualche banalità nella scrittura decisamente evitabile (con l’eccezione della parte su Bill, nettamente la più riuscita in questo senso), anche se fortunatamente la ripresa sul finale riesce e riportare il tutto sulla giusta strada. E la parte più interessante di questo recupero sta nel fatto che non si decide di tornare ai temi iniziali, ma anzi viene approfondita la componente più introspettiva e rivolta verso l’evoluzione dei protagonisti per trasformare il personaggio di Jonathan Groff in maniera ambigua e splendidamente inquietante, sfruttando la stessa passione e lo zelo che avevano suscitato l’empatia dello spettatore per renderlo invece disgustoso e ripugnante nei suoi metodi. Ed è qui che l’interpretazione di Groff, inizialmente forse un po’ contenuta e dal sapore incerto, si rivela nella sua altissima qualità, una qualità che si avvale anche della scelta di casting perfetta operata da Fincher in persona.

È proprio nella forte presenza di David Fincher, che ha diretto i primi due episodi e gli ultimi due della stagione, che lo show trova uno dei suoi più grandi punti di forza. Il perfezionismo e lo stile visivo riconoscibilissimo per cui l’autore è famoso si integrano perfettamente coi temi trattati dalla serie, trasformando sequenze come l’interrogatorio di Ed Kemper nel secondo episodio in dei piccoli capolavori di regia che si nutrono dell’atmosfera ambigua ed inquietante della serie come se fosse uno dei tanti noir già diretti da Fincher. La serie ha i suoi occasionali (e mai invadenti) problemi di scrittura, ma sono tutti ben bilanciati da una qualità visiva dal sapore tutto cinematografico, sfruttando il formato del binge-watching (a cui si presta benissimo) per scorrere davvero come un lungometraggio di dieci ore, in cui si riesce a mantenere una certa continuità nonostante il cambio di registi (che, pur senza mai arrivare al livello di Fincher, si rivelano decisamente all’altezza del lavoro). Interessante, inoltre, come le ispirazioni del grande schermo nella serie vengano tutte declinate secondo il taglio più nuovo e diverso che il creatore Joe Penhall ha deciso di darle, ispirandosi per certi versi a prodotti come Se7en o The Silence of the Lambs ma parlando in questo caso di realtà più vicine e meno eccezionali, costringendo chi sta dietro la macchina da presa a dirigere le sequenze degli interrogatori non solo con l’obiettivo di esporre le motivazioni dei serial killer, ma anche con quello di capirle; ed è proprio l’empatia e la comprensione nei confronti dei soggetti analizzati che rendono Mindhunter un passo avanti nel genere in cui mette piede, un processo che raramente è stato affrontato con una tale cura in televisione.

Questa prima stagione, quindi, riesce a qualificare la serie come un interessantissimo unicum nell’offerta di Netflix e nel panorama televisivo di quest’anno in generale. Mindhunter è uno show per tanti versi molto vicino al cinema e soprattutto a quello di David Fincher, un cinema che vive di interpretazioni, di immagini e di atmosfere, ma è anche una serie che si inserisce in un genere televisivo riuscendo a rielaborarlo, passando oltre i piccoli difetti e tenendo testa alle alte aspettative che la circondavano.

Voto: 8+
Mindhunter – Stagione 2
Si è parlato molto bene della prima stagione di Mindhunter, un progetto ambizioso che intende raccontare la nascita della psicologia criminale e del profiling di serial killer attraverso una trama che mescola realtà e fiction; ambizione che viene confermata anche dai nomi altisonanti alle sue spalle – in primis quello di David Fincher alla regia e Charlize Theron in veste di produttrice esecutiva – e dal particolare stile visivo e narrativo che hanno portato lo show ad essere uno dei più apprezzati della piattaforma Netflix.

Il primo ciclo di episodi aveva puntato molto sulle figure dei due protagonisti, gli agenti dell’FBI Holden Ford (Jonathan Groff) e Bill Tench (Holt McCallany), sbilanciandosi decisamente verso il primo, più giovane, più intraprendente e con un carattere riservato e a dir poco ambiguo che ultimamente va molto di moda nella scrittura dei personaggi maschili in tv. Ovviamente un ruolo di primissimo piano lo hanno avuto i soggetti che Holden e Bill andavano a intervistare: i serial killer hanno da sempre un fascino particolare nell’immaginario collettivo, figure di criminali razionali delle quali si vuole scandagliare la mente per andare a individuare le ragioni profonde che li spingono a cercare le loro vittime. È proprio questo uno dei motivi del successo della prima stagione di Mindhunter, trascinata, oltre che da un cast molto valido, anche e soprattutto dalla gestione dei dialoghi e del confronto con i “mostri” dei quali lo spettatore è avido di conoscere ogni dettaglio. Non per niente una delle strategie pubblicitarie più usate da Netflix per promuovere il secondo ciclo di episodi è stata quella di sottolineare la presenza di uno degli psicopatici più noti del ventesimo secolo, Charles Manson, un nome che non ha certo bisogno di presentazioni.

La trama della stagione riprende esattamente da dove era terminata la precedente, con il crollo psicologico di Holden Ford causato dal rapporto pericoloso che l’agente aveva instaurato con Ed Kemper, il killer delle studentesse. La struttura narrativa, tuttavia, parte nuovamente concentrandosi sul più giovane dei due agenti ma, con grande sorpresa, lo mette lentamente sempre più in disparte per focalizzarsi su Bill e sulle difficoltà che affronta barcamenandosi tra le disgrazie familiari e un lavoro che mette a dura prova la sua tenuta psicologica. Sullo sfondo si assiste ad una piccola rivoluzione in seno ai ruoli di comando a Langley e ad una sottotrama relativa ad approfondire Wendy (Anna Torv) e la sua vita privata, interessante per il personaggio in sé e per mostrare la difficoltà e il disagio nel dover tenere giocoforza nascosto il proprio orientamento sessuale nell’ambiente lavorativo, ma decisamente un’appendice rispetto al fulcro della narrazione stagionale.

La seconda metà di questa seconda stagione sposta l’attenzione su Atlanta e sulla ricerca di un serial killer le cui vittime sono bambini afroamericani; è il primo grande caso per l’unità di scienze comportamentali e il nuovo direttore Ted Gunn (Michael Cerveris, Fringe) non vuole farsi scappare l’occasione di portare il loro metodo di indagine ad essere decisivo per la cattura di un criminale con copertura a livello nazionale. Intorno a questo caso si condensano alcuni dei temi più interessanti sollevati dalla scrittura: le tensioni razziali agli albori degli anni Ottanta e la minore età delle vittime, che si ricollega alla sottotrama del figlio di Bill, coinvolto proprio in un omicidio. Per quanto riguarda il primo non c’è dubbio che Atlanta abbia rappresentato l’occasione migliore per gli autori per sviluppare questo tema, ben gestito e integrato nell’indagine, anche a causa dell’ingenuità dell’agente Ford a riguardo: Holden, infatti, mantiene la testardaggine e il bigottismo che già aveva mostrato nella prima stagione, convinto delle proprie idee – che poi molte volte si rivelano anche esatte – e determinato a perseguirle fino in fondo, non curandosi dei consigli altrui o della possibilità di vagliare strade diverse da quelle che ha scelto di intraprendere. Per lui il profiling è l’unica cosa che conta e se i suoi studi hanno portato a identificare l’assassino come un uomo di colore non c’è motivo per cui non si debba sapere, persino in una situazione totalmente instabile come l’Atlanta di fine anni Settanta.

Il discorso sui bambini e sul parallelo tra la vita di Bill e il caso del killer di Atlanta è diverso; l’agente dell’FBI, infatti, deve far fronte ad una situazione personale critica, poiché il figlio adottivo è complice dell’omicidio per crocifissione di un suo coetaneo, un evento che scuote tremendamente la moglie Nancy e tutta la comunità in cui vivono. Sebbene tutta la vicenda sembri molto forzata e funzionale unicamente a mettere Bill in una situazione scomoda ma legata in modo inquietante al suo lavoro, in generale bisogna dire che funziona e che contribuisce alla sua caratterizzazione mostrando un uomo apparentemente rude ma con un animo gentile, disposto ad aiutare Holden nel momento del bisogno – mantenendo il suo segreto – e che ha realmente a cuore la sua famiglia; è questo uno dei motivi per cui si sente impotente di fronte alla situazione e alle giustificate lamentele della moglie, terrorizzata almeno quanto lui dalla situazione e desiderosa di trasferirsi per lasciarsi alle spalle tutto. Come se non fosse abbastanza, anche il caso che segue ad Atlanta riguarda dei bambini uccisi, un parallelo che grava con ancora più forza sulle spalle di Bill, specialmente a causa della lunghissima indagine e dello sconforto prolungato per il non riuscire a catturare il criminale, un’altra situazione che è costretto ad osservare impotente e rassegnato.

Per concludere, la seconda stagione di Mindhunter è un prodotto ottimamente confezionato da Netflix, con una scrittura che dà il meglio di sé nelle interviste e nei dialoghi con i serial killer; purtroppo tutta la parte finale ambientata ad Atlanta poteva essere gestita in modo migliore, in minor tempo e con meno divagazioni che portano ad un leggero calo di interesse. Un piccolo neo che però non intacca un meccanismo ormai ben oliato che anche a due anni di distanza dalla sua prima esecuzione ha confermato la sua efficacia; a questo punto resta da chiedersi quale sia la molla che, come i colleghi di Bill nel primo episodio della stagione, porta noi persone comuni ad andare alla ricerca dei dettagli più macabri e interessanti della vita criminale di soggetti disturbati. Che sia anche questa una perversa forma di intrattenimento? Un modo per “uscire” dalle vite normali e monotone che conduciamo ed essere partecipi, per quei pochi secondi, di un’affascinante “anormalità”?

Voto stagione: 8
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