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Sex Education – Stagione 1
Uno show come Sex Education era nell’aria da diverso tempo. In un panorama televisivo sempre più prolifico e autoreferenziale, dove il teen drama sta vivendo una fase di intensa attività di auto-riflessione e rinnovamento e dove si fa sempre più evidente lo sforzo di esorcizzare tutti i tabù tradizionalmente legati al sesso e di normalizzare tutta una gamma di comportamenti sessuali prima discriminati, non era difficile intravedere la possibilità di un prodotto sperimentale a metà fra il dramedy adolescenziale e l’edutainment sistematizzato che mettesse esplicitamente al centro il rapporto che gli adolescenti hanno con il sesso.

La serie creata da Laurie Nunn per Netflix, infatti, presenta senza dubbio delle somiglianze di famiglia con i più classici teen drama britannici come Skins o Misfits ma anche con i più recenti quali The End of the F*** World o Chewing Gum per il gusto per l’awkward (da cui trae la maggior parte della sua potenza comica), la spontaneità, la tendenza a sdrammatizzare e a stemperare le situazioni più pesanti e, più generalmente, la postura critica verso i codici del genere così come si sono consolidati oltreoceano (dalle grandi gesta romantiche al topos del ballo di fine anno). Ma è sicuramente ad un’altra (brillante) serie Netflix che Sex Education rimanda, rispetto alla quale si pone quasi in un rapporto di continuità ideologica, ovvero Big Mouth che metteva al centro della sua comicità l’imbarazzo provocato dal risveglio ormonale e dalla trasformazione fisica nella pubertà. Si tratta, quindi, già sulla carta, di una serie intelligente (furba?) ed estremante attuale e quindi presumibilmente già predisposta a ritagliarsi una grossa fetta di pubblico.

C’è da dire poi che, al netto di tutto, il format di Sex Education funziona davvero bene. L’idea è quella di accompagnare alle classiche situazioni da teen drama una riflessione parallela sui suoi temi principali, ovvero l’aspetto sessuale ed emotivo delle relazioni degli adolescenti fra loro e con i familiari e il conseguente percorso di formazione in modo da presentare gli avvenimenti sotto una luce che si vuole analitica e critica. Si tratta di una formula, quella dell’auto-riflessione di un racconto televisivo che si ripiega su se stesso grazie all’inserimento di momenti di terapia e di analisi dei personaggi e delle loro azioni, già da tempo corroborata e consolidata, in primis nella forma delle sedute di Tony Soprano con la dottoressa Jennifer Melfi.

In questo modo, i ragazzi di Sex Education vivono la loro normale vita da teenager e lo spettatore, insieme a qualche personaggio, può prendere la giusta distanza dagli avvenimenti per osservarne i vari aspetti e cercare attivamente una risposta a quelli che vengono trattati come dei veri e propri casi. Da qui la serie prende il via per affrontare una vasta gamma di temi piuttosto classici (facendolo, però, in un modo assolutamente non banale o ripetitivo) quali l’attrazione, la repulsione, la discriminazione, il bullismo, l’aborto, l’educazione, l’omosessualità, la verginità, l’amicizia.

Si può perdonare alla serie il fatto di perdersi un po’, dopo un buon pilota, negli episodi centrali, certamente dovuto al difficile compito di armonizzare le due anime (narrativa e dichiaratamente educativa) di un prodotto che è ancora comunque in una fase iniziale e sperimentale. Da questo punto i vista ricorda molto alcune delle criticità di altri show come Dear White People o The Marvelous Mrs. Maisel specie quando si trova a dover sacrificare parte della caratterizzazione dei personaggi per farne semplice veicolo di un commento sociale esplicito (accade, ad esempio, con alcune coppie aiutate da Otis durante le sue sedute da sex therapist che non sono nulla più che casi di studio) o a dover forzare alcune situazioni narrative per far sì che Otis si trovi coinvolto nel progetto con Maeve (su tutte l’improbabilità della sessione con la prima coppia nel bagno della casa di Aimee Lou durante la festa). Lo show evita, però, di rimanere per lungo tempo incastrato nella pedanteria o nell’artificiosità e ha il merito di abbracciare in pieno la concezione freudiana dell’educazione come uno dei mestieri impossibili, negandosi l’adempimento del proprio compito già in partenza e riuscendo così a creare dei personaggi imperfetti, immaturi, umani e di grande interesse e spessore. Tutto questo è accompagnato da un altro paradosso che dà alla serie gran parte del suo fascino e della sua vitalità, ovvero il fatto di mettere al centro di un racconto sull’educazione sessuale un ragazzino praticamente inesperto e immaturo ma, proprio per questo, perfettamente distanziato dall’oggetto per poterlo abbracciare nella sua interezza (si tratta, peraltro, di una figura hegeliana piuttosto classica, quella della necessità di un certo grado di distanziamento per una comprensione totale di qualcosa). Il risultato, come più volte sottolineato dalla serie stessa, è uno strano ragazzino inspiegabilmente maturo sui più disparati aspetti relazionali dal potente effetto drammatico e comico.

Ci troviamo allora di fronte anche a momenti televisivi veramente alti come l’apice della traiettoria del personaggio di Eric, le sequenze di Maeve nella clinica per l’aborto, l’epilogo della sequenza sul cyberbullismo (in un episodio che sembra fare l’occhiolino ad American Vandal) dove tutte le ragazze presenti all’assemblea generale si alzano e dichiarano “It’s my vagina!”. Vi sono anche passaggi più o meno deliranti che solo una serie british con la stessa allure noncurante che poteva avere un Chewing Gum può permettersi, come i ritratti dei geek che giocano ai giochi di ruolo o del personaggio di Lily, fumettista di erotica aliena con l’obiettivo di perdere la verginità.

Ci sono, insomma, personaggi veramente interessanti a cui viene dato il giusto spazio come succede per gli archi narrativi di Otis, Eric e il loro rapporto di amicizia. Ve ne sono altri come Aimee Lou o le madri di Jackson a cui se ne potrebbe dare di più, altri ancora come Ola a cui si spera non venga dato spazio solo per farle fare da terzo lato del triangolo amoroso fra Otis e Maeve, altri a cui se n’è dato forse troppo come Adam la cui storyline, interessante all’inizio e dopo la svolta finale, si perde nel vuoto e nel già visto nella parte centrale. Unico vero punto debole è senza dubbio il personaggio del fratello di Maeve che, prevedibile e ininteressante, si inserisce veramente male nell’economia della serie.

Questo per dire che se la prima stagione di Sex Education non manca certo di difetti, è anche vero che ha dato prova di saper essere a tratti veramente brillante, e, nel complesso, di gran lunga più solida di molti degli altri debutti televisivi degli ultimi anni con tutto lo spazio e il tempo necessari per aggiustare il tiro e mettere a frutto il proprio potenziale, dimostrandoci ancora una volta quanto il teen drama sia un genere vivo e parlante. Non ultima (e tanto cara agli inglesi) la cura per l’accompagnamento musicale, sempre azzeccato e spesso davvero incisivo specie nei moment di transizione verso i titoli di coda.

Voto: 8
Sex Education – Stagione 2
Netflix e il suo catalogo hanno ormai abituato a show costruiti appositamente per attrarre una platea sempre più ampia di spettatori; in fondo il successo del servizio streaming lo si deve anche a come è riuscito a intercettare un pubblico molto vasto che varia dalla prima adolescenza fino all’età adulta. Sex Education è uno dei prodotti che meglio riflette questo afflato universalistico della grande N, pur essendo un teen drama a tutti gli effetti.

Creata e scritta da Laurie Nunn, la serie si propone di utilizzare il sesso come fil rouge che attraversa le vite degli studenti di Moordale, un liceo inglese che ricorda molto, come ambienti e dinamiche relazionali, i film americani degli anni ’80. La sessualità è esplorata a 360 gradi e osservata con uno sguardo contemporaneo totalizzante e inclusivo, con l’obiettivo piuttosto esplicito di stilare un manifesto della grande varietà e diversità che caratterizza le relazioni sentimentali. Sex Education è, infatti, una serie prima di tutto didattica, che cerca di intercettare tutte le possibili rappresentazioni di un argomento così delicato, perché storicamente considerato un tabù parlarne, ma anche universale, perché riguarda tutti. La sovrastruttura narrativa è quella di un coming of age piuttosto classico: Otis è un ragazzo impacciato e con un’esperienza sessuale praticamente nulla che, tuttavia, ha assorbito tantissime nozioni a livello teorico dalla madre psicoterapeuta tali da poter imbastire una clinica del sesso clandestina nella sua scuola.

La prima stagione di Sex Education aveva convinto per il coraggio nella scelta dei temi trattati, per il suo stile sempre al limite tra dramma e commedia e per dei protagonisti imprevedibili e interessanti. Le poche critiche alla serie sono state dirette alla sua struttura episodica e ad una trama che non riusciva a reggere il peso dell’intera stagione, con segmenti narrativi centrali che perdevano il focus e sembravano dei filler evitabili; in più, per quanto riguarda il finale, sono stati mossi dei legittimi dubbi nei confronti del percorso del personaggio di Eric e della sua improvvisa infatuazione per Adam, che fino a poco prima lo maltrattava e umiliava. Questa seconda stagione dimostra di avere assorbito le critiche e aggiusta il tiro, proponendo linee narrative parallele che si dipanano per tutti gli otto episodi che la compongono e che si intrecciano in alcuni momenti clou, come la festa a casa Millburn o la recita scolastica del finale; in più approfondisce il rapporto tra Eric e Adam sollevando apertamente la questione della plausibilità dello stesso, considerati i loro trascorsi, e cerca di dargli la profondità e il trattamento che avrebbe meritato.

Lo show è fortemente character driven e muoversi dall’evoluzione dei suoi protagonisti è un buon punto di partenza per un’analisi generale sul prodotto. Otis attraversa diverse fasi durante la stagione e sperimenta tante prime volte: la prima relazione seria con una ragazza, le prime piuttosto disastrose esperienze sessuali, ma soprattutto si scontra per la prima volta con la sua presunzione, compiendo scelte sbagliate una dopo l’altra e dimostrando di non essere in grado di ascoltare le persone che gli stanno intorno. A complicare il suo già turbolento transito adolescenziale si inserisce anche il rapporto disastrato con la madre e con il nuovo compagno – nonché padre della sua ragazza – che fa saltare totalmente gli argini della sua tolleranza per l’improbabilità della situazione; il confronto con il padre, poi, evidenzia in modo netto quanto sia mancata al ragazzo una figura di riferimento da prendere a modello, un ruolo che la sola Jean non può incarnare, principalmente per il distacco tipico dei professionisti del suo settore che sussiste anche quando cerca di parlare con il figlio. La relazione impossibile con Maeve e il triangolo amoroso in cui si trova calato vengono esasperati dalla scrittura – fin troppo – e proprio per questo il colpo di scena che chiude la stagione – il messaggio che viene cancellato – perde un po’ della sua potenza narrativa.

Al di fuori di questa dinamica di attrazione-repulsione, tra i due è Maeve quella che ne esce meglio, sicuramente come un personaggio più profondo e meglio delineato rispetto alla prima stagione. Anche qui troviamo un rapporto genitoriale in crisi, ma in questo caso è la ragazza stessa a cercare di risollevare la madre dandole una possibilità di redenzione; la parte conclusiva di questa storyline – dall’integrazione completa nella squadra di quiz alla decisione sofferta di far arrestare la madre – rende giustizia ad un percorso ben costruito, nel quale alla fine Maeve sceglie ciò che è meglio per se stessa e scopre il valore della vera amicizia – il rapporto che costruisce con Aimee e in generale la nuova consapevolezza di essere accettata da un gruppo alla fine del settimo episodio.

Anche Eric deve fare i conti con i propri sentimenti contrastanti: se la prima stagione era stata per il personaggio il terreno per crescere nella consapevolezza di voler essere se stesso anche di fronte a chi non lo accettava, questa seconda annata porta il personaggio interpretato da Ncuti Gatwa a fare un passo in più e a ricercare la propria felicità lungo strade tortuose ed evitando facili scorciatoie. Si fa riferimento alla relazione complicata – per quanto già accennato prima – con un Adam cambiato, ma di cui non è facile potersi fidare, a differenza di Rahim che è lo stereotipo del ragazzo perfetto.

Ma la forza della scrittura di Laurie Nunn in questa stagione sta nel saper cogliere le urgenze della contemporaneità e nel parlare di problemi importanti tanto per gli adolescenti che per chiunque altro: dall’enfasi sul trauma di Aimee, molestata sessualmente sull’autobus, che viene condiviso da tutte le altre donne, alla necessità di Jackson di liberarsi dai vincoli della famiglia e della scuola per poter fare ciò che lo appassiona. Il ventaglio di temi affrontati è enorme e, forse per questo, alcuni restano ai margini o vengono discussi solo superficialmente; a tal proposito, sia per esigenze di trama che per cercare di sciogliere la struttura rigida della prima stagione, si nota che i casi della clinica del sesso sono molti di meno e – soprattutto – meno significativi, delle note di colore che non influiscono in modo deciso sulla storia principale ma al massimo servono di volta in volta a spezzare la diegesi.

La seconda stagione di Sex Education conferma la serie come uno dei teen drama di Netflix più importanti e significativi di questi ultimi tempi; un periodo in cui il servizio di streaming sta facendo investimenti massicci proprio per sviluppare prodotti targettizzati al fine di intercettare il mondo complesso e vario dei post-millennial, senza che siano esclusivi ma che, anzi, possano essere istruttivi e accomodanti anche per le generazioni precedenti.

Voto: 7½
Sex Education – Stagione 3
Una delle maggiori virtù della serie Sex Education di Netflix è stata quella di parlare di sessualità tra adolescenti in maniera sempre molto intelligente e con attenzione nei confronti di tutte le possibili declinazioni del sesso e dell’amore, mantenendo al contempo un tono perlopiù allegro da commedia senza mai banalizzare la profondità del suo discorso.

Lo avevamo già visto con la seconda stagione, con l’assalto ad Aimee sul bus e l’importante solidarietà femminile nel ribadire tutte le forme, più o meno esplicite, di violenza sessuale; lo avevamo poi riconosciuto nella scoperta dell’omosessualità di Adam, ora alle prese con un mondo che non ha ancora la forza di voler interamente abbracciare. Ci si aspettava, dunque, qualcosa di altrettanto importante in questa stagione, e così è stato: Sex Education è tornata con una terza ottima stagione.

Dal punto di vista narrativo, si riprendono le fila del discorso abbandonato alla fine della stagione precedente, sebbene con uno hiatus necessario a rimettere tutte le pedine sulla scacchiera. Per quanto riguarda il nostro protagonista, Otis, lo scopriamo ancora diviso tra il suo amore per Maeve e la nuova relazione (un po’ a sorpresa) con Ruby, la ragazza più popolare della scuola. Abbandonata la sex clinic, Otis può concentrarsi sulle vicende personali, in questa difficile navigazione tra i propri sentimenti e le complesse vicende familiari che riguardano una nuova sorella in arrivo, una sorellastra acquisita e una turbolenta relazione tra la madre Jean e il compagno Jakob. Insomma, ce n’è a sufficienza per Otis per mettere da parte la clinica – che era un po’ il centro della prima annata e parte della seconda; la stagione piuttosto serve al protagonista per comprendere che quella parte della sua vita non solo gli aveva permesso di esprimere un lato di sé, ma soprattutto aveva fatto del bene ai suoi compagni e aveva aiutato a creare una consapevolezza in ambito sessuale che a Mordale non si è più ripetuta.

Dal canto suo, Maeve è ancora alle prese con una difficile relazione con la madre, che troverà solo alla fine della stagione una risoluzione, e con la consapevolezza di dover abbandonare, almeno in parte, lo scudo protettivo che si è costruita intorno per trovare la propria vocazione e seguire i propri sogni – che la porteranno via dall’Inghilterra, almeno per un po’. Per quanto riguarda la relazione tra Adam ed Eric, siamo nel campo di una serie di scelte interessanti che rispondono a quello che cominciava ad essere un discorso stantio: la difficoltà di Adam di accettare la propria omosessualità si scontra con un Eric sempre più frustrato di doversi nascondere. Sarà proprio il viaggio in Nigeria, dove tutto Eric si sarebbe atteso tranne un’esplosione sessuale, a metterlo davanti al fatto che lui e Adam stanno viaggiando su livelli completamente differenti, a ritmi non conciliabili. Nonostante l’innegabile senso di pietà che si prova nei confronti di Adam – che finalmente trova la propria passione con l’esibizione canina – bisogna dare atto agli autori di avere il coraggio di prendere scelte molto forti, e sono consapevoli che a 17 anni si possa reagire alle relazioni anche in modo apparentemente crudele. Eric aveva bisogno di sentirsi libero, ha tutto il diritto di vivere la propria omosessualità senza il senso oppressivo del peccato o del giudizio altrui, ma soprattutto senza più mentire nemmeno a se stesso.

La novità più interessante ha sicuramente a che fare con l’arco principale della storia della stagione, ovvero quanto accade con l’arrivo della nuova preside e come questa scelta si intrecci con tutta una serie di storyline parallele. L’introduzione (come villain) di Hope Haddon è una scelta geniale, perché ci mette di fronte ad una decisione molto coraggiosa e non così diffusa: prendere un volto moderno (Jemima Kirke la ricordiamo soprattutto come Jessa in Girls) e in apparenza in sintonia con i più giovani solamente per farle trasmettere idee e azioni di stampo reazionario e conservatore. I percorsi in fila indiana, l’uso delle divise, la moralizzazione delle canzoni, fino a corsi d’educazione sessuale di stampo vittoriano, sono tutte armi utilizzate per rassicurare famiglie e investitori, e destinate a silenziare gli istinti e i desideri degli adolescenti che in quella struttura ci passano la maggioranza della loro giornata. Ciò che la serie riesce a dire è che non c’è bisogno di avere lo stereotipo dell’uomo bianco, cisgender e anziano perché certi ideali possano trovare modo di esprimersi, ma rende più difficile odiare un personaggio come quello di Hope. Non è mai una macchietta, però, e le sue difficoltà nel rimanere incinta (e il colloquio finale con Otis) sono qui a dimostrarlo.

Tra i molti modi in cui gli ideali di Hope si scontrano con la realtà c’è sicuramente al centro il personaggio di Cal, dichiaratamente non-binario, che mostra tutta l’ipocrisia e la violenza che scelte conformistiche anche apparentemente innocue possono portare con sé. La questione delle divise scolastiche ne è un esempio brillante: l’utilizzo di uno standard per tutti non tiene conto delle necessità del singolo che non si riconosce in nessuno dei due generi e deve dunque costantemente forzare la propria sensibilità in una direzione prestabilita (o in questo caso, a vestirsi come non ci si sente); lo stesso vale per abiti troppo stretti, bagni scolastici che non considerano alternative alla classica divisione, o l’utilizzo di un vecchio bagno fatiscente persino per cambiarsi. Il personaggio di Cal è emblematico di come Sex Education voglia trasmettere messaggi molto importanti senza mai salire in cattedra, ma cercando di far parlare i propri personaggi. Lo dice bene Otis: questi affrontati dalla serie sono problemi che ci sono sempre stati, ma che solo adesso le generazioni più giovani stanno davvero affrontando con coraggio e con la voglia di non lasciare indietro nessuno. Ecco perché la protesta finale, per quanto certo molto telefonata, è importante: è l’idea che nessuno in un contesto scolastico debba sentirsi estraneo o inferiore, e che anche quei lati unici della propria personalità sono solo forme per esprimersi: alieni, cani, torte a forma di vulva, ognuno trova il proprio modo per esprimere ciò che ha dentro, con la consapevolezza che nessuno ha il diritto di umiliare nessuno.

Le vicende degli adulti sono, in linea di massima, molto meno interessanti, perché si usano gli stessi parametri dei ragazzi – e quindi storie altamente volubili, che dipingono una costellazione di bambinoni incapaci di impegnarsi nelle loro relazioni. Jean, poi, ha un ruolo molto marginale rispetto al passato, quasi interamente assorbita dall’incapacità di Jakob di fidarsi di lei (e chissà che il finale non servi a creare un’ulteriore rottura tra i due).

Ancora una volta, la scrittura della serie si presta a megafono delle istanze più moderne e per questo più coraggiose, parlando liberamente di sessualità e mostrando la bellezza della varietà umana in corpi e sentimenti. Sex Education non perde alcuno smalto, arrivata alla terza stagione, e, al netto di storyline più o meno interessanti, si dimostra capace di parlare del mondo contemporaneo senza mai appesantirsi, ma conservando un gradevolissimo tenore generale.

Voto: 8
Sex Education – Stagione 4
La serie inglese Sex Education torna su Netflix per una quarta e ultima stagione. Nonostante avesse il desiderio di affrontare, come al solito, l’identità e la sessualità umana in tutte le sue sfaccettature, la serie ha dovuto anche reinventarsi, lasciando indietro alcuni personaggi più o meno rilevanti degli anni passati, e introducendo volti nuovi.
Le cose sono molto cambiate, a Moordale: il liceo non c’è più, chiuso dopo i fallimentari tentativi di costringere gli studenti ad un’innaturale soppressione delle proprie personalità. Adesso buona parte dei protagonisti si è spostata al Cavendish College, una scuola che è all’opposto della loro esperienza precedente. Otis e Maeve cercano di tenere viva la fiamma della loro relazione a distanza, con la ragazza alle prese con la sua scuola americana, mentre Jean, la madre di Otis, deve crescere da sola la nuova bimba, adesso che Jakob è andato via.

Ci sono molte storyline che si dipanano nel corso di questa stagione: c’è la relazione tra Maeve e Otis (anche se su di loro ancora aleggia lo spettro di Ruby, personaggio fantastico come al suo solito), il percorso spirituale di Eric, la depressione di Jean, e le storie di una larga costellazione di personaggi secondari, alcuni a noi già familiari, altri invece nuovi. A collegare pressoché tutte queste storie vi è, appunto, il Cavendish College, un’oasi incredibile basata sui peggiori incubi dei conservatori di tutto il mondo: è una scuola, infatti, in cui al centro c’è lo studente e il proprio benessere emotivo. La spinta all’uguaglianza e tolleranza portata avanti dal college è sviluppata con molto acume dalla scrittura della serie perché non banalizza né sottovaluta la portata di questo discorso; la sceneggiatura, infatti, inizialmente quasi ironizza ai danni di questa scuola e delle proprie priorità woke (se si vuole usare un termine tanto caro alle destre), e appunto appare come volersene prendere gioco. Con il passare degli episodi, però, quando lo spettatore è posto di fronte agli studenti della scuola e alle problematiche che si ritrovano ad affrontare, ci si rende conto che questa istituzione risponde al loro desiderio e al bisogno di sentirsi, almeno per qualche ora al giorno, accettati per quello che si è, mentre si navigano acque perigliose all’esterno.

Le storyline che riguardano il protagonista Otis sono solo in parte riuscite: la sua volontà di continuare il percorso di consulto e ascolto d’educazione sessuale si scontra con la realtà che qualcun altro sta già facendo la stessa cosa in quella scuola. D’altronde, l’idea della sex clinic aveva il suo senso nella realtà scolastica precedente, in questa appare più come un’ombra rimasta dalle precedenti stagioni. L’intera diatriba con O è davvero poco interessante, se non per il coinvolgimento di Ruby che conferma quanto potenziale – purtroppo mai del tutto sfruttato – ha sempre avuto questo personaggio.
Ben più sostanzioso è quello che succede all’amicizia tra Eric e Otis, con il secondo che finalmente si rende conto di quanto concentrato sul proprio amore per Maeve sia stato così a lungo, e quanto poco abbia davvero voluto ascoltare Eric e le sue difficoltà. Fa male vedere i due amici del cuore allontanarsi, ma il lieto fine della loro amicizia è un momento di grande importanza: descrive qualcosa che molte persone hanno vissuto crescendo, quando amici per la pelle si ritrovano a fare parte del proprio percorso un po’ più distanti per poi ritrovarsi in altri momenti e con altra mentalità. Eric trova al Cavendish la propria comunità, persone che possono capire un certo lato di sé più a fondo di quanto possa fare Otis; è solo il desiderio di ascoltarsi che ancora una volta riporta i due amici accanto, certamente più maturi di quanto fossero prima dello scontro. Le vicissitudini che riguardano Eric e la sua fede, invece, trovano perfetta conclusione solo alla fine di questa annata, con l’ammissione non solo di non voler tenere la propria spiritualità separata dalla propria natura, ma che addirittura vede in questo percorso una nuova direzione da intraprendere, una carriera da pastore più aperto alle sfaccettature del proprio gregge. Questo giustifica e meglio contestualizza il grande spazio dato a questa storyline – forse la più assurda della stagione per il concentrato di “visioni” di cui è caratterizzata.

In Sex Education, però, c’è molto, molto di più: c’è il discorso sulla morte, con il decesso della madre di Maeve e tutto quello che ne consegue. Ci sono la paura di una malattia e la volontà di conoscere i propri genitori biologici, anche se questi si rivelano essere disinteressati. C’è Adam e la sua voglia di farsi una vita indipendente dopo l’amore finito con Eric, e i tentativi di ristabilire un equilibrio familiare forse mai davvero esistito; c’è la violenza mascherata da gelosia, che rovina relazioni e instilla insicurezze e paure; ci sono le difficoltà nel convivere con il proprio corpo, soprattutto quando l’accettazione deve passare attraverso le maglie della burocrazia e del denaro. C’è anche l’intelligenza autoriale di non dimenticare storyline importanti del passato, soprattutto nel caso dell’assalto subito da Aimee, che ancora si riverbera nelle sue difficoltà nell’esprimersi e nel rivivere l’intimità con un altro uomo. Sono questi i tanti temi su cui la serie Netflix si concentra, lasciando spazio in modo particolare alla grande partecipazione dei ragazzi, che sono poi i principali destinatari della serie, ma senza dimenticare anche la presenza dei genitori e quindi del mondo adulto. Non tanto e non solo Jean, che deve affrontare una depressione post partume il rapporto conflittuale con sua sorella, ma soprattutto gli adulti alle prese con i figli e con i tentativi più o meno riusciti di entrare in comunicazione con loro (lo show, tranne in rari casi, presenta esempi di genitori virtuosi e aperti ad accettare le sfumature dei propri figli).

Sex Education ha il grandissimo pregio di raccontare la natura umana in tutte le sue varietà, focalizzandosi soprattutto sull’adolescenza, che poi è il periodo dello sviluppo più complesso a causa del turbinio di emozioni e ormoni che domina. In quell’età in cui ogni evento sembra un dramma, ogni difficoltà una tragedia, a volte ci si dimentica che ci sono persone che hanno sfide più complesse da affrontare e che anche solo un po’ di gentilezza può davvero fare la differenza. Senza mai abbandonare il proprio tono irriverente e a tratti paradossale, la serie si districa con bravura tra queste diverse anime, svolgendo una funzione educativa senza mai perdere di vista i propri personaggi. È difficile non innamorarsi di questi ragazzi che sono molto più delle loro storie: sono piccole comunità che si supportano e si cercano a vicenda e che rappresentano forse un’utopia, ma un’utopia che sarebbe molto bello vivere.

Sex Education è forse la serie più coraggiosamente queer della serialità contemporanea, un vortice di emozioni e risate che riesce a descrivere il nostro mondo alle prese con un desiderio di apertura e diversità quanto mai prima d’ora. Ecco perché la serie è stata una boccata d’aria fresca, a tratti surreale ma proprio per questo impossibile da ignorare. Il suo fantastico e coloratissimo mondo di personaggi, tutti con le proprie sfide e i propri ostacoli, rimarrà un momento importante per la rappresentazione umana e ci ricorda che anche la TV destinata al largo pubblico, quando vuole, può andare in territori meno battuti per raccontarci parti d’umanità ancora tutti da accogliere.

Voto Stagione: 8
Voto Serie: 9
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