
Stranger Things è la nuova serie con cui Netflix ha deciso di allietare questa calda estate: scritta dai fratelli Duffer (Russ e Matt, per la cronaca), già dal pilot avevamo avuto il sentore di trovarci davanti a qualcosa di molto particolare e fuori dal comune. L’episodio pilota aveva infatti gettato le basi per quella che risulta senza dubbio essere una delle serie più interessanti di questa prima parte di 2016 (a dire il vero non prodiga per ora di novità molto incisive) e gli episodi successivi, culminati in un ottimo finale di stagione, hanno dimostrato che quel punto di partenza poteva soltanto andare a migliorare.

È da qui che bisogna partire per una qualsiasi analisi che riguarda Stranger Things: si tratta di un’operazione nostalgia, diretta in particolare a quella generazione di trentenni/quarantenni che guarda di frequente a quel periodo con una certa malinconia – e sappiamo bene quanto l’effetto passatista funzioni, basta considerare il ritorno in formato serie TV di MacGyver e l’Esorcista, oppure all’odio inverecondo scatenatosi intorno al reboot di Ghostbusters, accusato di lesa maestà – e ripropone in maniera particolarmente vivida gli stilemi che quel periodo avevano fortemente caratterizzato. Come si può non percepire in ogni immagine dello show la potenza di alcune narrazioni kinghiane (la cittadina di Hawkins sembra Derry di It), come si può non guardare alla fuga in bicicletta senza tornare con la memoria a E.T. di Spielberg? Anzi, c’è una scena durante la serie, in cui i giovani personaggi fuggono inseguiti dai furgoni del nemico, che genera nello sguardo dello spettatore la sensazione istintiva che da un momento all’altro quelle biciclette si possano alzare in volo per superare lo sbarramento nemico.





Voto: 8+

I fratelli Duffer hanno dimostrato di avere il talento, la maturità e la competenza per realizzare un prodotto inimitabile, che anche quest’anno mette al centro della propria riflessione la nostalgia, quel sentimento che rimanda a un tempo passato in cui l’ideale ha ormai superato il reale. A partire da questo discorso la serie adotta un punto di vista che citando tanto cinema degli anni Ottanta posiziona l’infanzia e la fantasia nel cuore del racconto, riuscendo in questo modo a fondere il coming of age con la fantascienza, l’horror con la fiaba. Ancora una volta l’ossessione (ricordiamo il sistema di lucine costruito da Joyce l’anno scorso) ricopre un ruolo centrale facendosi strumento per un’accurata riflessione sulla diversità, sullo splendore insito nell’anomalia (che siano i capelli di Max, i mille talenti di Dustin, le insicurezze di Steve e Lucas o la paranoia di Joyce), spesso motore di passioni così forti da pervadere l’intera esistenza dei personaggi della serie. La loro è una smisurata fiducia nel meraviglioso e nel fantastico che vede in Incontri ravvicinati del terzo tipo il modello per eccellenza, sia dal punto di vista delle atmosfere sia per l’ossessiva riproduzione del labirinto sotterraneo da parte di Will, che rimanda a quella della Torre del Diavolo dei protagonisti del film del 1977.
Oltre l’avventura: the day after

Questa seconda annata decide nella sua prima metà di esplorare l’altra faccia della medaglia mettendo a fuoco senza paura gli strascichi di quell’esperienza, concentrandosi in particolare sulle conseguenze riportate dai protagonisti e sul senso di perdita e di inadeguatezza che domina il racconto. La scomparsa di Barb è naturalmente uno degli elementi principali, utilizzato in particolare per caratterizzare il personaggio di Nancy, afflitta dai sensi di colpa, insoddisfatta dalla relazione sentimentale con Steve e indifesa di fronte alle tentazioni dell’alcol. Il più colpito di tutti è però Will, soprannominato “Zombie Boy” dai compagni di scuola, trattato da amici, parenti e medici con un riguardo così tanto invadente da farlo sentire ancora più strano e accentuare le sue già significative insicurezze. L’altra grande ferita di questa stagione è quella nel cuore di Mike a seguito della scomparsa di Eleven: esattamente come E.T. per Elliott nel film di Spielberg del 1982, la ragazzina ha significato per Mike non solo la scoperta di sentimenti mai provati prima, ma anche il partner di un’avventura che fino a quel momento aveva potuto solo sognare. È nello specchiarsi delle difficoltà di Will e di Mike che la prima parte della stagione conosce uno dei suoi momenti più alti, riportando l’attenzione sulla forza della loro amicizia proprio nel momento di massimo bisogno ed è impossibile non commuoversi nel momento in cui Will dice a Mike “We will be crazy together”.
What’s going on here?
Se è vero che ripetersi è spesso più difficile che stupire tutti per la prima volta, è altrettanto vero che la cultura cinematografica e televisiva dei fratelli Duffer è costituita da un caleidoscopio di prodotti, miti e narrazioni della pop culture degli ultimi quarant’anni fatto anche di sequel, prequel, reboot, rifacimenti e riscritture di ogni genere. I due autori hanno infatti dichiarato che per questa stagione si sono ispirati ai tanti sequel di successo della storia del cinema, da Indiana Jones e il tempo maledetto ad Aliens – Scontro finale passando per Terminator 2 – Il giorno del giudizio, non solo citandoli esplicitamente ma tentando di replicare la formula che ha permesso a questi film di ripetere il successo del film che li ha preceduti.
In un modello produttivo e distributivo come quello di Netflix, in cui l’unità minima di riferimento non è più il singolo episodio ma l’intera stagione, a cambiare sono anche i concetti stessi di ripetizione e serializzazione. Dopo la fruizione immersiva della prima annata è infatti solo con la seconda che si può davvero parlare di serialità, chiamando in causa i concetti di ritorno del già noto, di ripetizione e di variazione sul tema. Di già noto abbiamo le atmosfere, i personaggi e quella irresistibile voglia di fantasia: tornare a Hawkins è per gli spettatori come tornare a casa, nel posto in cui sentirsi di nuovo bambini. A ripetersi sono una serie di situazioni narrative, come i triangoli amorosi, e di tematiche, come l’importanza dell’unità del gruppo di amici. A diversificare questa stagione, sono invece le variazioni sul tema: l’introduzione dei personaggi di Max, del fratellastro Bill, di Bob, del dottor Owens e di Murray Bauman (uno straordinario Brett Gelman) gioca a questo proposito un ruolo determinante.
Being a freak is the best!

Un nucleo tematico che svolge un ruolo quasi indipendente per parte della stagione è quello legato a Nancy e Jonathan: attraverso la ricerca di Barb i due si immergono in un’avventura fatta di complotti e insabbiamenti che ha come esito principale non tanto il fare chiarezza sulla sorte dell’amica quanto far scattare definitivamente la scintilla – grazie anche all’aiuto provvidenziale di Murray – fra loro, aiutandoli a superare l’inibizione. Una delle conseguenze positive di quest’isolamento è l’approfondimento riservato a Steve, il quale una volta persa la donna amata trova la sua rivincita nell’azione e in particolare nel rapporto con Dustin che mette in scena alla perfezione l’unione di due personaggi per ragioni diverse bisognosi di affetto. Un altro spaccato molto interessante è quello riservato a Lucas e alla sua famiglia: all’interno del classico ritratto del ragazzino le cui passioni non sono comprese fino in fondo dal resto dei parenti, emerge l’esilarante sorellina Erica i cui dispetti nei confronti del fratello e della sua banda costituiscono alcuni dei momenti comici più riusciti dello show.
Nella ramificazione narrativa di questa stagione il compito più complicato è legato alla gestione di Eleven, sia perché dopo il finale dello scorso anno la ragazzina si trova sostanzialmente isolata dal resto, sia perché la sua eccezionalità la rende inevitabilmente diversa dagli altri. Su di lei viene fatto un lavoro stratificato e impostato su alcune delle principali tematiche del cinema eighties hollywoodiano come il bisogno dell’affetto genitoriale, la ribellione nei confronti dell’autorità e l’incontro con la morte. I Duffer riflettono sulla solitudine della ragazza riprendendo i convincenti riferimenti a Under the Skin per sviluppare in maniera struggente l’approfondimento sulla protagonista: dispositivi come la TV e la radio diventano i medium che letteralmente mettono in comunicazione Eleven con i propri sentimenti più reconditi e con i propri traumi portandola anche a sviluppare poteri a lei ancora ignoti.
The Lost Sister

Dal punto di vista strutturale gli autori, dopo aver costruito un racconto progressivamente più avvincente, decidono di prendersi una brusca pausa operando una svolta improvvisa, ma non per questo irrilevante o non necessaria. La storyline di Eleven, a causa della scelta di isolare la ragazza dal resto, risulta fino a quel momento da una parte sempre più intrigante ma dall’altra un po’ troppo scollegata dal racconto principale. Sulla base di questa distanza, i Duffer optano per una detour che in realtà conduce lì dove la stagione è iniziata: il viaggio di Eleven a Chicago rappresenta un confronto della protagonista con il proprio passato, una tappa necessaria alla conoscenza di sé stessa e delle proprie straordinarie capacità.
La sorella perduta di Eleven è, andando dal micro al macro, anche quella di Stranger Things: questa deviazione infatti suona anche come una sorta di what if narrativo, come il pilot di una serie gemella sviluppatasi diegeticamente in un modo parallelo a partire da un altro tipo di immaginario, quello del punk urbano statunitense dei Guerrieri della notte e di 1997: Fuga da New York.
Attraverso questa deviazione i Duffer riescono a realizzare una sorta di origin story superoistica in cui Eleven, come il protagonista di un comic movie, si confronta con un contesto nuovo e con i propri lati oscuri per conoscere fino in fondo se stessa (il passaggio da numero – Eleven – a nome – Jane – le conferisce a tutti gli effetti un’identità) e le doti che possiede. Se è vero che a grandi poteri corrispondono grandi responsabilità, allora la protagonista, dopo aver elaborato la violenza e l’omicidio e aver avuto un ultimo struggente confronto con il “padre”, capisce definitivamente che il suo destino è andare a salvare Mike e gli altri, perché è quello l’unico posto che può davvero chiamare casa.
La mente alveare

I Demodog costituiscono pertanto un’idea vincente: la loro dinamicità aumenta la possibilità di realizzare scene d’azione; il loro inserimento nel laboratorio permette agli autori di realizzare una situazione alla Jurassic Park; l’imprevedibile evoluzione di queste creature viene seguita passo dopo passo dai protagonisti. A questo proposito riesce ad emergere anche il personaggio di Bob, che oltre a essere il compagno perfetto perché dolcemente goffo, sempre aperto alle novità e mai snob, si dimostra anche un eroe per caso grazie alle propria attitudine da geek rendendo ancora più struggente la sua tragica fine. So long “Bob Newby, Superhero”.
In questo processo di intensificazione dello spettacolo un ruolo di primo piano è ricoperto dal “cattivo” e sotto questo aspetto l’idea della mente alveare si rivela assolutamente geniale: in questo modo gli autori possono costruire un nemico apparentemente invincibile e (in tutti i sensi) tentacolare; allo stesso tempo questa intuizione non solo rimanda a D&D (The Mind Flayer è infatti una delle tante intriganti figure del gioco), ma è anche un riferimento all’intelligenza collettiva, simbolo del percorso compiuto dalle generazioni di nerd che dagli anni Ottanta sono arrivate fino al web e ai social network e che vedono nei ragazzini di Stranger Things degli splendidi antesignani.
L’alto tasso di spettacolarità di questa stagione è dovuto anche al lavoro compiuto su Eleven, personaggio che, come dimostrato dal settimo episodio, oltre a essere estremamente stratificato porta con sé anche una spiccata vena action (supportata dalle capacità interpretative di Millie Bobby Brown), che le conferisce un’identità ambivalente facendone sia un freak come tutti gli altri sia una supereroina. La fiducia di Mike in lei non è solo il modo con cui gli autori mettono in scena una relazione troncata sul nascere, ma rappresenta anche il simbolo di una speranza (quasi generazionale) in un mondo diverso, in cui fare del proprio partner speciale qualcosa in grado di illuminare tutto il resto, che sia esso un amico immaginario o un supereroe. Esaltare questo ruolo di Eleven costituisce per i Duffer anche l’occasione per rendere l’estetica della seconda stagione più cinematic costruendo sequenze girate alla perfezione, come quella del salvifico ritorno a Hawkins della ragazza o quella in cui tutti i suoi poteri sono utilizzati per chiudere il portale che collega all’Upside Down.
Friends don’t lie
Dopo due stagioni di altissimo livello, di Stranger Things resta un’articolata e sentita riflessione sulla nostalgia che è riuscita a trovare un equilibrio perfetto tra rievocazione di un mondo che non c’è più (e che forse in questi termini non è mai esistito) e la finzionalizzazione di un’immaginario costruito su emozioni reali, sogni di biciclette che vanno verso il cielo e cacce al tesoro dei pirati (scegliere Sean Astin, protagonista dei Goonies, per interpretare Bob è stata una scelta azzeccatissima).
I Duffer riescono a plasmare questo immaginario a loro immagine e somiglianza, ragionando non tanto dalla parte di chi quell’epoca l’ha vissuta (hanno entrambi poco più di trent’anni) ma da quella di chi quel mondo lo ha sognato attraverso i dispositivi (proprio come Eleven), di chi è si è formato sul quell’immaginario veicolato dalla cultura popolare. Nel far ciò i due autori riescono a mettere in scena un universo talmente originale e accattivante da far propria quell’idea di mondo (e quell’idea di cinema e di narrazione tout court), mettendo un marchio personale che elimina la sensazione di rifacimento dalla fruizione spettatoriale. Analogamente a quanto fatto da Tarantino, che in Kill Bill prende la tuta di Bruce Lee e la risemantizza sul corpo di Uma Thurman, i Duffer pescano a piene mani da un mondo audiovisivo e letterario preesistente ma al contempo configurano un’estetica fortemente personale, tanto che (ad esempio) l’ipnotica sigla, pur rimandando inevitabilmente a John Carpenter e a Stephen King, è ormai diventata un marchio di fabbrica inconfondibile.
Dopo un’attesa di oltre un anno, nella quale si sono susseguiti affollatissimi panel ai Comic-Con di tutto il mondo e la contagiosa passione per la serie è passata di casa in casa, la seconda stagione di Stranger Things si trovava di fronte a un precipizio, messa sotto la pesantissima pressione di ripetere il miracolo. Nonostante ciò, i Duffer ce l’hanno fatta ancora, riuscendo a realizzare una seconda annata che mantiene tutti i pregi della prima e che al “fattore novità” sostituisce il riuscitissimo tentativo di espansione e diversificazione.
Voto: 9

Si tratta di un compito, come si diceva, davvero difficilissimo ed era più che lecito, da parte degli spettatori, avere il timore di assistere a una perdita di idee o a qualche scivolone qualitativo. Tuttavia, si può affermare con sollievo che questa nuova stagione di Stranger Things non solo è riuscita a tenersi lontana dai rischi citati, ma è stata soprattutto capace di rinnovare le proprie caratteristiche, aprendosi a un nuovo mondo, sia dal punto di vista narrativo (con l’entrata dei protagonisti nell’adolescenza), e sia dal punto di vista estetico e visivo (con il suo mood estivo e colorato e con una nuova, cruenta raffigurazione del Mind Flayer). Ma andiamo con ordine.
Un nuovo equilibrio
Uno degli aspetti più limitanti di Stranger Things riguarda proprio l’eterno ritorno del Mind Flayer che, a prescindere dalle modalità con cui riprende a tormentare le vite dei cittadini di Hawkins, rappresenta una costante dello show. Se nelle prime stagioni la manifestazione di questo villain donava alla serie una buona dose di fascino e mistero, con questa ultima annata si è presentata la necessità di accompagnare alla sua presenza un gran numero di nuove dinamiche e situazioni che riuscissero a mantenere vive tali sensazioni, nonostante la familiarità conquistata dagli spettatori nei confronti di questa creatura malefica (e disgustosa).

Inoltre, l’entrata in scena del laboratorio segreto sovietico (un chiaro ed ironico rimando alla fobia antisovietica nei tempi della Guerra Fredda) ha dato il via alla possibilità di presentare un gran numero di scene action costruite benissimo, rendendo così lo show ancora più avvincente. Ma non solo: fra gli aspetti meglio riusciti (di sempre, ma ancor di più in questa stagione) è presente l’ottima gestione dell’equilibrio fra gli aspetti più comedy dello show – il quartetto composto da Dustin, Erica, Steve e Robin è stato a dir poco irresistibile in questo senso – a quelli più drammatici e horror che, con i personaggi sempre più maturi, hanno potuto prendere sempre più spazio e arricchire la serie di nuove emozioni mai esplorate prima. Il tutto, si diceva, è stato reso possibile proprio grazie alla cura con la quale sono state rappresentate e alternate fra loro le diverse storyline. Il gran numero di situazioni incontrate dai più svariati personaggi non hanno reso lo show per niente dispersivo, anzi: ogni elemento messo in gioco si è poi incastrato, nelle ultime puntate della stagione, in un insieme equilibrato e dinamico che ha messo in luce ancor di più la bravura degli sceneggiatori nel destreggiarsi con un gran numero di elementi.
The real world sucks.

Fra questi nuovi percorsi intrapresi dai nostri personaggi, quello di Will è forse il più interessante di tutti. Il giovane ragazzo interpretato da un sempre bravissimo Noah Schnapp è stato, come sappiamo, il più colpito dalle insidie del Mind Flayer, che gli hanno sottratto all’incirca un paio di anni della sua giovane vita. Tornato adesso a una quotidianità più o meno tranquilla, il giovane avrebbe voluto riconquistare il tempo perduto e tornare alla vita di sempre: non stupisce, dunque, che la necessità di crescere che hanno manifestato Mike e Lucas non lo abbia colpito alla stessa maniera. Alla luce di questo, è a dir poco struggente osservare come Will cerchi di aggrapparsi ai ricordi e alle abitudini della sua infanzia e, soprattutto, osservare come sia doloroso per lui prendere finalmente coscienza del fatto di non poter tornare indietro. L’addio ai giorni e ai giochi infantili è doloroso e difficile per tutti, ma nel suo caso il tutto si riveste di un’atmosfera ancora più tragica proprio per la consapevolezza di non aver potuto vivere appieno quei momenti di serenità che gli spettavano. La distruzione violenta e disperata del fortino Byers rappresenta così l’addio dolorosissimo di Will nei confronti della propria infanzia, e si staglia fra i momenti più amari e significativi dell’intero show.
Anche Nancy e Jonathan e, in misura minore, Steve e la validissima new-entry Robin (Maya Hawke) sono sottoposti a una sfida simile. Se il gruppetto capitanato da Eleven deve vedersela con l’adolescenza, questi ultimi devono vedersela invece con l’entrata a tutti gli effetti nella vita da adulti: le prime esperienze lavorative, le prime ingiustizie subite e le numerose incomprensioni a cui questi personaggi sono andati incontro rappresentano un primo assaggio del cosiddetto mondo reale. Ognuno di loro è chiamato alla sfida di trovare il proprio posto in un mondo che va avanti con le sue regole (spesso ingiuste e crudeli), indifferente alle loro fragilità. Nell’affacciarsi a questa realtà, Nancy e Jonathan si sono incamminati insieme – non senza screzi – e hanno dovuto lavorare sulle loro debolezze per resistere non solo al Mind Flayer, ma anche e soprattutto alle sfide che riserverà loro il futuro. Alla luce di tutto questo, le minacce del Sottosopra sembrano davvero impallidire rispetto alla tempesta emotiva causata in tutti i personaggi dall’arrivo inarrestabile dell’adolescenza e della vita adulta.
“We could be heroes, just for one day”

Anche i personaggi più adulti dello show sono chiamati ad affrontare una sfida dopo l’altra. In questo contesto, brilla di una nuova luce Joyce, finalmente più slegata dalla figura di una madre ossessivamente premurosa e messa nel pieno dell’azione al fianco di Hopper e di un sempre strepitoso Brett Gelman nei panni di Murray. Non si può dire altrettanto proprio di Hopper, il personaggio forse meno curato dello show: la rappresentazione di un uomo burbero reso ancora più arrabbiato e insofferente a causa dei traumi subiti in passato è fin troppo ripetitiva, finendo per risultare piuttosto piatta.
Tuttavia, le ultime due puntate dello show hanno il merito di aver ricostruito il puzzle della stagione in maniera eccellente, incastrando ogni pezzo e ogni storyline alla perfezione, per condurci a un finale avvincente sia dal punto di vista narrativo e sia da quello visivo e tecnico (la regia è stata davvero attenta ad ogni inquadratura e ad ogni dettaglio dello show).
Il sapore agrodolce della conclusione di questa stagione – aumentata dalla presunta dipartita di Hopper – si sposa perfettamente con tutti i temi toccati nelle puntate precedenti, mettendo ancora più in risalto il dolore che comporta crescere, prendere una propria strada e trovare la forza di lasciare andare ciò che appartiene al passato e che, lo si voglia o no, non può più tornare. La lettera finale di Hopper (presentataci con la splendida versione creata da Peter Gabriel della celebre “Heroes”) sottolinea proprio questa amara lezione di vita che i nostri ragazzi hanno imparato in questa nuova, assurda avventura. L’epilogo, commovente e così maturo, si presenta davvero come il finale perfetto per questa terza stagione, che ha chiuso un ciclo per aprirne un altro che ha tutta l’aria di presentarsi complesso e affascinante.
Con questa terza stagione, insomma, i Duffer Brothers hanno compiuto un ottimo lavoro, riuscendo a innovare Stranger Things senza snaturare le sue caratteristiche, dimostrando così di saper curare con maestria le numerose sfaccettature di uno show che resta ancora iconico nella sua rapida evoluzione. Non ci resta che aspettare la prossima stagione per scoprire le numerose domande che quella scena post-credit ci ha lasciato.
Voto: 8+

Nel maggio di quest’anno un’ampia campagna promozionale ha coinvolto anche Milano, in un evento che ‘riportava’ Piazza del Duomo nel 1986. Il terreno è stato preparato da tempo dai mezzi a disposizione di un colosso dello streaming dai piedi vacillanti, perché serie come Stranger Things hanno necessità di far parlare di sé ben prima dell’uscita. Oltre tutte le iniziative pubblicitarie, però, poco importa come è stato venduto lo show: conta solo la storia che viene raccontata e che questa sia all’altezza delle aspettative.
La terza stagione ha avuto i suoi alti e bassi: la scoperta dell’adolescenza per Eleven e compagnia aveva fatto emergere tematiche importanti e rimescolato i legami fra i protagonisti, in più di un modo. Qualche volta li ha disattesi: Hopper e Joyce hanno avuto un arco narrativo importante, ma che ha dato loro davvero poco in termini di evoluzione dei loro personaggi, fino ad un finale che ha avuto lati positivi e negativi in egual misura. I fratelli Duffer non hanno fatto davvero male finora, ma adesso sono chiamati a fare più che bene per riconnettersi a quella brillantezza che negli show più longevi tende a svanire. Dopotutto, il successo di Stranger Things non è dovuto solo al fattore nostalgia, altrimenti sarebbe stata solo una meteora: volti come Eleven o Steve, Dustin o Will sono molto amati soprattutto per la profonda caratterizzazione, al di là del loro ruolo sulle scene. Il Sottosopra è un’ambientazione che ha dato tanto alle vicende dello show, ma investire nei personaggi che l’affrontano fa la differenza fra una bella serie e una grande serie.

La trama riprende da quello che avrebbe dovuto essere un nuovo inizio per tutti, dopo la distruzione del laboratorio sovietico sotto Hawkins. Il flashback delle prime scene è un avvertimento per lo spettatore, ma anche il collante per le nuove trame che ruotano attorno al massacro del Laboratorio di Hawkins; questo si rivela un ottimo apripista per la nuova stagione e il mistero contrasta bene con la dolcezza nel piccolo monologo iniziale della lettera di El a Mike. Qualsiasi siano i dubbi nel vedere divisi immediatamente i protagonisti, “Chapter One: The Hellfire Club” mette d’accordo tutti. Il primo episodio ritrova i punti di forza di Stranger Things: crescere è qualcosa che i ragazzi hanno affrontato, ma non sono ancora adulti e le differenti strade prese tracciano solchi importanti fra i membri del gruppo. E se loro sono cambiati, è cambiato anche il modo con cui il Sottosopra interagisce con il mondo ordinario attraverso il nuovo antagonista: il Demogorgone ha fatto il suo tempo e Vecna è una minaccia diversa per i nostri eroi ed eroine, perché è come un punto di incontro fra passato e presente, Hawkins e Sottosopra. Proprio Hawkins sarà scossa fino alle fondamenta, disturbata nella sua lunga esistenza sonnolenta; lo scossone arriva violento nella morte prima di Christie e poi di Fred Benson che sono cruente come raramente lo erano state in Stranger Things. Sarà interessante scoprire dove porteranno gli ultimi due episodi in uscita il 1° luglio sempre sulla piattaforma Netflix.
Precedentemente, la storia ha sempre insistito sui segreti nascosti del piccolo sobborgo americano, rischiando di scadere nella ripetitività. Qui, a detta degli autori stessi, c’è stato il tentativo di portare la storia fuori da Hawkins e i risultati sono ben più che positivi. Non tutte le trame hanno la medesima qualità, ma ognuna funziona nel grande insieme benché alle volte traballi; la fine di “Chapter Three: The Monster and the Superhero” è roboante fino a sembrare un po’ caricaturale. Tuttavia, dividere gli intrecci ha permesso di focalizzarsi meglio su cosa dovrebbe renderli speciali, anche tracciando interessanti paralleli fra i personaggi: la discesa nella verità di Eleven per riconquistare i suoi poteri è analoga alla disperazione di Hopper nel gulag in Kamchatka, fino a ritrovare la voglia di vivere, anziché evitare i suoi cari per salvarli da quella che lui chiama una ‘maledizione’. Una scelta dunque azzeccata, che ha evitato di ereditare i momenti meno riusciti della precedente stagione.

L’ispirazione al Satanic Panic anni ’80 è un bello spunto, che deve realizzare le sue potenzialità. Le disavventure di Joyce e Murray per salvare Hopper dalle mani dei russi non convincono appieno (per esempio l’umorismo a volte fuori luogo), ma David Harbour dà il meglio di sé nelle scene ambientate in Russia, fino alla coinvolgente battaglia gladiatoria contro il Demogorgone catturato dai sovietici. Forse il filone più debole è quello del ‘camioncino della pizza’, per il poco carisma dei personaggi coinvolti o per il tenore delle scene nella casa di Suzie, che non sembrano appartenere a Stranger Things ma a uno show completamente diverso e anche un po’ troppo derivativo, che nulla ha a che fare con l’identità faticosamente costruitasi da una delle punte di diamante di Netflix.
Come già accennato, senza personaggi con cui simpatizzare è difficile essere coinvolti in una storia, ma la quarta annata di Stranger Things fa un ottimo lavoro in questo versante, sia per le vecchie conoscenze che per i volti nuovi. Le interazioni sono realistiche e molto sentite e le dinamiche fra i personaggi rafforzano vecchi rapporti o ne creano di nuovi.

Menzione d’onore va fatta a Max, sempre interpretata da Sadie Sink. La bellissima fuga da Vecna con in sottofondo Running Up That Hill di Kate Bush sembra già destinata ad essere una delle scene più famose di quest’anno seriale, ma la fama è anche data dal come si è giunti all’epico finale di “Chapter Four: Dear Billy”.
Questa è stata infatti anche la stagione di Max attraverso il trauma e i rimpianti verso il fratello Billy, e attraverso l’influenza di Vecna che per poco non la porta via con sé. È maturata in una persona diversa, ma non è ‘guarita’ dal suo trauma; lo sta lentamente accettando e si sta aprendo alle persone a lei care.
Purtroppo, rimane qualche nota dolente anche per i personaggi. Fra le vecchie conoscenze, Will sembra lasciato sin troppo sullo sfondo e, sebbene nei primi episodi sia sensato, è quanto mai caricaturale vederlo sempre messo da parte e relegato a gregario. Lo stesso si potrebbe dire di Joyce, personaggio che ancora deve superare il goffo ruolo affibbiatole, nonostante l’interpretazione sempre all’altezza di Wynona Rider.
I nuovi personaggi convincono: il carismatico Eddie, la segregata Chrissie e il succitato Vecna/001 si amalgamano bene con i nostri eroi, incrociando storie brevi ma incisive. L’unico fuori posto sembra Argyle, il compare di Jonathan, che risente del far parte della trama più debole e di essere solo una dimenticabile spalla comica, anche abbastanza stereotipata.
Questa prima parte della quarta stagione è un grande passo in avanti per Stranger Things, che cambia pur senza tradire le sue qualità migliori e si sbarazza un po’ di certe stagnature e sbavature di cui si era macchiata. Ora, a poco meno di un mese dall’uscita del finale di stagione, le aspettative sono alte: riusciranno solo due episodi a sbrogliare l’interessante matassa che si è dipanata da Hawkins fino in Russia?
Voto: 8

Il Volume 2, composto da sole due puntate, non delude le aspettative. Anche se la scelta di non operare una divisione più equa tra gli episodi è inusuale, questa potrebbe essere motivata in parte dalla chiusura del Volume 1 con la rivelazione sulla reale identità di Vecna – che aveva lasciato un cliffhanger degno dell’attesa – ma anche dall’ampia portata di questi ultimi due episodi, lunghi e densi di contenuto.
La narrazione riprende con Nancy prigioniera di Vecna-001, che le mostra la verità sulle sue origini ma anche il prossimo futuro della cittadina di Hawkins, lasciandola andare solo per consentirle di riferire il messaggio a Eleven. Questo è solo l’inizio degli ultimi due intensi episodi, che si snodano attraverso i filoni paralleli di ogni gruppo di protagonisti. Seppur necessario, il fatto di portare avanti così tante linee narrative in contemporanea rappresenta una pecca: infatti non a tutti viene dato lo stesso spazio, ma soprattutto lo stesso spessore. Il proliferare di personaggi e storyline non facilita la necessità di incastrare tutto nel tempo a disposizione, fattore che finisce per ridurre alcuni passaggi e personaggi a contorno, limitando e ridimensionando ruoli in precedenza ben più importanti. Questo porta a un effetto discontinuo, con alcune narrazioni che funzionano decisamente meglio rispetto ad altre; su tutte quella di Eleven, ben strutturata e funzionale non solo per la trama dell’intera serie ma anche per il suo personaggio e per l’evoluzione che ancora una volta attraversa. Il progredire della protagonista, interpretata da una sempre più brava Millie Bobby Brown, è curato davvero nei dettagli e non solo per il ruolo centrale che ricopre. Il tortuoso percorso di Eleven alla ricerca di se stessa e del senso nei suoi poteri ha raggiunto una portata davvero ampia e ogni tassello della sua storia deve essere perfettamente incasellato, al fine di riuscire a spiegare e tenere in piedi l’intero destino di Stranger Things.

Se la storyline di Eleven è completa e non lascia nulla al caso, per altre trame parallele non è sempre possibile affermare lo stesso: i gruppi formati da Will, Mike, Jonathan e Argyle, e quello di Joyce, Murray e Hopper, hanno un’incisività un po’ sottotono. In più occasioni i dialoghi sono limitati allo scorrere degli eventi, ed entrambi i gruppi si salvano grazie ad alcune – poche – scene che rendono maggiore giustizia ai personaggi, e che sono poi quelle in cui si lascia spazio all’emotività: da Joyce e Hopper che si ritrovano ancor più solidamente legati, ai fratelli Byers che ritrovano l’equilibrio, ma anche al dialogo tra Will e Mike. Proprio questa scena colpisce più per la sensibilità dimostrata da Will – la quale si rafforza tanto da fargli fare un passo indietro rispetto ai suoi sentimenti pur di confortare l’amico e dargli forza in un momento di difficoltà – che per il tentativo di infilare il tema dell’omosessualità. Il suo discorso a Mike è emozionante, ma riuscito a metà: un po’ perchè ci si chiede se qualche minuto sia bastato per far riemerge una dimensione emotiva così segnata, un po’ perchè appunto il tema dell’omosessualità appare infilato senza troppo contesto. Probabilmente Netflix puntava molto sulla tematica ma in questa scena riesce poco: infatti il tema è molto più nitido nella trattazione attraverso Robin, portata avanti già nelle precedenti stagioni in modo più lineare. Anche il tentativo di risollevare il ruolo di Will facendogli rivelare di essere ancora legato al Mind Flayer e al Sottosopra è un po’ scarno; si auspica che entrambi i punti siano solo una preparazione di terreno per il ritorno del personaggio a un ruolo di maggior rilievo, dando così alle poche scene in cui è protagonista un seguito più corposo.

L’ultimo filone narrativo è quello che riguarda il villain Vecna-001; la sua figura non è solo intrigante, ma dà anche finalmente un volto a quella forza oscura che si presumeva dominasse il Sottosopra. Mosso da una malvagità insita e dal desiderio di controllo di tutto e tutti, devasta tutto quello che ha intorno e ne assorbe fino all’ultimo granello di energia. Anche il rapporto tra Vecna e Eleven mostra una certa complessità, perché i due sono come le due facce di una stessa medaglia: da quando abbiamo appreso il potere di Eleven di aprire varchi tra terra e Sottosopra, comprendendo come di fatto sia lei stessa l’autrice della trasformazione di 001 in Vecna, è inevitabile chiedersi se anche lei non racchiuda una parte della natura malvagia di 001. Con Vecna-001 Stranger Things ha acquisito l’antagonista definitivo, l’obiettivo da sconfiggere insieme, coalizzandosi e facendo fronte comune, soprattutto dopo che tutti i personaggi hanno fatto ritorno a Hawkins.

Voto: 8–