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The Walking Dead – 6×01 First Time Again
Terminata la parentesi californiana di Fear The Walking Dead, torna finalmente la serie madre, con un episodio che prepara il setting per il “governo” di Rick Grimes in quel di Alexandria. Almeno fino a quando Alexandria durerà...

Dopo che il prequel di The Walking Dead è riuscito nell’impresa quasi impossibile di farci rimpiangere la serie originale, torniamo a seguire le vicende di Rick e compagni, con una buona premiere che riprende il filone positivo degli episodi ambientati nella safe-zone di Alexandria.

L’attuazione del piano per gestire una pericolosa orda di centinaia di zombie diventa il pretesto per raccontarci, con alcuni flashback in bianco e nero, le conseguenze del precedente season finale e l’introduzione dei nuovi equilibri che caratterizzeranno questa prima metà di stagione. Ciò che, però, questa premiere sancisce è soprattutto il passaggio della figura dello zombie, prima pericolo numero uno di questo mondo apocalittico, ad animale addomesticato e addomesticabile; ormai c’è infatti una totale aderenza dei protagonisti al mondo che li circonda nella gestione dei walkers, tanto che la differenza con chi quel mondo non l’ha ancora mai vissuto è ben evidente nella scarsa capacità dei cittadini di Alexandria di confrontarsi con i non morti.

Lo zombie dunque non è più il mostro, si aggira come un demone pronto a punire l’essere umano al primo errore di valutazione ma non rappresenta più il pericolo principale; bensì, è l’elemento umano spogliato della civiltà a delineare di nuovo quei contrasti su cui la serie vuole focalizzarsi (del resto, è proprio il clacson finale a scompigliare la “mandria” di zombie che invece procedeva guidata in una precisa direzione). È questo il terreno su cui la stagione sembra voler giocare: l’utopia di Alexandria come ultimo baluardo della civiltà umana e la sua necessità imprescindibile di dover scendere a compromessi con l'”insane world” finora ignorato al di là delle sue mura.

Il problema principale è sempre quello: la ripetitività. Certo, lamentarsi ormai della ciclicità con cui The Walking Dead reitera i suoi schemi è pressoché inutile. È un dato di fatto, fa parte ormai del DNA di una serie che non ha una sua precisa direzione narrativa. Pete era stato il nuovo Shane, punto di svolta per il personaggio di Rick verso il baratro della follia e l’instaurazione di una nuova Ricktatorship; Morgan è il nuovo Hershel (per fortuna meno religioso) a cui spetterà il ruolo di bussola morale col compito di riportare il protagonista sulla retta via (ma speriamo non a coltivare di nuovi fagioli negli orti).

Che lo si accetti o lo si rifiuti, The Walking Dead è dunque ormai questo: ripetizione. Ogni volta, ci sembra già di sapere come funziona il gioco e soprattutto come probabilmente andrà a finire (la caduta di Alexandria per mano degli zombie o per implosione della comunità interna). È dunque, però, tutto da buttare? Non del tutto. Se da una parte è vero che questa “ripetizione” genera una prevedibilità talvolta imbarazzante (qui non c’era altro da fare che aspettare il momento in cui il piano sarebbe andato storto) e riduce spesso gli unici momenti di interesse alla scoperta dei nuovi setting e alle apparizioni delle orde di zombie, dall’altra parte è anche vero che, quando questi schemi vengono applicati bene, persiste comunque una dose sufficiente di intrattenimento.

Diversamente dalle parentesi dell’ospedale o di Terminus o, ancora peggio, di quello che era stato il viaggio verso Terminus, il mondo di Alexandria è sempre stato costruito fin dall’inizio abbastanza bene, con personaggi molto più interessanti che in passato e, di conseguenza, con dinamiche più riuscite. Deanna funziona come leader, soprattutto perché un po’ più credibile e realistico come personaggio rispetto a quello più fumettistico del Governatore; allo stesso modo, funziona il rapporto tra Rick e Morgan (con Michonne interessante terzo elemento, seppure per ora solo silenziosa osservatrice).

E poi, come altre volte già sottolineato, The Walking Dead riesce lì dove c’è il gruppo ad agire e non il singolo. Il ritmo dell’episodio beneficia proprio di queste dinamiche corali, e può permettersi di mettere da parte personaggi come Carol o Michonne (le più sacrificate di questa premiere) perché alla fine ciò che conta di più è l’unità rispetto alle sue singoli parti (sulle quali, invece, la serie ha quasi sempre fallito quando ha deciso di approfondirle). Ed è anche per questo che il percorso di Rick diventa più convincente proprio quando messo a confronto con le persone del suo stesso gruppo, rispetto a quando si rapporta con le singole figure di leader che ha incontrato nel suo viaggio.

The Walking Dead riparte dunque con un episodio non entusiasmante ma comunque interessante, in cui si rende evidente la stanchezza a livello narrativo che ormai sta divorando lentamente la serie, ma anche quanto di buono è stato fatto fin dall’anno scorso con il microcosmo di Alexandria. Il quesito principale da porsi è: quanto durerà questa situazione? Come trovare un escamotage che non sia la solita invasione di un elemento esterno per portare la narrazione allo step successivo? E soprattutto, quale sarà lo step successivo? Un’altra safe-zone? Un’altra comunità? Sono principalmente questi i dubbi che si addensano su una serie che comunque non sembra avere più molto da dire.

Voto: 7
The Walking Dead – 6×02 JSS
La premiere della sesta stagione di The Walking Dead aveva disorientato gli spettatori giocando con lo spazio e col tempo, piegandoli – anche in modo maldestro – come mai aveva fatto prima. In questo episodio la serie torna ad una narrazione già collaudata e meno coraggiosa, mettendo in scena molta azione come non si vedeva da un po’.

L’intervento sul tempo è minimo rispetto a “First Time Again“, ma non per questo meno utile alla puntata: utilizzato in modo tattico, permette – soprattutto nel primo segmento dedicato a Enid – di mostrare gli avvenimenti davvero interessanti, quelli significativi. La morte dei genitori della ragazza non viene mostrata per dare spazio alla sua disperazione dentro alla macchina; la visione della violenza viene soppiantata dalle sue conseguenze, che possono essere terribili, come la morte dei genitori, o positive, come il trovare riparo o la tartaruga che si trasforma in nutrimento. In questo modo la violenza non diventa un evento negativo a priori, ma viene contestualizzata e assume un ventaglio di significati diversi, tutti accomunati dalla spinta alla sopravvivenza insita nell’essere umano, che, vivo o non vivo, cerca di preservare la condizione in cui si trova. Per questo Enid, quando lacera le carni della tartaruga, sembra lei stessa uno zombie, sporca di sangue e terra, in silenzio e vorace come i non morti; se già non fosse chiaro, i morti e i vivi sono diventati la stessa cosa.

Il lavoro su Enid in “JSS” non finisce qui. La parte iniziale a lei dedicata è profetica, molto evocativa e simbolica: la morte dei suoi genitori la fa diventare adulta tutto d’un colpo e fa partire un’evoluzione di quel personaggio che avrebbe dovuto avvenire con altri tempi e altre modalità. Quella di Enid è una seconda nascita, a cui segue un’evoluzione quasi antropologica: la possiamo paragonare agli antenati dell’homo sapiens che lentamente diventano uomini passando attraverso la conquista della natura, la caccia, le incisioni rupestri (in questo caso la scritta JSS), il primo utilizzo di utensili (le ossa della tartaruga), l’aggregazione in comunità e la prima parola. Questa evoluzione, condensata in pochi minuti, segna profondamente un personaggio che però il pubblico conosceva poco e su cui è difficile fare un confronto con il prima.

Un tema importante che caratterizza la prima metà dell’episodio e che ha il compito di traghettarci verso l’azione di “JSS” è il rapporto tra genitori e figli, per niente inedito in The Walking Dead. Carol e Sam, Jessie e Ron, Deanna e Maggie sono le tre coppie che abbracciano questo tema – collegato fortemente a quello della perdita del padre – e che tentano di raccontare tre modi differenti in cui comportarsi, o almeno tre momenti diversi che il fato, prima o poi, potrebbe farci vivere. La prima coppia si basa sul passato di entrambi i componenti: Carol e Sam hanno perso membri importanti della propria famiglia, ma allo stesso tempo sono stati liberati da una figura maschile violenta. Questo rapporto sembra un non rapporto, visto il comportamento scontroso e distante di Carol, ma in verità è il più genuino di tutti: la donna gioca a fare la dura con il ragazzino, ma inconsciamente non può non pensare a sua figlia e cercare di evitare a Sam una sorte del genere. Le parole sempre dure verso Sam sono un incitamento a reagire e a crescere convivendo con quella liberazione che è allo stesso tempo una maledizione. Questa è la realtà ed è bene che Sam la conosca subito: in un mondo che può portare via qualsiasi cosa in un batter d’occhio, saper incassare ogni colpo basso è l’unica arma che gli permetterà di andare avanti. È questo l’insegnamento di Carol, che si comporta con il piccolo un po’ come l’allenatore burbero nei film di arti marziali.

Se è vero che gli insegnamenti che fanno veramente maturare una persona sono raramente accompagnati da carezze e coccole, è altrettanto vero che una madre non può far altro che dispensarne in quantità soprattutto nei momenti difficili, come cerca di fare Jessie con Ron. Tale rapporto è l’unico caratterizzato da una vera a propria parentela: per questo la donna cerca di fare meno male possibile al figlio comportandosi più che come madre, come amica. Il modo irrispettoso con cui Ron le risponde non viene punito e la donna si ritrova di nuovo sola: la morte di Pete per mano di Rick ha sconvolto suo figlio, che oltretutto si trova a vivere una fase della vita tra le più difficili. Il comportamento di Jessie non porta Ron sulla strada giusta, ma gli dà una possibilità di scelta, cosa che lui non è ancora in grado di fare. Sbagliare è facile, soprattutto in un mondo che non ti perdona neanche un tentennamento. Se Carol è troppo dura per proteggere Sam, Jessie è troppo permissiva credendo di fare del bene; entrambe sono mosse da un grande amore verso quei bambini che rappresentano una generazione futura troppo indifesa per sopravvivere al mondo.

La terza coppia affronta la perdita della figura maschile in modo più adulto, grazie all’età delle due protagoniste. La grande matriarca Deanna ha perso (non solo) suo marito e Maggie si cala nel ruolo di figlia al suo fianco. Deanna, leader forte che per lungo tempo ha fatto funzionare le cose all’interno di Alexandria, soffre per la perdita di un marito che l’ha accompagnata fedelmente nel suo cammino attraverso le numerose difficoltà prima e dopo l’epidemia zombie. Mentre negli altri due casi il dolore era forte ed era esposto, in questo caso la donna deve farsi forza per andare avanti e pensare alla comunità che in qualche modo dipende da lei. Così non può permettersi di piangersi addosso, ma deve reagire subito, anche se il dolore è forte; Maggie sembra sposare questa linea di pensiero e la aiuta nel processo, trattandola con rispetto.

Questo grande tema non può non includere Enid e la sua storia raccontata in questo episodio: anche lei, improvvisamente orfana di entrambi i genitori, deve sopravvivere, però in questo caso è da sola; una figura saggia che la accompagni in questo processo non c’è, e l’unica cosa che la ragazza può fare è imparare tutto da sola. Neanche il momento dell’elaborazione del lutto però può essere vissuto in modo adeguato, perché la minaccia è sempre dietro l’angolo: l’attacco ad Alexandria mette in pausa le vite di tutti, interrompendo un momento di autoanalisi in modo violento e inaspettato. Per questo l’insegnamento di Carol potrebbe essere il più sbagliato, ma per ora è l’unico che porta dei vantaggi – e, infatti, è lei la prima ad accorgersi dell’attacco.

“JSS” non prova solo ad insegnarci questa lezione a parole, ma la mette in pratica nel modo più duro possibile: il cambio di registro tra la prima e la seconda parte della puntata ci fa entrare nell’azione alla velocità di una delle pallottole esplose dai residenti di Alexandria per difendersi. Il ritmo aumenta in modo graduale prima – per farci capire cosa stia succedendo – e poi diventa sempre più veloce, come sono veloci i colpi di macete sui corpi morti a terra. L’uomo è diventato definitivamente il vero nemico dell’uomo; egli si è trasformato in zombie e viceversa. Queste due figure si fondono anche esteticamente: vediamo corpi senza braccia (come i non morti portati al guinzaglio da Michonne) e interiora sparse sull’asfalto accompagnate da fiumi di sangue che condiscono il tutto. Anche le modalità della morte sono le stesse di quelle utilizzate per difendersi dai walker: una coltellata in testa pone la parola fine all’esistenza del nemico e i cadaveri bruciano (come la vedetta sulle mura all’inizio dell’attacco). Anche la W incisa sulla fronte degli zombie trovati nella passata stagione ricompare, ma questa volta su degli uomini vivi, sporchi, violenti e assetati di sangue e di vita proprio come i non morti.

La cosa che fa più paura è che, al contrario dell’esercito del Governatore davanti alla prigione, in questo caso l’attacco non è spinto da motivazioni che mettono le loro radici nel passato: le cause si ignorano e sia le modalità dell’invasione, sia le poche parole dell’intruso atterrato da Morgan e Padre Gabriel non farebbero pensare ad un attacco per impadronirsi della città fortificata; la pura violenza sembra essere alla base di tutto, cieca e senza un motore razionale da spegnere. Per questo “JSS” è una delle puntate più horror di The Walking Dead, nel senso letterale del termine: la paura alimentata da qualcuno capace di intendere e di volere ci fa temere realmente per la vita dei protagonisti, più che il rischioso piano allontana-zombie di Rick. Tutto accade giusto il tempo di cuocere il pranzo, ma le conseguenze segneranno profondamente più che i componenti del gruppo di Rick tutti gli altri, che si sono confrontati per la prima volta con il peggio che il mondo di oggi può proporre loro. Chi è sopravvissuto è cambiato, si è evoluto – proprio come accade ad Enid prima della sigla – da essere umano a persona consapevole nel giro di un istante.

Nonostante l’alto tasso di coinvolgimento dello spettatore – che, travolto da quel fiume in piena che è “JSS”, viene trasportato fino alla fine senza neanche accorgersene –, gli eventi di questo episodio riprendono, seppur non pedissequamente, fatti già accaduti in passato, ripetendo uno schema che il pubblico di The Walking Dead conosce molto bene: l’ennesima invasione porta scompiglio e mette in pericolo la comunità che deve rimettersi in cammino per sopravvivere. Era già successo con la fattoria di Hershel, con la prigione e con il pericoloso Terminus; Alexandria diventa l’ennesima tappa di un percorso a spirale, che inevitabilmente ci suggerisce già cosa verrà dopo. La ripetitività diventa quindi uno dei punti deboli della serie, a cui si cerca di ovviare con episodi carichi di tensione e dal ritmo serrato come “JSS”. Ma basterà?

Voto: 7,5
The Walking Dead – 6×03 Thank You
Un’altra puntata carica d’adrenalina per questa nuova stagione di The Walking Dead, che procede con una modalità espositiva capace di rispondere allo scopo precipuo dello show: l’intrattenimento. Dopo una première ancora sottotono, gli ultimi episodi di questa nuova annata sono riusciti a riportare il racconto verso una linea narrativa convincente, soprattutto rispetto agli standard della serie.

Gli eventi conclusivi dello scorso season finale ci avevano lasciati con la sensazione che la permanenza ad Alexandria potesse evolversi ricalcando gli eventi di Woodbury, anche se la consistenza di Deanna come leader ha mostrato, sin da subito, una concretezza maggiore rispetto a quella posseduta dal Governatore. Nonostante lo scontro interno tra fazioni opposte permanga come sostrato dell’azione, l’idea di incentrare l’esordio stagionale su una minaccia situata fuori dalle mura della città sposta il racconto lungo una direttrice narrativa capace di trattare la polarità fra i due gruppi in una forma meno introspettiva e più ricca azione. Alla cava piena di zombie intrappolati dai tir si unisce un’insidia inattesa: i wolves, uomini ancora in vita che mostrano uno stato di violenza e disumanizzazione ancora più inquietante dei non-morti. Questa stratificazione tematica si proietta nel racconto attraverso una stratificazione temporale che ne accresce la portata narrativa, riuscendo a sfruttare le derive adrenaliniche del convulso precipitarsi degli eventi.

“Thank you” riprende la narrazione della première, mostrandoci quello che succede al gruppo fuori Alexandria mentre la città viene attaccata dai wolves. Già nel corso dell’episodio precedente la narrazione aveva subito un’accelerazione che in questa puntata si intensifica ulteriormente, riportando lo show lungo parametri strutturali che non si vedevano da un bel po’. Nel corso delle ultime stagioni, The Walking Dead aveva quasi perso quella carica di suspense emanata dalla costante precarietà del percorso dell’uomo in un mondo apocalittico, postulato tematico su cui ruota l’intero nucleo centrale della serie. Questo episodio, come il precedente, ha il pregio di riportare questa sensazione al centro della narrazione. Certo, parliamo sempre di The Walking Dead, e il risultato non è completamente esente da un senso perenne di dejà vu, così come non mancano dialoghi affettati e pause diegetiche inutili, ma ciò non toglie che gli eventi siano narrati con una sequenzialità ritmica capace di far riemergere quella percezione di ansia mista ad angoscia che ha caratterizzato l’esordio dello show.

All’interno di questa strutturazione pesano meno anche quelle costanti ripetizioni a cui lo show non evita certo di cedere; come ad esempio, l’esplorazione della dialettica che vede contrapporsi il gruppo di Rick – abituato a contrastare pericoli inattesi – e il gruppo dei residenti di Alexandria, incapaci di rendersi conto della reale portata delle minacce fuori dalle mura. La forza e l’ostinazione dei primi si scontra con la stanchezza, la disperazione e il senso di sfiducia dei secondi, in preda al panico per la situazione precaria in cui si trovano e per il timore di ciò che possa essere accaduto a “casa”. Per quanto questa sia una situazione interazionale già ampiamente approfondita dallo show, la concretezza del pericolo in cui versano tutti – Alexandria compresa – e la brevità dello spazio concesso all’approfondimento del conflitto, fanno sì che la ripresa del tema risulti ampiamente in linea con la narrazione degli eventi, che per la prima volta dopo tanto tempo si manifestano con un’implacabilità capace di minare anche la fiducia dei più forti.

We keep going forward for them. Can’t turn back cause we’re afraid.

Staccatosi dal gruppo, con l’intento di fermare l’orda che si dirige ad Alexandria in un altro modo, Rick passa l’intero episodio da solo, districandosi nell’imminenza della catastrofe con una freddezza che fa da contrappunto all’umanità mostrata dall’altro segmento narrativo con protagonisti Glenn e Michonne. Non si scompone di fronte ai compagni uccisi, anzi prende armi e viveri dai cadaveri con una glaciale scioltezza che lascia interdetti gli altri componenti del gruppo. Inoltre, incita Michonne e Glenn ad avere come priorità il ritorno a casa prima dell’arrivo dell’orda, anche a costo di lasciare qualcuno indietro. Nonostante le insidie e la costante paura che l’orda possa distruggere quell’angolo di paradiso ritrovato, Rick non molla neanche per un secondo il suo ruolo di leader: il discorso alla radio, per quanto affettato e ripetitivo, rappresenta l’essenza di un uomo che non si sente libero di lasciarsi andare alla disperazione, che cerca la forza di reagire anche quando si trova da solo e in preda al panico con il camper che non parte, l’orda all’orizzonte e la certezza che ad Alexandria sia già successo qualcosa. Per Rick l’utopia della città ecosostenibile è un bisogno da difendere, da proteggere a ogni costo per il bene del suo gruppo e in particolare per il bene dei suoi figli: Alexandria non è un rifugio come gli altri, è l’unico posto dove gli è sembrato possibile che Carl e Judith possano crescere in una parvenza di normalità.

Have you ever been covered in so much blood that you didn’t know if it was yours or walkers’ or your friends’?

Al freddo distacco di Rick si contrappone la diplomatica umanità di Michonne che in questo episodio diviene baluardo di ogni critica o lamentela da parte del resto del gruppo, impaurito fino al midollo per la situazione che si apprestano ad affrontare. Il suo dialogo con Heath nel negozio di animali è l’emblema della sua linea di leadership: dura, ma al contempo morbida, permeabile, e con il solo obiettivo di non dover seguire fino in fondo quel consiglio che Rick le ha dato prima di andarsene. Tuttavia, più l’imperativo è forte nel suo cervello, ancor più gli eventi le si scagliano addosso con una inevitabilità che la spiazza e destabilizza. Nonostante ciò, niente emerge all’esterno, anche quando, rimasti in tre, la mancanza del fumo la fa temere per Glenn: non c’è spazio per dubbi, angosce o disperazione, bisogna andare avanti, occorre ritornare a casa. Era da tempo che il personaggio non ricevesse un ruolo centrale nell’azione per mostrare e approfondire quella stratificazione che la anima già da un bel po’, ovvero quel bisogno di mediare la forza con l’umanità, la protezione con l’attenzione ai sentimenti del prossimo, la salvezza con l’affetto.

You’re not that guy anymore.

A patire più degli altri la precarietà della situazione è sicuramente Nicholas, perso nel tacito obbligo di sfruttare l’occasione per riscattarsi dagli errori commessi in passato. Tuttavia, ritrovarsi in quello stesso luogo in cui ha vissuto uno dei suoi momenti peggiori accresce la destabilizzante sensazione di inutilità che lo tormenta da qualche tempo. Nonostante Glenn cerchi di infondergli fiducia e coraggio, rimarcando anche quanto sia diverso rispetto a prima, la follia prende il sopravvento e, gridando quel «thank you» che titola l’episodio, si lascia andare alla morte. Il corpo di Glenn scivola con lui, ma le immagini ci mostrano la dinamica dell’azione in un modo volutamente confuso che lascia ancora molti dubbi sull’effettivo esito dell’accaduto.

La morte, presunta o reale, di Glenn ha comunque il merito di riportare il racconto lungo un’altra direttrice narrativa da molto tempo non ampiamente sfruttata: il mondo di The Walking Dead è – o almeno dovrebbe essere – un posto in cui nessuno è veramente al sicuro, in cui ci si può salvare da un’orda di walkers e perire per una semplice distrazione. A ogni modo, nel caso sia successo davvero, una morte di questo tipo non è certo il modo migliore per dare l’addio a un personaggio cardine dello show, quale Glenn è stato sin dagli esordi. Infatti, proprio questa mancanza di approfondimento, unita a un’evoluzione estremamente repentina, potrebbe lasciar supporre che, qualsiasi cosa accada, la faccenda non sia ancora definitivamente chiusa.

“Thank You” è un episodio violento, per certi versi triste e per altri ricco di suspense e adrenalina. Gli stilemi negativi della serie, che ormai potremmo definire “tipici” – ripetitività strutturale, assetto dialogico scarno ma allo stesso tempo ridondante –, ci sono ancora, ma la puntata può considerarsi riuscita per una ritrovata coerenza stilistica verso quei punti focali alla base del concept di uno show che non ha mai avuto la pretesa di indagare l’animo umano quanto di mostrarci – con la giusta dose di spettacolo che si confà al genere – le estreme conseguenze di un graduale processo di disumanizzazione.

Voto: 7½
The Walking Dead – 6×04 Here’s Not Here
Era chiaro a tutti che, dopo i colpi di scena e l’azione incessante dei primi tre episodi, questa sesta stagione di The Walking Dead avrebbe rallentato decisamente il ritmo. Lo fa con un lunghissimo flashback su un personaggio molto caro ai fan della serie.

Utilizzare un intero episodio per raccontare la storia di un personaggio, rimasta ignota agli spettatori, è una scelta rischiosa, ma anche un ottimo espediente per prendersi una pausa dalla continuity degli eventi che si svolgono nel presente e per analizzare più a fondo l’evoluzione caratteriale del protagonista della puntata. Sono episodi fondamentali per i prodotti televisivi che devono sviluppare stagioni molto lunghe – l’ha fatto Agents Of S.H.I.E.L.D. recentemente con grandi risultati – ma che per funzionare e, soprattutto, non annoiare hanno bisogno di una struttura narrativa solida e di contenuti interessanti. “Here’s Not Here” difetta chiaramente nel primo di questi due presupposti.

Non è una novità che la serie creata da Kirkman non possieda un impianto narrativo solido, in grado di gestire al meglio dei personaggi coerenti e delle storie interessanti; il più delle volte, per ovviare a questa mancanza, gli autori hanno puntato molto sulla componente action, lasciando l’introspezione solo come contorno degli episodi, ottenendo come risultato un prodotto di intrattenimento valido. In questo caso, invece, Gimple ci introduce in un episodio altamente introspettivo, che sviluppa uno dei temi più delicati dell’etica: il concetto di umanità. Per far ciò si serve del personaggio di Morgan (Lennie James), coprotagonista di Rick in questa annata, partendo dagli eventi della terza stagione, esattamente dall’episodio “Clear” in cui l’aveva visto l’ultima volta Rick prima di Alexandria.

Come è stato già detto, il problema principale dell’episodio è la scrittura. Nonostante l’interesse che Morgan suscita – anche grazie ad una buona interpretazione da parte dell’attore – è difficile riuscire ad appassionarsi, e a volte non annoiarsi, ad una narrazione troppo distesa, che dà l’impressione che sarebbe bastata la metà della durata dell’episodio per raccontare esaustivamente i diversi passaggi emotivi e caratteriali del personaggio. Anche i pochi dialoghi, da sempre tallone d’Achille della serie, risultano troppo lunghi e privi di incisività, risultando pesanti al netto di un episodio da sessantaquattro minuti.

Per fortuna dove fallisce la messa in scena riescono a salvarsi i contenuti, anche se con la solita povertà di idee generalizzata a cui ci ha abituato la serie. Nella prima parte dell’episodio, Morgan è un uomo devastato e senza scopo, che uccide per non essere ucciso nell’attesa di una morte che ponga fine alle sue sofferenze (“Kill me!”). Il peso che si porta dietro è la morte della sua famiglia, mai chiamata per nome fino al termine dell’episodio, e il senso di colpa di non essere riuscito a salvare il figlio Duane. Il tema della salvezza sarà fondamentale per portare Morgan ad abbracciare interamente un nuovo ideale di vita che non si concentri più sulla morte dei suoi cari e sul pessimismo cronico, ma sulla centralità dei vivi e sulla speranza di un futuro possibile anche nel mondo post-apocalittico di The Walking Dead.

Questo passaggio viene mediato da Eastman, un ex-psichiatra, ora contadino e allevatore con la passione dell’aikido e con una filosofia pacifista che lo guida, incontrato per caso dal protagonista. Superata la forzatura narrativa, però necessaria allo sviluppo della trama, si riesce a entrare facilmente in sintonia con il personaggio interpretato da John Carroll Lynch (American Horror Story: Freak Show) che, come si scoprirà nel finale, ha molti punti di contatto con Morgan. Il percorso di redenzione affrontato dai due richiama il meccanismo maestro-allievo, con Morgan che impara a poco a poco a fidarsi di Eastman, superando lo scoglio emotivo che lo porta a cercare la morte e la “pulizia” in chiunque incontri, sia esso vivo o morto.

Con la dipartita del suo nuovo mentore, Morgan riceve in eredità uno scopo, un nuovo motivo per andare avanti che lo porta alla ricerca della vita, non più della morte. Il percorso affrontato dal personaggio è chiaramente speculare a quello di Rick, a cui si contrapporrà, molto probabilmente, per tutto il resto della stagione. Da sottolineare la compassione mostrata nei confronti del prigioniero nel finale dell’episodio: è una riproposizione della situazione tra lui e Eastman, con la differenza che Morgan non può fare quel passo ulteriore, non può riporre una totale fiducia nella possibile redenzione dell’individuo – chiude a chiave il cancello invece di lasciarlo aperto – poiché antepone ad essa la sicurezza degli abitanti di Alexandria.

Dopo tre episodi che hanno fatto ben sperare sulla ripresa improvvisa della serie, The Walking Dead rallenta nuovamente inciampando su alcuni difetti classici della sua storia: eccessiva lunghezza espositiva, povertà di idee, forzature narrative. L’episodio non è, tuttavia, totalmente da bocciare, con l’evoluzione del personaggio di Morgan a tratti interessante e una buona interpretazione di entrambi gli attori; la speranza è che nell’immediato futuro si torni ad uno stile meno introspettivo e più d’azione, una formula vincente che ha saputo produrre puro intrattenimento all’inizio di questa annata.

Voto episodio: 6-
The Walking Dead – 6×05 Now
L’altalena qualitativa di The Walking Dead continua imperterrita, con un altro episodio che ben rappresenta la summa di tutti quegli elementi che tengono ancorato lo show alla sua mediocrità: come sempre, dopo un credito d’azione accumulato all’inizio della stagione, arriviamo a una situazione di frustrante stallo nella trama e di imbarazzante trascuratezza creativa dello script.

I don’t get to know what happened, I don’t get to know why it happened

Ci sono molte cose che non vanno in “Now”, a partire dallo storytelling casuale: se da una parte la scelta di raccontare la stessa giornata cruciale dell’assedio di Alexandria da diverse ottiche e in diverse ambientazioni potrebbe sembrare una scelta interessante per movimentare lo show (anche se sicuramente non originale, è un escamotage almeno funzionale al racconto corale), dall’altra le potenzialità del tipo di racconto cozzano con il grande problema di The Walking Dead, ovvero i personaggi. Alexandria, purtroppo, ha portato davvero pochi miglioramenti allo show da questo punto di vista.

This is what life looks like now

Inizialmente, nella scorsa stagione, il clash culturale con l’ambiente ristretto della città aveva condotto a uno sviluppo interessante per i protagonisti, ma il passare del tempo e l’accresciuta integrazione non hanno certo portato l’arricchimento e la profondità che si potevano sperare; anzi, hanno soltanto aggiunto personaggi che sono perlopiù inutili, figurette funzionali ai plot twist nei casi più positivi (Aaron) o caratteri stereotipati in quelli peggiori (Deanna). In generale, ci importa pochissimo di tutti loro, per colpa di una gestione delle emozioni e della perdita superficiale spesso riservata anche ai protagonisti, come per il lutto di Maggie, che altro non è se non la fotocopia di tanti altri momenti già visti nelle passate stagioni, a dispetto dell’inserimento di due o tre mud zombies per accontentare gli appassionati. Forse anche per colpa dell’ambientazione suburbana – mal gestita da un punto di vista di messa in scena, che in teoria dovrebbe evidenziare il contrasto dentro/fuori ma in realtà ne sfrutta in minima parte le potenzialità –, The Walking Dead sembra diventato un drama familiare con contorno di zombie, e somiglia in modo sempre più inquietante a Fear The Walking Dead, con tutto ciò che ne consegue.

I’m a terrible human being

Anche una certa confusione nella trama contribuisce alla noia generale che pervade la puntata: il cliffhanger di Rick prigioniero degli zombie che si risolve semplicemente con una corsetta con la mandria alle calcagna, l’ovvietà dello sviluppo degli eventi riguardanti Carl (per non parlare della mancanza di solidità nelle ragioni dell’odio tra lui e il figlio di Jessie), l’amore immediato tra Tara e Denise (perché ovviamente se in una città ci sono due lesbiche devono piacersi per forza), il trascinarsi del dubbio sulla morte di Glenn e la banalità della gravidanza di Maggie utilizzata a questo punto della storia. Tutte componenti che prese singolarmente possono anche passare inosservati, come piccoli aggiustamenti funzionali al proseguimento della trama principale; ma se tali elementi costituiscono per anni il corpus intero dello sviluppo di uno show, allora abbiamo decisamente un problema.

I can’t watch more names go up on that wall

Non ci si può certo dire di essere sorpresi da tutto questo, ormai diventato parte della cifra stilistica – se così la si può chiamare – di uno show che frustra la propria audience con la cadenza regolare di un orologio svizzero. La parte peggiore di questa attitudine è che in ogni stagione The Walking Dead sforna almeno un paio di episodi dal ritmo praticamente perfetto, che ci fanno capire chiaramente le potenzialità che avrebbe questo materiale se trattato con maggiore attenzione e pensando ad un pubblico più evoluto e intelligente; puntate come “Now”, invece, riportano alla realtà di una scrittura che si adagia sugli allori dell’audience senza mai veramente tentare con coraggio una strada diversa. E quando, come in questo episodio, alla mancanza di creatività si unisce la mancanza di azione, il risultato sono momenti di televisione di gran lunga non all’altezza di quello che ci si dovrebbe aspettare da uno show di questo livello.

Doing this will start us down a road where nothing matters. Where no one else matters.

Probabilmente la mediocrità non è poi un difetto così grave per una serie tv così seguita, anzi è spesso il segreto del vero successo mainstream, ma in un panorama televisivo che ci offre (in questa stagione più che mai) ben di meglio in termini di originalità, coraggio e capacità di emozionarci, c’è ancora davvero spazio per The Walking Dead?

Di sicuro ora, ancora prima che nella precedente stagione, dopo appena una manciata di episodi ci si arriva a chiedere solo se si arriverà alla fine del plot in maniera dignitosa, perché gli eventi sono così ovvi che neanche la tensione verso il season finale è più in grado di mantenere alto il livello di attenzione. Ed è un vero peccato, visto che con il suo budget, il suo materiale di partenza e la sua solida fanbase, un The Walking Dead appena un po’ migliore potrebbe essere ancora in grado di regalarci sorprese e interessanti sviluppi con un livello di azione all’altezza di quello che abbiamo visto negli episodi migliori.

Voto: 5
The Walking Dead – 6×06 Always Accountable
Dopo un episodio in buona parte impegnato a farci conoscere meglio gli abitanti di Alexandria, questa settimana The Walking Dead volge lo sguardo alle vicende di Daryl Abraham e Sasha, con una puntata che, sulla carta, avrebbe dovuto segnare un ritorno ai buoni livelli espressi dal trittico d’esordio della stagione, ma che al contrario si è rivelata come l’ennesima occasione sprecata per lo show.

Il focus su Daryl – finora incredibilmente sottoutilizzato – e l’ambientazione al di fuori delle mura, con la minaccia incombente dell’orda di walkers, costituivano infatti delle premesse ottimali per confezionare un racconto adrenalinico e coinvolgente, in grado di bilanciare la battuta d’arresto delle due precedenti puntate. Quello che ne risulta è invece un episodio dal carattere fortemente interlocutorio, avaro in termini d’azione – se escludiamo la sparatoria in apertura e la breve comparsa del gruppo armato – e accessorio dal punto di vista dell’analisi dei personaggi.

Le vicende di Daryl rispondono chiaramente a un duplice scopo: da un lato vogliono riprendere le fila del percorso di metamorfosi vissuto dal personaggio – che quest’anno è rimasto sempre sullo sfondo delle vicende – e dall’altro ci introducono a un nuovo – ennesimo – gruppo di sopravvissuti, cadendo però in entrambi i casi nelle trappole della ridondanza e ripetitività che spesso minacciano lo show. Le azioni di Dixon ribadiscono in maniera quanto mai esplicita come l’incontro con Aaron abbia innescato in lui un grande cambiamento, che si traduce in un atteggiamento di apertura e fiducia – in questo caso mal riposta – nei confronti dell’altro che fino a poco prima sarebbe stato impensabili. The Walking Dead però, come ben sappiamo, ama prendersi gioco degli scrupoli morali dei suoi protagonisti, ecco quindi che la generosità di Daryl viene ricompensata prima con la morte della ragazza, rendendo così totalmente inutile la restituzione dell’insulina, e poi con la perdita della moto e della balestra.

Come si accennava poco sopra, l’incontro con i tre fuggitivi, oltre a mettere alla prova Daryl, è funzionale all’introduzione di un nuovo gruppo organizzato di sopravvissuti, del quale ci vengono fornite poche informazioni ma che presumibilmente avrà un ruolo importante nella seconda parte di stagione: sembrerebbe trattarsi – nuovamente – di una sorta di dittatura paramilitare, in cui il miraggio della sicurezza viene barattato con l’accettazione di regole ferree e probabilmente non ortodosse. Si tratta di uno schema che abbiamo già incontrato più volte nel corso dello show e che, se da un lato dovrebbe parlarci dell’inevitabilità dell’instaurarsi di certe dinamiche in un contesto post-apocalittico come quello di The Walking Dead, dall’altro non può non risultare ormai stanco e pressoché privo di appeal.

Ancora più problematiche sono però le sequenze dedicate a Sasha e Abraham. Come era accaduto per Daryl e Carol nella scorsa annata, la spedizione all’esterno diventa un espediente per fare il punto della situazione sui due personaggi e approfondirne le dinamiche. “Consumed”, nonostante i difetti, poteva però contare sui caratteri meglio scritti dello show, mentre lo stesso non può dirsi di “Always accountable”. Il confronto tra Abraham e Sasha, infatti, non ha delle basi solide su cui svilupparsi, mancando in entrambi i casi un pregresso approfondimento organico e convincente.

L’uomo, così come Sasha in passato, manifesta la sua crisi interiore cercando in maniera sconsiderata il contatto con i non morti, ma quello che in teoria dovrebbe essere un punto di contatto profondo tra i due, si rivela in realtà un mero pretesto per avvicinarli, contribuendo a ingrossare le fila delle sottotrame romantiche che ormai popolano lo show. Nel caso di Sasha le morti di Bob e del fratello costituivano infatti una cornice in grado di rendere se non altro intelligibile il suo comportamento, mentre in quello di Abraham le medesime azioni, motivate da un generico timore della stabilità, finiscono col risultare abbastanza gratuite e pretestuose.

A rendere i difetti dell’episodio ancora più fastidiosi c’è poi l’atteggiamento pretenzioso con cui gli autori cercano di mascherarli: pensiamo al modo in cui viene gestito l’incontro tra Daryl e i tre fuggitivi, che getta maldestramente lo spettatore in medias res al fine di aumentare il mistero e la curiosità intorno alla vicenda, oppure al tono degli scambi tra Abraham e Sasha, fatto di frasi spezzate e sottintesi che tentano inutilmente di colmare la povertà di sostanza dei dialoghi.

Nel complesso “Always accountable” non fa che rafforzare i timori suscitati da “Now”, confermando il consueto calo del ritmo della narrazione e della qualità di scrittura che ogni anno caratterizza gli episodi centrali dei due blocchi stagionali. Il cliffhanger finale, in cui forse abbiamo sentito la voce di Glenn chiedere aiuto, è in questo senso emblematico della tendenza dello show a frustrare all’inverosimile le attese del suo pubblico, figlia della scarsità di materiale (e di idee) su cui costruisce il racconto.

Voto: 5+
The Walking Dead – 6×07 Heads Up
L’altalenante The Walking Dead si occupa finalmente del tema sulla bocca di tutti (i fan) con un episodio che prometteva grandi cose e che invece si è rivelato un anonimo palloncino liberato in cielo.

La metafora non è casuale: la scena che conclude “Heads Up” è riassuntiva di tutta la puntata – se non dell’intera serie. Mentre un gruppo di palloncini – che rappresentano la sorte di Glenn, ma anche la speranza nel mondo post-apocalittico in cui è ambientata la serie – volano nel cielo cercando di farsi notare da tutti, l’attenzione è rubata dalla torre di Alexandria che crolla sulle mura, metafora neanche troppo velata della distruzione che non lascia spazio ad altro se non alla paura. Tutto ciò è successo in questo settimo episodio, che doveva raccontare di come Glenn si fosse salvato e che invece verrà “ricordato” per il cliffhanger che ci traghetterà al mid-season finale di settimana prossima.

Niente di nuovo, quindi: se settantaquattro episodi di The Walking Dead ci hanno insegnato qualcosa è che i veri mostri sono gli uomini e che se sei uno dei protagonisti non morirai. Questo snodo è fondamentale per capire perchè la serie sia considerata un capolavoro da molti fan e una barzelletta da altrettanti spettatori. Il marcato fanservice della serie piace ai tanti che hanno iniziato ad appassionarsi alle vite dei protagonisti come se fossero reali e ovviamente vogliono il meglio per loro, ma allo stesso tempo snatura un survival drama che per sua definizione non dovrebbe preservare i personaggi più amati contro ogni logica e farli sopravvivere dove un personaggio minore sarebbe morto. “Heads Up”, in quanto episodio con lo scopo di svelare le sorti di Gleen, partiva con tante cose da dimostrare, prima fra tutte la capacità di rendere memorabile un evento che tutti si sarebbero aspettati prima o poi di vedere. Tolto l’effetto sorpresa, tutto il castello di colpi di scena, anticipazioni e indizi (si veda il finale di “Always Accountable“) costruito in tre puntate cade, facendo capire quanto la serie sia carente di un impianto narrativo e psicologico forte. Se il racconto di Glenn, che doveva essere il punto forte della puntata – e non a caso si inizia proprio da lì –, si è rivelato deludente, è facile capire quanto il resto sia ancora peggio.

“Heads Up” è l’ennesimo episodio pieno di scene filler che servono a riempire il vuoto tra il salvataggio di Glenn e la caduta della torre e lo fa raccontandoci a che punto sono i rapporti tra i personaggi. La lezione di tiro di Rick e il suo faccia a faccia con Michonne, l’addestramento di Rosita e la visita di Morgan in infermeria sono superflui per quanto riguarda la trama, ma cercano di fortificare l’universo dello show, disegnando chiaro-scuri anche per quei personaggi che conosciamo poco. Nonostante questo nobile scopo, il tutto risulta di una noia assoluta, perché i personaggi coinvolti continuano a non essere in grado di catturare la nostra attenzione neanche per quei pochi minuti che hanno a disposizione. La colpa risiede nel lavoro passato degli autori, che hanno prodotto dei personaggi monocorde, utili per dire qualche battuta specifica e niente di più. TWD non incappa in questo problema per la prima volta: la costruzione ciclica della serie obbliga gli autori a riproporre momenti morti molto spesso, con risultati sempre uguali e poco convincenti.

Per questo, anche i vari momenti di approfondimento disseminati durante tutto l’episodio non sono convincenti come avrebbero potuto essere. Con la tavola rotonda tra Rick, Morgan, Carol e Michonne, The Walking Dead cerca di fare un passo avanti nel rapporto tra il male e il genere umano: appurato che il più grande nemico dell’uomo è se stesso, c’è margine di redenzione? Nessuno sembrava pensarla così fino all’arrivo di Morgan, che nonostante abbia passato quello che Rick e i suoi compagni hanno vissuto, crede ancora che un futuro positivo per chi sbaglia ci sia. Questo grande tema si ricollega allo scontro dello scorso season finale tra Rick e Deanna: la pena di morte deve essere la sola soluzione o una riabilitazione potrebbe far scaturire pentimento e voglia di ricominciare in chi ha sbagliato? Le posizioni sono ben definite, ma questo incontro non riesce a dare una risposta definitiva ad una questione più grande della serie stessa. Chiaramente Morgan non sa se la soluzione che lui propone sia quella giusta, ma nel dubbio preferisce non macchiarsi le mani di sangue e dare una possibilità all’altro, fidandosi del prossimo, trattandolo come vorrebbe essere trattato. Anche il dialogo tra Rosita e Eugene porta alla luce alcuni ragionamenti interessanti sulla morte: il discorso che fa la donna per spronarlo cambia un po’ la prospettiva sul tema, però il tutto sembra buttato senza darci troppo peso, senza voler approfondire in modo adeguato uno spunto che poteva dimostrarsi valido.

L’ultimo punto di riflessione di “Heads Up” ci viene mostrato tramite un simbolo, il sangue che cola da un foro nelle mura di Alexandria. La sua importanza è chiara, perché senza troppi giri di parole sottolinea il fatto che quella recinzione è precaria, così come la situazione di tutti gli abitanti della cittadina. Se prima il muro era completamente intatto, ora il sangue infetto lo oltrepassa e goccia dopo goccia scava il suo percorso indisturbato. La preoccupazione di Rick, che per primo si accorge di questa falla, lo fa subito mettere all’opera per risolvere il problema, che può ancora essere messo sotto controllo; la sua esperienza lo guida attraverso ogni decisione e la paura che il passato possa tornare ad essere presente lo rende più ancora più nervoso. L’uomo ha definitivamente abbandonato l’idea che una sorta di tregua possa ancora esistere; per questo motivo è così duro con chiunque non segua i suoi ordini. Il Rick che abbiamo di fronte oggi, però, è talmente ossessionato dal controllo da diventare quasi una minaccia per se stesso e il suo gruppo: non riesce più ad essere lucido e vedere la situazione sotto la giusta prospettiva, come invece in passato era riuscito a fare. La sua trasformazione in qualcosa di diverso rispetto al leader buono che era è in atto; il pericolo reale che colpirà Alexandria nel prossimo episodio farà incendiare una miccia che nel primo assalto di “JSS” era rimasta inesplosa. Quale sarà la strategia del leader Rick? Chi salverà dagli attacchi zombie? Quali saranno le sue priorità?

Queste sono tutte domande che avranno risposta nel prossimo episodio all’insegna dell’azione e della suspance, caratteristiche che The Walking Dead incarna molto meglio delle riflessioni sulla vita e sulla morte. La lunga serie di episodi inutili sembra finita, e questo ci lascia con la speranza che i fuochi d’artificio della prossima settimana possano farci dimenticare settimane di noia.

Voto: 6-
The Walking Dead – 6×08 Start To Finish
The Walking Dead arriva al consueto giro di boa di dicembre com’è solito arrivarci negli ultimi anni: con qualche speranza di veri colpi di scena che viene quasi sempre disattesa, con una scrittura che non riesce a scrollarsi di dosso la polvere che ormai da anni la sta inesorabilmente soffocando.

It’s not unfair, it’s just… nothing is unfair anymore.

Come spesso accadde con questa serie, la metafora è utilizzata in maniera ridondante: poteva andare bene per i primi tempi, quando il concetto di non-morto poteva essere esplorato ben al di là della semplice visione orrorifica facile da individuare, ma dopo sei anni diventa un’operazione ripetitiva e stagnante. Il particolare indugio sulle formiche che entrano dalla finestra aggredendo un tortino dimenticato lì chissà da quanto (ma poi, l’odore? Possibile che Sam porti sempre fuori il piatto e non si accorga di quello dimenticato?) è un chiaro riferimento agli zombie che stanno per entrare in città, ma ce n’era davvero bisogno? Funziona veramente come cold open qualcosa che ci era già stato detto alla fine dello scorso episodio? Su questi particolari purtroppo è ormai da tempo che la serie non riesce più a convincere, utilizzando in salsa leggermente diversa sempre gli stessi ingredienti. Così come appare ridicolo lo scontro tra Carl e Ron – anche in questo caso, ampiamente telefonato – che si risolve con Carl che copre la stupidata dell’altro, apostrofandolo con un “your dad was an asshole”. Ma davvero? Uno scontro che poteva avere potenzialmente un impatto devastante in un momento di caos totale elegge Carl a piccolo Rick (e lo avevamo capito da tempo…), mentre l’altro si fa passare una rabbia più che giustificata in mezzo secondo.

L’altro aspetto completamente ridicolo della puntata è la gestione di Deanna, personaggio che è servito alla causa forse per tre puntate e poi è stato completamente abbandonato, fino alla ridicola fine che gli autori decidono di farle fare. La completa follia del suo attacco per aiutare Rick viene usata come scusa per farla ferire mortalmente per liberarsi di un personaggio – ormai un peso – nel giro di cinquanta minuti. Non c’è pathos in quello che le succede, la costruzione del personaggio è stata praticamente nulla, non possiamo minimamente immedesimarci nel suo dolore e nella sua agonia per una morte orribile. L’unica nota di merito di tutta la sequenza è forse lo stordimento di Sam nella scena caotica del rientro in casa, quando a un caos incontrollato seguono immagini al ralenty e completamente mute. Certo, è una soluzione già vista centinaia di volte, ma in mezzo a un pasticcio così, anche un minimo bagliore di qualità fa la sua figura. Deanna quindi viene trattata dagli autori come l’ultimo dei personaggi, anche se cercano di restituirle un po’ di dignità con il suo “testamento”, un piano regolatore che stupisce Michonne. Converrete con noi che una cosa più triste (nel senso negativo del termine) non potevano trovarla.

Someday this pain will be useful to you.

Per quanto riguarda l’altra metà dei personaggi e della storia, non si può non notare la ridicolaggine che vede al centro l’ostaggio preso da Morgan e tutto quello che gli ruota attorno in questa puntata. Il tema di fondo non è di per sé sbagliato, ma viene riprodotto in modo elementare e scontato, una scena che in The Walking Dead si sarà ripetuta una decina di volte: il cattivo ferito e in trappola, la buona che lo cura, quello convinto a non uccidere più e quella che sa come va il mondo e lo vuole eliminare prima che faccia danni; ovviamente nessuno si decide e il male vince ancora (temporaneamente). Uno schema ormai abusato e stantio, che non ci dice nulla di nuovo e che sottolinea ancora una volta come gli autori tornino sempre ad utilizzare le stesse idee, molto probabilmente perché le hanno finite ormai da tempo.

Segno evidente di questa deriva è l’idea di spalmarsi addosso i cadaveri per uscire dalla casa di Jessie, idea che viene ripresa dalla prima stagione: qui è utilizzata come auto citazionismo, ma che non funziona in maniera malinconica e sorprendente proprio per tutte le scelte fatte nelle puntate precedenti. E qui entra in gioco Sam, bambino impaurito che non riesce nemmeno più a scendere le scale. Come scelta ci può stare, ma fa ridere il modo in cui la madre lo apostrofa, come farebbe il bullo della scuola con lo sfigato del gruppo (“fai finta di non avere paura, di essere coraggioso anche se non lo sei”); una scelta di parole incoraggianti da parte di una madre premurosa. Ma Sam è il classico personaggio di The Walking Dead: inutile per decine di episodi ma che poi piazza il plot twist quando meno te lo aspetti. Impaurito, mezzo muto, se la fa addosso anche chiuso in casa sua, ma in mezzo ai non-morti – invece di farsi guidare magari tenendo anche gli occhi chiusi, come sarebbe più in linea con il personaggio – decide di parlare e di fare casino, così a caso. Come cliffhanger ci può anche stare, ma anche in questo caso sa di già visto e strappa più un sorriso che un brivido lungo la schiena.

The Walking Dead, come da pronostico, non migliora neanche con un episodio che dovrebbe essere cardine della stagione, ma anzi riesce ad amplificare i molti difetti di cui la serie ormai è infetta e pressoché inguaribile. L’attesa per la prossima puntata sarà lunga, ma siamo sicuri che troveremo un modo per colmare questo vuoto, che purtroppo crea un hype praticamente pari allo zero.

Voto: 5
The Walking Dead – 6×09 No Way Out
La serie di punta AMC torna dopo la consueta pausa invernale carica sia di aspettative che di dubbi: la presenza di un personaggio molto amato dai fan del fumetto è stata confermata nella seconda metà della stagione e questo ha generato un notevole hype, tuttavia ci si chiede per quanto ancora lo show riuscirà a reiterare la sua formula di intrattenimento senza mostrare qualcosa di innovativo.

Sono anni che The Walking Dead tenta di rilanciarsi dal punto di vista qualitativo, premiere dopo premiere, senza però essere mai riuscita a mantenere le grandi promesse di intrattenimento che precedono ogni tranche di episodi. Ripercorrendo velocemente la storia passata della serie si ricordano: un ottimo pilot, una buona prima stagione, una seconda annata decisamente dimenticabile, una terza stagione nel complesso positiva, un nuovo crollo qualitativo con la quarta, una quinta annata molto discontinua ma che finisce in crescendo e, infine, la deludente prima parte della sesta stagione, conclusasi a dicembre con un episodio ricco di difetti. Ricordandoci del passato, quindi, ci approcciamo al futuro con cautela, cercando di capire da “No Way Out” quale strada ha deciso di intraprendere Gimple in questo 2016.

Your property now belongs to Negan.

L’episodio riprende esattamente da dove lo avevamo lasciato: Alexandria è completamente invasa da walkers e tutti i personaggi che sono rimasti bloccati in città tentano di salvarsi. Da un lato Rick guida un disperato piano di fuga direttamente in mezzo all’orda di non morti, dall’altro Glen torna in città con Enid e cerca di salvare Maggie, prigioniera sulla torre di guardia. Queste due linee narrative convergeranno insieme a quelle di tutti gli altri personaggi, riunendosi definitivamente al termine della puntata, in un finale che lascia presagire la stabilizzazione di un nuovo status quo, probabile apripista ad un nuovo arco narrativo che vedrà Negan, il villain tanto atteso, protagonista. La struttura convergente del plot funziona piuttosto bene, riuscendo perlomeno a tirare le fila della confusione che si era generata a partire da “First Time Again” e a riportare una sorta di ordine narrativo di base, su cui sarà più facile (si spera) lavorare nei prossimi episodi.

Bite, chew, swallow, repeat.

Se l’impalcatura dell’episodio sorprendentemente regge, lo stesso non si può dire della sua struttura interna, che inciampa sugli ormai noti difetti classici della serie. “No Way Out” è un episodio di stampo puramente action, in cui vi è poco spazio per i dialoghi (ma sarebbe stato meglio se ce ne fosse stato ancora meno) e in cui il ritmo è elevato dall’inizio alla fine; il problema principale è, però, radicato nei personaggi e nelle scelte che li muovono nella grande scacchiera di Alexandria.

Il personaggio di Rick è forse quello che sente maggiormente la stanchezza e la pesantezza di sei stagioni altalenanti sulle spalle. Abbiamo seguito il suo tortuoso cammino sin dall’uscita dal coma, catapultato in un mondo che non riconosceva più. Lo abbiamo visto ricongiungersi alla famiglia che credeva di avere perso e abbiamo assistito al suo declino morale episodio dopo episodio; eppure ci siamo anche sorpresi di come la vita ad Alexandria lo stava cambiando e della presa di coscienza del ruolo di leadership che avrebbe potuto interpretare per quella comunità. Questo emerge nel finale di “No Way Out”, con la chiamata alle armi dei cittadini contro l’orda di non morti: pur sospendendo l’incredulità sulla vittoria di un gruppo ristretto contro un’orda di walkers, quello che non torna è proprio la razionalità della scelta di Rick, viziata dal ferimento di Carl. Abbiamo già visto, in passato, il personaggio di Andrew Lincoln lasciare che l’istinto prevalga quasi totalmente sulla ragione, ma questa volta è diverso: uscire ad affrontare da solo centinaia di zombie (e ovviamente non riportare la benchè minima ferita) non poteva assolutamente essere la scelta migliore per l’incolumità del figlio e delle persone che nel frattempo lo stavano aiutando, anzi in una situazione di assoluto realismo avrebbe fatto sì che Carl e Judith si ritrovassero orfani prima dell’alba. Si potrebbe forse giustificare il tutto con una disperazione quasi totale, come se Rick non vedesse via d’uscita dalla situazione in cui si trovavano, ma anche messa così la spiegazione è troppo debole.

Please save him.

Tuttavia, se immaginiamo un grafico qualitativo del percorso di The Walking Dead in questa sesta stagione, il nono episodio registra una piccola impennata. La regia di Nicotero, infatti, si dimostra in ottima forma, riuscendo a mitigare in parte la ripetitività delle uccisioni degli zombie e a regalare momenti di altissimo livello, come il piano sequenza successivo alla lunga notte raccontata in “No Way Out”. Lo scontro dei vivi contro i morti, per quanto poco sensato per i motivi già discussi, viene riportato in modo crudo e d’impatto, così come il salvataggio di Maggie, protagonista della scena d’azione migliore dell’episodio. Ben realizzato anche l’incidente di Carl, anche se ampiamente preannunciato sia dalla AMC attraverso i trailer che dalla serie a fumetti.

Un’ultima menzione la merita la scena che anticipa i titoli di testa, il cui pregio è anche quello di mostrare la sequenza più riuscita della puntata. L’uomo di Negan che salta in aria per un colpo di bazooka (con grande dispiacere di chi l’ha comprato al The Walking Game) è un esempio lampante di quello che vorremmo che The Walking Dead fosse: una serie che si prende meno sul serio e che porta l’intrattenimento che un invasione zombie può generare su un altro livello, con personaggi sopra le righe e meno stereotipati.

I want to show you the new world, Carl.

Siamo all’ennesimo tentativo della serie di rilanciare se stessa in vista di un nuovo ciclo di episodi. Le premesse fornite da questa midseason premiere sono buone, anche se non eccellenti, e il futuro resta ancora fumoso. La speranza è che la tanto attesa introduzione di Negan possa avere lo stesso effetto sulla trama che ebbe a suo tempo l’arrivo del Governatore, anche se siamo ben consapevoli del fatto che il rischio dell’effetto “già visto” è sempre dietro l’angolo. In fondo The Walking Dead continua a camminare su una linea di demarcazione molto netta: da un lato ci sono degli ascolti altissimi e una fanbase solida che non tradirà – forse – mai la serie; dall’altra la voglia di stare tra le grandi, di essere quella serie di qualità che sarebbe potuta essere ma a cui, probabilmente, non arriverà mai.

Voto: 6,5
The Walking Dead – 6×10 The Next World
Se la scorsa settimana “No Way Out” si era rivelata essere una puntata adrenalinica e ricca di azione e colpi di scena, con “The Next World” AMC ci mostra le sfaccettature più umane e quotidiane del mondo di The Walking Dead e, attraverso l’introduzione di un nuovo personaggio, non dimentica di porre le basi per gli sviluppi narrativi che avranno luogo nel prosieguo della stagione.

All’interno dell’economia di uno show costoso come The Walking Dead – costretto a repentini cambi di ritmo dalla sua stessa natura e da una scrittura non sempre organica – gli episodi filler sono necessari sia per rispettare il budget a disposizione, sia per non mettere ulteriormente in crisi degli autori che, in quanto ad inventiva e ricchezza di idee, non riescono più a stupire da un paio di stagioni. Definire “riempitiva” una puntata come “The Next World” sarebbe leggermente riduttivo, vista l’introduzione di un personaggio molto atteso, tuttavia il contrasto con l’azione presente nei capitoli precedenti ce la fa percepire come tale.

I need to take care of something.

Archiviata l’orgia di sangue e i massacri di “No Way Out”, Gimple e soci riportano al centro del palcoscenico l’uomo e la sua interiorità, col rischio di ricadere nei soliti, endemici problemi che si palesano quando lo show rallenta per dedicarsi all’introspezione. Sono trascorse un paio di settimane dalla notte di furore e gli abitanti di Alexandria sono ancora alle prese con gli strascichi psicologici successivi: Spencer si inoltra misteriosamente nei boschi, mentre Carl (che ha preso sorprendentemente bene la perdita dell’occhio, neanche gli si fosse spezzata un’unghia) e Enid escono dalla città per dare quel tocco di brivido in più alla lettura dei fumetti, dilettandoci con dialoghi sulle ribellioni infantili che assurgono ad impensabili vette di ridicolo. L’idea degli autori era, probabilmente, quella di mettere in scena un Carl maturato, maggiormente conscio e partecipe della natura del mondo circostante, ma l’impressione tratta non è stata quella. Per fortuna bastano pochi minuti a chiarire lo scopo di queste simpatiche escursioni nella natura: Deanna, che avevamo lasciato ferita ed in pericolo mortale, infesta i dintorni della città, e la sua “seconda morte”, ben girata, è il simbolo silente del passato che si conclude definitivamente per lasciare spazio ad una nuova vita.

L’aspetto positivo di questo spaccato di vita alexandrina sta tutto nell’approfondimento delle relazioni fra i protagonisti. La storyline di Daryl e Rick assume fin da subito i caratteri del più classico dei buddy movie, in cui due amici affrontano simpatiche avventure che hanno come conseguenza quella di rafforzare il rapporto tra di loro. La novità più importante della puntata è proprio questa variazione dei toni: per la prima volta lo spettatore non è colto dalla sensazione di catastrofe imminente e i momenti di tensione sono ridotti al minimo, o, come nella caccia di Rick e Daryl, trattati con leggerezza ed un’aura di spensieratezza.

My friends used to call me Jesus.

Per gli amanti del lato action dello show (per chiarirsi, coloro i quali sono solo vagamente interessati alla ginnastica da letto di Rick e Michonne) il punto focale dell’episodio coincide con l’introduzione di Paul “Jesus” Rovia (Paul “Jesus” Monroe nel fumetto), interpretato da Tom Payne. Stando all’opera originale e alla sua prima apparizione su schermo, Jesus è un abile combattente a mani nude ed un sorprendente escapologo. Fin dalle prime inquadrature l’interpretazione scanzonata fornita dall’interprete, unita alle inusitate abilità del personaggio, riesce ad innalzare notevolmente il livello di aspettative (non siamo ai livelli di Michonne con la katana e un paio di walkers al guinzaglio, ma nemmeno troppo lontani); sarà prerogativa dei prossimi appuntamenti dello show chiarire quanto questo personaggio abbia realmente da offrire; tuttavia, se dobbiamo basare il nostro giudizio sulle esperienze passate, possiamo dire che raramente The Walking Dead è stata in grado di soddisfare l’hype generato.

It’s good to be home.

Michonne è il perno attorno al quale ruota buona parte delle avventure settimanali e, soprattutto, rappresenta con le sue azioni la voglia di ricominciare a vivere dell’intera comunità. Il personaggio interpretato da Danai Gurira è tra i meglio costruiti dello show; questa caratteristica permette agli autori di rappresentare la ragazza come la depositaria dei progetti espansionistici di Deanna, simboleggiando la voglia dei sopravvissuti di mirare a qualcosa di più della mera esistenza e, al tempo stesso, di mettere in scena con delicatezza il desiderio di quotidianità e tranquillità dei superstiti.

Per quanto desolato e caotico, il mondo di The Walking Dead diventa incredibilmente piccolo quando le storyline dei protagonisti devono intrecciarsi fra di loro: in questo modo, come la fuga di Jesus era inevitabilmente destinata a fallire per permettere un ulteriore incontro tra i personaggi, così la scintilla tra Rick e Michonne era facilmente ipotizzabile. Pur privilegiando il lato horror, The Walking Dead ha sempre concesso spazio scenico all’amore in quasi tutte le sue forme considerandolo, però, più un riempitivo che un tema da analizzare in profondità. Di fronte ad uno sviluppo del plot abbastanza scontato, ad essere interessanti sono le modalità con cui questo viene messo in scena. L’universo televisivo ci ha insegnato ad apprezzare la spettacolarità e la subitaneità del colpo di fulmine; per questo l’evoluzione del rapporto tra i due – in cui l’intimità fisica è successiva a quella quotidiana da coppia rodata – risulta essere fuori dagli schemi. In un mondo post-apocalittico vengono meno tutte le convenzioni che caratterizzano la società civile, e dunque anche la nascita e l’evoluzione di un rapporto smettono di seguire i binari canonici; l’attrazione fisica non è quindi istantanea da commedia romantica, ma risulta successiva ad un lungo periodo in cui il rapporto, fondato su una fiducia messa alla prova ogni giorno, è maturato silenziosamente fino a diventare, in modo consapevole, qualcosa di più grande.

La decima puntata di The Walking Dead, per una volta, tenta di stupire lo spettatore (non per forza in maniera positiva) senza dover far affidamento su morti improvvise o stragi efferate ma puntando fortemente sulla variazione dei toni del racconto che, in più di un’occasione, offre veri e propri momenti comici in un ambiente catastrofico e depresso. L’episodio confezionato non è un capolavoro e soffre dei soliti buchi a livello narrativo ma, essendo molto leggero rispetto ai canoni ai quali siamo abituati, gode di un “bonus coraggio” al momento del giudizio finale. Se l’esperimento in questo caso può dirsi parzialmente riuscito, va però ricordata la difficoltà dello show nel gestire i momenti morti; restiamo tuttavia speranzosi in attesa di una nuova accelerazione degli eventi dal momento che l’apparizione di Jesus non può che indicare come la definitiva comparsa di Negan sia alle porte.

Voto 6/7
The Walking Dead – 6×11 Knots Untie
The Walking Dead ha un gravissimo difetto e ormai lo sappiamo da anni: la fastidiosa ripetitività con cui la narrazione torna sempre su se stessa non ha ancora abbandonato (e purtroppo mai lo farà, probabilmente) quello che stiamo vedendo.

In “Knots Untie” non c’è praticamente nulla di nuovo, anche se si tenta di dare un senso più profondo al legame che i personaggi stanno instaurando tra di loro. Ma è davvero riuscita l’operazione?

Your world’s about to get a whole lot bigger

Partiamo quindi con il grosso handicap della ripetitività: i nostri conoscono un nuovo personaggio, il nuovo li porta a conoscenza di una nuova realtà (vera o presunta tale), i nostri quindi indagano su questa realtà e fanno la conoscenza di ulteriori nuovi personaggi, tra cui qualcuno che ha evidentemente una doppia personalità, o quantomeno si dimostra viscido in modo sinistro fin da subito. Jesus porta a conoscenza loro e nostra Hilltop, una cittadina fortificata attorno a un ex museo mutuato da una villa importante per la storia americana. Insomma, sempre la solita storia. I nostri si fanno voler bene fin da subito salvando altre persone di Hilltop che guarda caso si sono trovate in difficoltà proprio mentre Rick e soci si recavano alla nuova città: ecco un altro punto debolissimo della serie, che non riesce a nascondere l’architettura della trama ma che la espone quasi sempre troppo chiaramente alla luce del sole. Ma lo schema ritrito non si ferma qui: qualcuno del gruppo va a contrattare con il capo della nuova comunità (in questo caso Maggie, “promossa” sul campo da Rick) e anche in questo caso sappiamo già come andrà a finire, con un colpo da maestro di Maggie – che non aveva mai contrattato con nessuno prima d’ora – e un accordo pazzesco che, come puntualizza ironicamente Jesus, risulta essere addirittura migliore di quelli per cui gli si chiede il pizzo.

Il momento di pathos si raggiunge con l’aggressione a Gregory da parte di un suo cittadino, convinto da Negan ad agire così in modo da poter salvare il fratello rapito appunto dalla misteriosa banda. L’attacco non può toccarci minimamente, primo perché è una cosa che in The Walking Dead accade all’ordine del giorno, secondo perché conosciamo i personaggi coinvolti da dieci minuti, e sottolineare di nuovo la violenza con cui Rick si difende non è più una novità. È quindi tutta sbagliata la gestione dei tempi, dei “colpi di scena”, della messa a punto di un racconto che fatica a decollare e che a volte ci porta anche a distrarci perché sullo schermo non accade veramente niente. Simbolo dell’ormai pilota automatico che hanno inserito gli autori è la scena del camper impantanato nel fango: nonsense totale, considerando il fatto che fino a un istante prima la strada era sterrata e di sicuro non era in mezzo a una risaia come ci fanno vedere nel campo totale quando i nostri scendono dal mezzo. E poi davvero Rick, con tutta l’esperienza che ha, avrebbe fatto un errore del genere a poco più di un minuto di cammino da Hilltop? Capite benissimo anche voi che è stata una mossa per farli arrivare a piedi, ma che non aggiunge nulla alla narrazione e che anzi ci disegna una smorfia in faccia, se si pensa al riempimento totalmente inutile del minutaggio necessario per arrivare alla fatidica soglia dei 40 minuti.

The way things go

Detto questo, The Walking Dead cerca di virare sul romance, già prepotentemente iniziato con la love story tra Rick e Michonne. Se in questo caso la cosa fa sorridere ma non è del tutto campata in aria per come sono andati gli anni precedenti – se non si pensa che Rick solo qualche settimana prima ha visto sbranare la bionda di cui si era preso una cotta –, il probabile innamoramento di Abraham per Sasha è come un fulmine a ciel sereno e viene talmente rimarcato durante l’episodio da essere quasi fastidioso. Ma perché si insiste così tanto su questo aspetto? Perché nel momento della morte sembra che ci venga in mente il nostro vero amore, quello che stiamo abbandonando o che stiamo per raggiungere: lo dice (guarda caso) la comparsa che Abraham stava per ammazzare e capita anche a lui quando lo stanno strangolando, quando sente la voce di Sasha al posto di quella di Rosita. Una scelta forzata, quasi pacchiana, che non rende giustizia ai personaggi ma che li disegna come macchiette. Parliamoci chiaro, è naturale che in situazioni del genere, a contatto tra di loro e con la morte presente tutti i giorni, possano crearsi delle dinamiche amorose e sessuali un po’ strane: ma non da un momento all’altro, senza nessuna piccola avvisaglia prima, buttate nel calderone per parlare di un argomento – in questo caso, i nostri presunti pensieri al momento della morte – in modo più poetico.

Le cose quindi continuano ad andare un po’ storte nel mondo di The Walking Dead, sia nella finzione che nel modo in cui gli autori ci stanno presentando le vicende: sembra che si abbia fretta di arrivare al grande colpo di scena – qualunque esso sia – che probabilmente ci aspetterà nel finale di stagione. Una scelta di “andare veloci” non supportata da nulla, contando che grazie agli ascolti americani e al fumetto come base da cui attingere la serie potrebbe andare avanti senza problemi ancora per quattro o cinque anni: si stanno insomma sprecando veramente tante occasioni per raccontare una storia interessante e per farci saltare sulla sedia ogni tanto. The Walking Dead, come già detto molte volte, ha infinite possibilità di parlare della disumanizzazione del mondo e dei suoi (s)fortunati sopravvissuti, ma puntualmente si viene delusi: non è possibile che ci sia una puntata degna di nota ogni dieci. Anche questa “Knots Untie”, quindi, a dispetto del titolo non scioglie nessun nodo, ma anzi ci ricorda che le vecchie problematiche della serie sono ben lontane dall’essere risolte.

Voto: 5
The Walking Dead – 6×12 Not Tomorrow Yet
Chi sperava – senza motivo – che con l’introduzione di un nuovo nemico (il misterioso Negan, cruciale nel fumetto che ispira la serie), The Walking Dead potesse cambiare pelle una volta per tutte, con “Not Tomorrow Yet” si è trovato di fronte alla cocente verità che questo show non cambierà mai e non ha neanche l’intenzione di farlo.

Tralasciando i parallelismi tra gli umani e i morti viventi e la simbologia che ne deriva – elementi che appartengono ad un secondo livello di lettura della serie –, The Walking Dead ha sempre voluto raccontarci di un mondo in cui l’uomo è vittima e preda di zombie famelici ed è costretto a scappare o almeno a difendersi per sopravvivere. Con queste premesse e dopo la visione di “No Way Out“, avremmo già dovuto renderci conto che, se basta un gruppo di persone armate e arrabbiate per ripulire una cittadella intera, allora le basi su cui si costruisce la serie non sono così solide come sembravano. Se gli eventi che hanno segnato il nono episodio non hanno fatto cambiare rotta alla serie, che viveva in quel momento un’epifania importante – diventava finalmente consapevole che gli zombie, lenti esseri senza spiccate capacità cognitive, potevano essere uccisi con relativa facilità –, siamo sicuri che niente potrà farlo. Non lo farà neanche l’ennesima distruzione e rigenerazione delle stesse dinamiche che compongono la spina dorsale della serie dal suo inizio, che ciclicamente travolgono il destino dei nostri protagonisti, lasciandolo senza modifiche evidenti. “Not Tomorrow Yet” è uno degli ultimi stadi di questo processo di distruzione, che sarebbe dovuto essere epico e non quel pasticciato ammasso d’azione che invece si è rivelato.

Se The Walking Dead in passato ci ha dimostrato di essere più forte con le scene di guerra che con la messa in scena dei sentimenti e delle paure dei suoi protagonisti, con questo episodio mette in dubbio anche l’unica certezza che avevamo, prendendosi gioco delle regole della fisica e della probabilità. Il piano per entrare nell’edificio controllato da Negan fa acqua da tutte le parti e fa strano vedere il leader Rick affidarsi al caso in una delle missioni più importanti per la sopravvivenza del suo gruppo. Tralasciando il fatto che Alexandria è stata lasciata senza difese forti, avendo portato tutti i combattenti più validi nel viaggio contro Negan, è strano come Rick decida di mettere in pericolo ogni singolo membro del suo team d’azione, anche quelli più legati a lui, come Michonne. Spendere parole di critica sull’irruzione e la sparatoria che ne deriva sarebbe perdere tempo su qualcosa di ridicolo più che avvincente.

“Not Tomorrow Yet” ce lo ricorderemo – perdonate l’esagerazione – per la lunga sparatoria che vorrebbe essere il climax di una puntata in cui il destino di ogni personaggio è in dubbio, un episodio carico di tensione e aspettative con un finale incerto e potenzialmente drammatico. Questo sarebbe successo se gli autori avessero scritto la puntata con un minimo di buon senso: nella tempesta di proiettili che sono stati sparati da entrambe le fazioni sul campo, non ce n’è stato uno che abbia colpito, o almeno ferito, un membro del gruppo di Rick, né tra quelli sparati alla cieca, né tra quelli sparati perfino dietro le porte chiuse. Il caso porta solo alla morte dei cattivi in un campo in cui Rick & company erano nettamente in svantaggio; questa non è ovviamente una novità per lo show, criticato innumerevoli volte proprio per la sua politica sulle uccisioni.

La recensione potrebbe finire qui, perché oltre all’assalto a Negan, “Not Tomorrow Yet” non vuole mostrarci altro, se non un po’ di (mal)sana azione e una buona dose di mazzate. Il prevedibile colpo di scena nel finale è l’ennesimo espediente per farci seguire l’avanzamento del racconto verso il finale di stagione, trucco alla stregua del dubbio sulla morte di Glenn.

Arrivati a questo punto della storia, vale ancora la pena spendere parole di delusione per The Walking Dead, o sarebbe più giusto ridimensionare una volta per tutte il fenomeno e iniziare a considerare lo show per quello che è, al netto degli ascolti stellari? Questo show va considerato come un fumettone televisivo, in cui i buoni vincono sempre e ogni azione può essere corretta, se non stravolta; la struttura ciclica è perfetta per questo prodotto, che senza sarebbe finito diverse stagioni fa. In più di un occasione Robert Kirkman ha dichiarato che lo show potrebbe andare avanti all’infinito, sintomo non dei più positivi riguardo il futuro che l’autore vuole dare ai suoi personaggi. L’episodio dodici della sesta stagione sottolinea il fatto che ogni evento sembra nascere al momento, senza una forte costruzione alle spalle, e l’intera serie sia succube dei gusti del pubblico, che decide quale personaggio deve vivere e quale morire a forza di commenti online. Per questo, chi sperava che il futuro prossimo potesse portare The Walking Dead su una strada migliore rimarrà deluso. It’s not tomorrow yet, il giorno del cambiamento deve ancora arrivare.

Voto: 5
The Walking Dead – 6×13 Same Boat
Archiviata la poco credibile “Not Tomorrow Yet“, The Walking Dead, seppur in vista del finale di stagione, rallenta nuovamente il ritmo e si focalizza sull’interiorità dei protagonisti, costringendo attori e spettatori a quaranta minuti di dialoghi in spazi chiusi che rinnegano anche i più recenti esperimenti concernenti una deriva fumettistica più accentuata.

Nel manuale del bravo scrittore (e a maggior ragione anche in quello del dignitoso sceneggiatore) il capitolo riguardante la composizione di dialoghi funzionanti è uno dei più importanti. Riassumendo rapidamente si possono enumerare cinque principi fondamentali validi più o meno in ogni situazione: durante un dialogo dovrebbe accadere qualcosa; realtà e scrittura vivono in due mondi differenti (ogni discorso, quindi, deve essere realistico ma non reale); una conversazione tra due personaggi cambia la relazione tra gli stessi; non devono esserci battute o segmenti inutili; le informazioni che vengono scambiate non sono mai rivolte al lettore/spettatore ma sempre all’interlocutore. Ora, andando ad analizzare quelli che sono i dialoghi di The Walking Dead, in “Same Boat” come nella maggior parte degli altri episodi, possiamo renderci conto di quanto questi siano disastrosi.

Go ahead, I’ve already lost everything.

Punto primo: nessuno nel mondo reale parla per aforismi. Le frasi ad effetto, quelle piene di pathos, sono stupende, elettrizzanti; spesso sono i momenti che si ricordano, anni dopo, di un intero film o di tutta una stagione. Eppure, infilarne quattro o cinque a puntata puntando più sul pathos dato dal tono degli attori che su un effettivo climax degli eventi riesce a rendere fastidiose anche quelle meglio inserite nel contesto. Altrettanto criticabili sono i contenuti, con sequenze dialogiche o, addirittura monologhi, inutili e senza un reale destinatario. Tornando ai cinque principi fondamentali, non è raro vedere un attore impegnarsi in lunghi e traumatici racconti autobiografici rivolti a personaggi appena conosciuti (l’intento sarebbe quello di fornire background e spessore), il tutto a favore dell’annoiato spettatore il cui interesse per le esperienze lavorative passate dei sopravvissuti è sempre meno vivace. Il progressivo sovraffollamento (solo ad Alexandria, nonostante le stragi recenti, si possono contare almeno una ventina di attori “principali”, più tutte le comparse) sicuramente non aiuta nel processo di caratterizzazione che risulta essere frettoloso, lacunoso e, soprattutto, raccontato più che mostrato.

You have no idea, the things I’ve done, what I’ve given up, what I had to do.

Il problema nell’affrontare l’introspezione di The Walking Dead non è recente e nemmeno sembra risolvibile, tanto che ormai è necessario adattarsi a quello che lo show è sempre stato. Anche a livello tematico questa sesta stagione palesa una povertà senza precedenti; spingendo l’analisi più in profondità abbiamo il “fin dove sei disposto ad arrivare prima che l’etica intervenga” rispolverato nell’episodio settimanale, il parallelismo uomo-zombie che ogni tanto viene inserito senza contesto, la morte e come affrontarla, gli zombie sono pericolosi ma l’uomo è peggio e “Rick che fa un sacco di cose e ammazza un sacco di gente”. Il problema principale è che si tratta degli stessi contenuti da sei anni, affrontati ogni volta con le stesse modalità e spesso nel medesimo ordine (fate caso alla citazione sopra, “The things I’ve done” e “What I had to do” hanno lo stesso significato e sono presenti nella medesima frase. Fantasia portami via.).

“Not Tomorrow Yet” aveva provato a lasciarci con un attimo di suspense sul destino – mai realmente in discussione – di Maggie e Carol, la prima incinta e la seconda in preda ad una profonda crisi esistenziale. Maggie, con la sua gravidanza, è simbolo della prima sostanziale variazione dei temi da anni a questa parte: la percezione dei sopravvissuti nei confronti del nuovo mondo è differente e l’universo di The Walking Dead non è più un posto da cambiare, dove bisogna cercare una cura alla malattia, ma è diventato un luogo in cui si può cominciare a ricostruire in maniera definitiva. I dubbi di Carol e la precedente scelta di Morgan possono essere inseriti nel medesimo contesto di rinascita e speranza in cui i principi morali – abbandonati a favore della mera sopravvivenza – non sono più un peso insostenibile nella lotta per la propria vita, ma possono convivere con il ridimensionato pericolo degli zombie e la possibilità di accordarsi e cooperare tra esseri umani.

Quello che potrebbe sembrare un banale capriccio narrativo (peraltro gestito malissimo a livello di trama: Carol che, come una variabile impazzita, va in giro facendo biscotti e terrorizzando bambini, catechizza Morgan e Rosita per poi immalinconirsi ripensando ai suoi omicidi) conduce invece ad affrontare una questione fondamentale: poter essere ciò che si vuole e non ciò che si deve è un principio alla base di numerosi discorsi filosofici, politici ed economici. In The Walking Dead si è tradotto in una differenziazione tra i combattenti e “gli altri”, con la differenza che far parte degli altri non è più una conseguenza della propria debolezza ma può essere frutto di una scelta.

“Same Boat” vorrebbe essere un episodio claustrofobico (un mattatoio come ambientazione non ci giunge nuovo), un degno proseguimento dell’orgia di sangue di “Not Tomorrow Yet”, ma fallisce clamorosamente nei suoi intenti per la pochezza dell’impianto dialogico e l’incredibile capacità degli autori di far sembrare degli idioti i personaggi. I quattro “Saviors”, in una palese condizione di vantaggio riescono a farsi mettere nel sacco da due prigioniere legate dando prova di elevatissimi livelli di stupidità che, se dovessero essere comuni a tutti gli altri uomini di Negan, fanno disperare per il prosieguo della stagione. Il fatto che l’episodio – scritto da una donna – avesse come protagoniste solo donne poteva far sperare in un piccolo cambio di direzione, un rovesciamento di punti di vista che portasse un po’ di novità, e sarebbe potuto essere così se solo i villain fossero stati più interessanti. In tal caso il confronto-scontro con la trasformista Carol e la gravidanza di Maggie sarebbe stato più fecondo, credibile e destabilizzante, portando più in là la consapevolezza degli abitanti di Alexandria di essere diventati assassini e di non essere più quelli buoni.

È diventato difficile seguire con piacere The Walking Dead, un prodotto che, cavalcando l’onda dell’incredibile successo di pubblico, vive alla giornata cercando di soddisfare le pretese quotidiane di suspense ed uccisioni dello spettatore e tralasciando definitivamente ogni pretesa di costruire un discorso coeso e complesso, che possa durare nel tempo senza doversi ripetere ciclicamente ad ogni stagione. “Same Boat” non si eleva e non sprofonda, crogiolandosi nel consueto limbo di mediocrità.

Voto: 5½
The Walking Dead – 6×14 Twice As Far
Dopo un episodio ricco di azione e violenza incontrollata ai limiti dell’assurdo e uno di introspezione davvero poco significativo, The Walking Dead piazza il suo solito filler che va ad anticipare i due capitoli finali di un’annata che, al netto di quattordici episodi, si rivela fallimentare.

Come filler si intende un episodio di una serie nel quale non vi sono significativi passi avanti per quanto riguarda la trama principale, ma è ben chiaro che questa definizione è difficilmente adattabile ad un segmento narrativo di The Walking Dead, poiché è già un’impresa ardua individuare quale sia il percorso logico intrapreso dagli autori in questa stagione. Intendiamoci, filler non è sinonimo a prescindere di “brutto episodio”, infatti si possono individuare alcuni riempitivi di eccellente fattura (Breaking Bad – 3×10 Fly), ma è anche ovvio che una puntata di questo tipo rallenta per forza di cose il ritmo della narrazione, mettendo in pausa i grandi temi per concentrarsi, magari, su questo o quel personaggio. Purtroppo per una serie con un equilibrio già precario come The Walking Dead, nella quale i personaggi non rappresentano certo la punta di diamante del prodotto, questi rallentamenti sono critici dal punto di vista dell’intrattenimento, e “Twice As Far” ne è la conferma, mettendo in mostra tutti i difetti tipici di questo genere di episodi.

Si è parlato lungamente dei problemi di ripetitività congeniti alla serie, e questi si ripropongono anche nella struttura di molti degli episodi filler che ci sono stati presentati nel corso di questi anni. La configurazione tipo di suddetti episodi è: una parte del gruppo dei sopravvissuti si allontana dalla base per qualche motivo; vengono intercettati e/o attaccati da un altro gruppo, magari dopo essersi divisi; qualcuno viene ferito o muore, in questo secondo caso nel 90% dei casi si tratta di un personaggio secondario che riceve un approfondimento rapido nello stesso episodio; i sopravvissuti infine tornano alla base. Questa ciclicità nella sequenza degli eventi è rimasta immutata e continua a venire riproposta dagli autori: lo scopo è quello di colpire gli spettatori con una morte brutale improvvisa, ma ciò che attira di più ormai è la sua messa in scena rispetto all’effettiva empatia verso il personaggio di contorno che viene tolto dai giochi.

Quindi Denise si unisce alla schiera di personaggi secondari analizzati last minute solo per dare un senso alla loro morte nell’episodio. Il focus su di lei nel corso della stagione non è stato abbastanza importante da poterla considerare una “perdita rilevante” all’interno dell’economia della serie; questo dimostra ancora una volta la sottomissione della narrazione alle affezioni del fandom, sempre più decisore ultimo dei destini dei personaggi. Non vi è più una direzione generale intrapresa dagli autori, non si può nemmeno più parlare di pianificazione della stagione, poiché settimana dopo settimana è sempre più chiaro di come si cerchi di tirare avanti fino al colpo di scena di fine stagione (che quest’anno dovrebbe essere rappresentato dall’arrivo di Negan).

Non si possono non spendere due parole sul rinnovato tentativo di utilizzare alcune scelte stilistiche non abituali per esprimere i concetti che la serie vuole analizzare: nella prima parte di “Twice As Far”, infatti, ci viene mostrato un effetto dissolvenza particolare per sottolineare la ripetitività della giornate ad Alexandria, fino alla rottura di questa routine che culmina nella scelta sofferta di Carol. Non è la prima volta che The Walking Dead prova ad uscire dal seminato, lo aveva fatto in “First Time Again” con l’impiego di un bianco e nero fastidioso e sgradevole alla visione, che aggiungeva poco o nulla all’episodio. In questo caso l’effetto è pressoché identico, confermando come questi tentativi sono sì da incoraggiare se servono a dare una scossa all’immobilità della struttura delle puntate, ma che dovrebbero essere studiati con più coscienza da parte degli autori e con un’attenzione maggiore al loro effetto su schermo.

Sono pochissimi gli spunti davvero interessanti che questa puntata lascia allo spettatore, ma nessuno di essi viene sviluppato al meglio nel corso dell’episodio. Capita spesso che la serie prenda un personaggio “forte”, come è sempre stato Carol, e lo porti ad una crisi interiore da cui avrà difficoltà a riprendersi; in questo caso la donna non riesce più a sopportare l’abitudinarietà a cui sono sottoposti i sopravvissuti e il modo in cui viene affrontato l’omicidio di altri esseri umani. Il vuoto della sedia a dondolo, che contrasta con il posacenere invece pieno di cicche di sigarette, è un rispecchiamento del vuoto che pervade l’anima di Carol, così come lo è il suo sguardo perso, incapace di trovare una soluzione alternativa in un mondo che non ne prevede. Seppur parzialmente coerente con il personaggio, l’evoluzione a cui è soggetto viene schiacciata dalla scelta di lasciarlo troppo in disparte in questo episodio: Carol appare solo all’inizio e alla fine, e la sua scelta è il risultato di quello che accade ad altri, non a lei in particolare (anche se è stata la protagonista assoluta la settimana scorsa in “The Same Boat”).

Molto più incolori tutti gli altri personaggi presenti: le love story trasversali tra Abraham/Sasha e Rosita/Spencer sono quanto di più noioso la serie potesse propinarci, solo mostrate e mai veramente raccontate; Eugene rimane costretto ad una caratterizzazione stereotipica e troppo inesplorata, tanto che l’interesse verso di lui nell’episodio è riconducibile solo al modo insolito con cui tenta di cogliere di sorpresa il suo assalitore; Morgan è funzionale nell’essere il perno morale che porta alla decisione di Carol e ai ripensamenti di Rick sul modo in cui sta gestendo la situazione, ma anche in questo caso quei pochi attimi in cui lo vediamo servono più a ricordarci della sua esistenza che altro.

La stanchezza narrativa e la povertà di idee di The Walking Dead cominciano a diventare troppo pesanti anche per la serie stessa, che rischia di implodere da un momento all’altro. Non bastano più i colpi di scena salva-vita, piazzati nei punti strategici della stagione, per tenere a galla un prodotto che ormai da anni ha perso tutte le potenzialità che un budget così alto gli permetteva. “Twice As Far” è un altro episodio dimenticabile e ripetitivo; un filler costruito nello stile classico della serie, utile solo a riempire uno slot degli episodi prima del finale di stagione.

Voto: 4/5
The Walking Dead – 6×15 East
Ormai l’abbiamo ripetuto fino allo sfinimento: The Walking Dead è da tempo (o forse da sempre?) uno show estremamente difettoso sia sul versante action, che spesso latita, sia su quello dell’introspezione, dove i problemi di scrittura si fanno sentire in maniera ancora più forte, e l’accumularsi degli episodi non ha fatto che aggravare la situazione.

Al netto di queste problematiche, che ormai risultano chiaramente strutturali e su cui forse non ha più senso fossilizzarsi, in questo secondo segmento di stagione gli autori hanno cercato da un lato di puntare su sequenze d’azione di grande impatto, e dall’altro di introdurre con più decisione il tema della trasformazione dei protagonisti in veri e propri villain spietati. Seppur anch’esse non esenti da difetti – la frequente richiesta di sospensione dell’incredulità, i dialoghi spesso didascalici – queste scelte hanno in fin dei conti giovato al racconto, che ne ha almeno a tratti guadagnato in termini di intrattenimento; il tutto in attesa dell’annunciatissimo arrivo di Negan.

Giungiamo così a “East”, penultimo episodio della stagione, il quale purtroppo costituisce l’ennesimo passo indietro per lo show, che arranca verso il finale a suon di forzature di trama, foreshadowing urlati dal tono moraleggiante e montaggi degni di una soap. Durante queste sei annate abbiamo visto i protagonisti sopravvivere a orde di zombie, dittatori, cannibali e chi più ne ha più ne metta. Se c’è una cosa che dovrebbero aver imparato è che seguire i propri impulsi e partire per un’avventura in solitaria non è esattamente una buona idea se si ha a cuore la propria sopravvivenza e quella del gruppo. Carol e Daryl però, incredibilmente, non sembrano aver assimilato questa basilare lezione di vita post-apocalittica, abbandonando Alexandria con delle motivazioni a dir poco fragili sia in senso assoluto sia, soprattutto, se consideriamo la presunta scaltrezza dei due personaggi in questione. Il repentino cambio di prospettiva vissuto da Carol, che in una manciata di puntate si è trasformata da spietata assassina a non-violenta penitente, non giustifica infatti la sua scelta di lasciare la città, dove la necessità di uccidere è ben più pressante, così come il desiderio di vendetta di Daryl, anche se più in character, non basta a spiegare la sua missione suicida. In quest’ottica ancora più inspiegabile è poi la scelta degli altri di seguirli, indebolendo ulteriormente le difese di Alexandria nonostante la minaccia dei Saviors sia imminente.

È chiaro che siamo di fronte a delle massicce forzature del racconto e dei caratteri, necessarie a innescare il processo di indebolimento e disgregazione del gruppo in modo da spianare la strada al trionfale ingresso di Negan. Quello che viene da chiedersi è se ne valga davvero la pena: l’entrata a effetto del nuovo villain vale il sacrificio di qualsiasi logica interna al racconto e lo stravolgimento di quelli che, almeno un tempo, erano tra i migliori personaggi della serie? Ed è proprio qui che si nasconde uno dei maggiori problemi, forse il più grave, dello show: i metodi poco ortodossi, e giunti a questo punto neanche efficaci, con cui gli autori tentano di catturare l’interesse dello spettatore, caricandolo di aspettative e ostentando un atteggiamento coraggioso nei confronti dei suoi personaggi principali. Sarà pur vero che il season finale porta spesso con sé una morte eccellente, ma una scrittura attenta al fan service come quella di The Walking Dead difficilmente troverà il coraggio di eliminare il personaggio più amato dello show.

La non-presenza di Negan, la fine ignota di Carol e il colpo di pistola ai danni di Daryl con cui si conclude l’episodio non sono quindi altro che gli ennesimi esempi di questo ormai logoro modus operandi, a maggior ragione discutibile se consideriamo quanto raramente la serie è stata poi in grado di tenere testa al (presunto) hype generato: per fare solo un paio di esempi tra i più recenti, altrimenti la lista si allungherebbe a dismisura, possiamo citare il ritorno di Morgan, il cui potenziale è stato quasi del tutto sprecato, e la “resurrezione” di Glenn. La fruizione richiesta da The Walking Dead appare interamente fondata sul concetto di attesa – di un arrivo, di una conferma, di un ritorno –, che è però destinata a non essere mai soddisfatta, complice una scrittura incapace di mettere a frutto ciò che semina, andando così inevitabilmente a danneggiare la sua credibilità. Viene da chiedersi se gli autori siano davvero convinti, arrivati a questo punto, che il pubblico tema davvero per le sorti di Carol e Daryl, o se si rendano conto che rimandare così a lungo l’entrata in scena di Negan non sia in fin dei conti contro producente.

Non bastano quindi gli scambi tra Morgan e Rick a risollevare le sorti della puntata, nonostante abbiano il pregio di riportare il focus su una delle tematiche cardine della serie, ovvero il rapporto tra etica e sopravvivenza: la hybris di Rick, che liberatosi da ogni scrupolo morale crede di avere tutto sotto controllo, è chiaramente destinata a scontrarsi con la realtà, ed è proprio qui che entra in gioco la posizione di Morgan, il quale finalmente riesce a smarcarsi dal superficiale pacifismo su cui era stato appiattito negli ultimi episodi. Non esiste una regola comportamentale assoluta in grado di garantire la sicurezza e la stabilità nel mondo di The Walking Dead; ogni azione può dar vita a una catena di eventi difficile da prevedere, e che non necessariamente coincide con l’adagio mors tua vita mea.

“East” ci traghetta verso il finale di stagione nel peggiore dei modi possibili, confezionando una puntata in cui i pochi elementi positivi emersi in precedenza vengono completamente sommersi da una sceneggiatura che sembra scritta seguendo alla lettera gli Improbable behavior tropes. Arrivati a questo punto le possibilità che “Last Day on Earth” riesca a soddisfare l’attesa e a stupirci sono minime, ma del resto si sa, la speranza è l’ultima a morire – anche in un’apocalisse zombie.

Voto: 4
The Walking Dead – 6×16 Last Day on Earth
Giunge a conclusione anche questa discussa e criticata stagione di The Walking Dead: l’annata si chiude con un episodio corale, che ha come al solito – purtroppo – sempre i soliti difetti, acuiti dal fatto che da un finale ci si aspetta molto. Solo negli ultimi minuti il livello si alza all’improvviso, purtroppo troppo tardi per salvare una stagione spesso deludente.

You are alive.

Partiamo con l’analisi di questo episodio da un duo che ha fatto dell’insopportabilità il suo marchio di fabbrica, soprattutto nella seconda parte di stagione. Carol e Morgan hanno rappresentato alla perfezione tutto il no sense che ha intriso gran parte delle scelte autoriali, non solo in questa stagione ma negli ultimi anni. Se Morgan è sempre stato così fin dal suo ritorno, non si capisce il motivo per cui gli autori abbiano deciso di trasformare di nuovo il personaggio di Carol, dopo la svolta “cazzuta” che era in fin dei conti riuscita. Da “Same Boat” in poi, la svolta para-religiosa è stata completamente fuori personaggio e repentina in modo imbarazzante; ha fatto fare al personaggio scelte senza senso, prese troppo velocemente per farci capire che Carol vuole morire a tutti i costi, ma che non può farlo da sola perché non le è permesso dalla sua fede ritrovata, simboleggiata dal rosario che si porta sempre dietro. Questa simbologia stantia ha stufato: da anni è sempre la stessa, da anni la religione fa capolino ogni tanto ricordando al puritano pubblico americano che la salvezza, se proprio la cerchiamo, è al di sopra di noi. Le sequenze che vedono protagonisti i due sono di una ripetitività stressante e non aggiungono assolutamente nulla alla trama principale della stagione – ovvero Negan e i suoi –, portando via tempo prezioso al dipanarsi di una storyline che poteva rivelarsi molto interessante ma che è stata sfruttata coi piedi dagli autori.

We can do anything.

Eccolo, quindi, il gruppo principale, che come in ogni episodio ha una missione: stavolta è portare Maggie dal medico di Hilltop prima che, presumibilmente, perda il bambino. Il viaggio costellato dall’ansia di vedere sbucare da ogni dove uomini di Negan non è nemmeno un’idea sbagliata, anche se alcune volte le scene sono prolisse e il tutto sfocia nella noia: ma perché non sfruttare questa cattiveria, questa violenza, per tutto l’arco della stagione? Perché non incentrare davvero la stagione su Negan e i suoi, essendo il primo gruppo davvero numeroso e iper-violento che incontrano? Questa è un’altra dimostrazione di come si sia spesso usato male il minutaggio a disposizione, cercando in tutti i modi di tenersi i colpi migliori solo per il finale: solo che a quel finale ci si deve arrivare, e qui sembra tutto inserito nell’ultima ora per sbalordire lo spettatore. L’effetto ansia funziona anche, soprattutto nella sequenza dei tronchi d’albero in mezzo alla strada e dell’impiccagione senza pietà dal ponte. Ridicola invece quella degli zombie incatenati tra loro: ma davvero Rick non poteva immaginare che i nemici si fossero nascosti tra gli alberi?

Nel viaggio che i nostri percorrono in camper c’è dell’imbarazzo vero e proprio durante il dialogo tra Abraham e Sasha, quando i due discutono dell’essere genitori in tempi come quelli, in cui pensare di avere un bambino dovrebbe essere l’ultimo dei pensieri in testa alla gente. L’idea sarebbe anche carina – ovvero tenere più al futuro dell’umanità che a quello personale – ma è paradossale come i due flirtino su un argomento tanto importante quando hanno capito da due giorni di piacersi. Forse. Questo è uno dei gravi errori della sceneggiatura, cercare in tutti i modi il messaggio a effetto senza però saperlo fare.

Eeny, meeny, miny, moe
Catch a tiger by his toe
If he hollers let him go,
My mother told me
Pic the very best one
And you are it!


Al contrario di tutte le quasi sedici puntate che hanno preceduto il finale di questo episodio, gli ultimi minuti di “Last Day on Earth” sono probabilmente quello che dovrebbe essere l’intera produzione di The Walking Dead. Il carisma che emana Negan – interpretato dall’ottimo Jeffrey Dean Morgan, perfettamente calato nella parte – non ha eguali probabilmente in nessun altro personaggio della serie. I pochi istanti che lo vedono assoluto protagonista sono costellati di tensione e terrore, che effettivamente tengono incollati alla poltrona, facendoci anche un po’ rabbrividire quasi senza dire nulla su Lucille, la mazza con del filo spinato sopra che viene trattata da Negan meglio che un essere umano. La follia che pervade lo sguardo del tanto atteso capo della banda è perfetto: finalmente si sente un brivido guardando una scena di questa serie, finalmente abbiamo l’occasione di chiederci come andrà a finire, non del tutto sicuri di volerlo sapere. Il cliffhanger finale ha fatto molto discutere in questi giorni: lasciare per altri sei mesi il dubbio su chi sia stato brutalmente assassinato da Negan ha fatto storcere il naso a molti, considerandolo una vigliaccata di sceneggiatura per aumentare l’hype verso la settima stagione. Il giudizio sta un po’ nel mezzo: è naturale restare un po’ delusi dal fatto di non saperlo subito, ma in fin dei conti la scelta è capibile e in linea con quanto succede nei prodotti di puro intrattenimento. Se si riguarda la scena, però, qualche indizio si può scoprire: da come sono disposti Rick e gli altri e da come viene puntata la camera nell’ultima inquadratura su Negan, si può trarre qualche conclusione su chi possa aver lasciato per sempre il gruppo di Alexandria.

“Last Day on Earth” vuole sottolineare come ogni giorno possa essere l’ultimo, come perdiamo spesso tempo in cose futili quando potremmo stare con i nostri cari e ricordarci a vicenda tutto il bene che ci vogliamo. Anche in questo caso, il concetto è giusto e affascinante, ma non trova il necessario sbocco nel racconto, e quindi resta sempre lì a metà, spesso mal digerito. La puntata ha sicuramente dei buoni spunti, come l’ansia del viaggio in camper ma soprattutto gli ultimi minuti, che grazie all’entrata in scena di Negan risollevano e non poco il voto all’episodio. È un finale purtroppo in linea con il resto della stagione, che ha avuto pochissime parti degne di nota e molte sequenze riempitive e non all’altezza di un prodotto che potrebbe (e dovrebbe) essere il fiore all’occhiello della produzione seriale horror americana.

Voto episodio: 6
Voto stagione: 4/5
The Walking Dead – 7×01 The Day Will Come When You Won’t Be
Sono passati sette mesi da quando Negan ha deciso che era ora di fare una conta che ancora oggi ci mette i brividi: Lucille era stata scagliata con forza sulla testa di qualcuno, prima che lo schermo sfumasse a nero. Ma su chi? Lo scopriamo in questa première finalmente ricca di contenuti ma anche – e soprattutto – di una violenza per ora solo teorizzata in The Walking Dead.

Not today, not tomorrow.

Partiamo dall’attesa, dall’hype che il finale della scorsa stagione aveva generato. Uno dei tantissimi punti deboli di questa serie è sempre stato quello di creare poca suspense intorno alla sorte dei propri personaggi, alcune volte creandola in maniera ridicola (qualcuno ha detto Glenn?): è un racconto in cui i protagonisti sono dei bersagli viventi, ed è evidente come il loro destino sia sempre appeso a un filo.

Questa situazione ha portato, negli anni, al ripetersi di molti schemi che dopo un po’ il pubblico più attento e abituato è riuscito a smascherare in corso d’opera o alcune volte addirittura in anticipo, e questo ha portato a uno scollamento empatico tra chi guarda e chi dovrebbe soffrire nella storia. Il finale della scorsa stagione aveva finalmente dato uno scossa a questi schemi grazie all’inserimento di Negan, sulla carta uno dei più folli villain nel panorama televisivo contemporaneo. E “sulla carta” non lo diciamo a caso: The Walking Dead ha dimostrato che, seguendo alla lettera o quasi il capolavoro cartaceo scritto da Robert Kirkman, si poteva veramente mettere a nudo la natura umana in un contesto apocalittico, dove la violenza e la nostra più profonda animalesca pulsione verso la sopravvivenza fungono da padrone incontrastate. Ecco, purtroppo l’hype per questa nuova stagione poteva essere molto più alto, ma vediamo il lato positivo: questa puntata è stata di gran lunga superiore alle aspettative, forse addirittura più alte di quelle di chi ama questo prodotto incondizionatamente.

Rick Grimes è ovviamente il protagonista incontrastato di The Walking Dead, ed è anche un po’ lo specchio di chi guarda la serie, soprattutto in questo episodio. L’apertura non può che essere su di lui, un attimo dopo che Negan ha ucciso uno dei protagonisti, intento ancora a insistere nel suo ruolo di leader duro e puro, minacciando il suo interlocutore anche se in evidente difficoltà. Ecco, per chi non conosce Negan e non si aspetta molto dalla scrittura dei personaggi, sarà sembrato il solito attacco con la solita conclusione: ma ben presto Rick avrà dipinta sul volto la stessa nostra sorpresa nel vedere quanto ci stavamo sbagliando.

Think about what happened.

Anche noi dovremo pensare a lungo a quanto è successo e probabilmente a quanto dovrà succedere, se gli sceneggiatori decideranno di seguire questa strada impervia e violenta e non edulcorare tutto come spesso è successo nelle annate precedenti. È tutto sulle spalle di Rick, lo è sempre stato e lo sarà sempre. Lui stesso si è messo in questa situazione, pensando sempre che ce l’avrebbe fatta. Finalmente la variabile impazzita del caos criminale – molto simile a quello del Joker del Cavalerie Oscuro – irrompe sulla scena e scompiglia tutto quello che c’è in tavola. La prova che Negan inscena per Rick è il perfetto specchio di quello che è successo finora: andare in mezzo agli zombie, rischiando più volte la vita, per recuperare qualcosa che dovrà comunque ridare a un folle. Se ci pensate bene non ha alcun senso, ma è quello che questo gruppo è costretto a fare – a volte per colpa, altre per merito degli scrittori – da anni, e che ora si trova a farsi una domanda: a cosa è servito tutto questo? La nebbia dell’anima in cui si ritrova immerso Rick mentre ripensa alle esecuzioni ultraviolente di Abraham e Glenn è la perfetta metafora di quello che sta affrontando il leader, sentendo tutte le colpe addossarsi su di lui.

A proposito di ultaviolenza: è stata gratuita diegeticamente parlando, ovvero nel mondo di The Walking Dead che stiamo guardando, ma assolutamente in linea con quello che in teoria questa serie e questa storia dovrebbero rappresentare. La sequenza dell’esecuzione di Glenn è finalmente inserita in un contesto per cui ci fa realmente sobbalzare sulla sedia, perché avviene all’improvviso ma soprattutto perché si parla di uno dei personaggi storici della serie, quando molti avranno storto il naso pensando alla morte di un personaggio secondario come Abraham. Il trucco sulla faccia di Steven Yeun è perfetto, ed incredibilmente somigliante ai disegni del fumetto, assolutamente disturbante e quasi nauseante. Ma non smetteremo mai di ripeterlo: è questo quello che è diventato il mondo, è questo quello che succede e che ogni tanto ci toccherebbe vedere per rendercene conto.

Bet you thought you were all gonna grow old together, sittin’ around the table at Sunday dinner and the happily ever after. No. Doesn’t work like that, Rick. Not anymore.

Non più. Mai più. Negan è questo. Negan e Lucille spezzano un barlume di vita che il gruppo si stava costruendo, con le due città e tutti i legami tra di loro che sembravano riportarli a una parvenza di realtà. Non funziona più così, lo avevamo capito, ma forse in questo caso il messaggio non è stato solo velato o sussurrato: il messaggio ha la voce roca di una mazza ricoperta con del filo spinato. Non possiamo sapere come andrà a finire la serie, anche perché probabilmente non lo sa nemmeno il suo creatore, ma su una cosa al momento siamo certi: i sogni rimangono sogni, per loro non c’è più posto. La speranza muore in quelle due macchie di sangue che rimangono nella radura e nei filamenti di carne che rimangono impigliati in Lucille; muore nel ghigno teso di Negan e nelle lacrime disperate di Rick, quasi costretto ad amputare un braccio a suo figlio. Questo è The Walking Dead, finalmente, e sarebbe dovuto esserlo anche nei sei anni precedenti questa puntata, cosa che purtroppo è avvenuta in maniera estesa nel computo totale.

L’episodio ha avuto diciasette milioni di spettatori negli Stati Uniti, finalmente giustificati. “The Day Will Come When You Won’t Be” è una puntata che non ha difetti, se presa nel contesto e soprattutto se rapportata alla novantina di puntate precedenti. “Il giorno verrà quando non ci sarai”, recita il titolo: per i protagonisti è assolutamente profetico, e per noi spettatori è quasi di riflesso una speranza nel fatto che la serie continui su questo binario e che non si perda come gli anni scorsi in discorsi altri: noi c’eravamo per questo episodio, sperando che non rimanga un fenomeno isolato. Sia chiaro: va benissimo l’analisi psicologica e quello che ne deriva, ma questa serie è prima di tutto puntate come questa.

Voto: 8
The Walking Dead – 7×02 The Well
Dopo le enormi ferite inferte durante la premiere di settimana scorsa – a discapito non solo dei protagonisti, ma anche degli spettatori –, la seconda puntata della settima stagione di The Walking Dead segna l’inizio di un lento processo di recovery dopo la furia di Lucille.

Il focus, però, non è sul gruppo principale, ma sul duo Carol/Morgan; l’inizio particolare di questo episodio fa da ponte tra i due gruppi e ci fa capire lentamente come sarà questa stagione, rendendoci un po’ più chiaro il quadro generale.

Oltre al dolore che porta allo stremo delle forze, la violenza unisce la fine di “The Day Will Come When You Won’t Be” all’inizio di “The Well”, che continua l’operazione di straniamento iniziata con la premiere, grazie ad un montaggio inedito per la serie, che bene racconta una Carol inerme, così come erano inermi Rick e i suoi compagni dopo la morte di Glenn e Abraham. La vista offuscata di Carol e le sue allucinazioni non fanno altro che potenziare il segmento d’apertura, aumentando il senso di pericolo che non è mai stato tanto forte come in questo inizio di stagione. Se questa prima sequenza non ci fa rimpiangere che l’attenzione non sia puntata su Rick e gli altri, l’arrivo di Morgan e Carol a Kingdom smorza l’entusiasmo: l’abbandono del posto chiamato casa e l’approdo in un nuovo luogo sicuro è diventato un copione ripetuto troppe volte nello show, ma, se l’arrivo di Negan e la sua violenza mostruosa ci hanno dato un barlume di speranza che la serie possa davvero evolvere – o almeno cambiare –, allora è il caso di aspettare e vedere se gli elementi di novità potranno essere anche altri.

L’entrata in scena di Re Ezekiel è sicuramente da annoverare nella lista delle novità positive, almeno per il momento; se i luoghi che hanno fatto da casa ai nostri protagonisti sono stati diversi, ma con capi molto simili tra di loro, Ezekiel ci spiazza con la sua originalità, non solo estetica. La reazione di Carol alle domande di Ezekiel riflette completamente lo stupore dello spettatore di fronte ad una situazione ai limiti dell’assurdo, che la presenza della tigre Shiva non fa altro che amplificare. Il riso nervoso della donna è il nostro, sanguinanti dopo l’incontro con Negan e sicuri che questo nuovo scenario sia troppo bello per essere vero.

La figura di Re Ezekiel è molto interessante per due motivi: il primo è che questo capo carismatico sembra un personaggio positivo, pronto ad accogliere due sconosciuti in difficoltà e aiutarli a tempo indeterminato. Dopo essere stati abituati ad altri capi molto meno indulgenti – come il Governatore o Negan –, per noi spettatori questa nuova figura di capo buono e allo stesso tempo competente risulta interessante (e sarà soprattutto interessante vedere come reagirà alle prime difficoltà). Il secondo punto di novità è il suo essere attivo e direttamente inserito nel resto della popolazione di Kingdom. Ezekiel si spinge oltre le mura della sua città protetta, si confronta con gli zombie e interagisce con i nuovi arrivati: di Morgan capisce il valore dell’esperienza e si fida di lui – anche in modo affrettato e ingenuo; con Carol cerca di instaurare un legame altrettanto profondo, essendo comprensivo – a tratti in modo eccessivo – e riponendo fiducia in una sconosciuta che sarebbe potuta essere una minaccia. Così aveva fatto con la tigre Shiva, salvandola dagli erranti e sperando che la riconoscenza dell’animale sarebbe stata abbastanza forte da impedirle di sbranarlo vivo. Il rapporto di Ezekiel con la belva simboleggia quello che instaura con gli altri, un legame che non è sempre alla pari, ma che ha come obiettivo la sopravvivenza di entrambe le parti, concetto lontano anni luce da quello che caratterizza Negan.

Il secondo aspetto positivo della puntata è un altro personaggio: Carol. La donna continua ad essere una delle figure meglio riuscite dello show e incarna in modo molto buono un’evoluzione credibile, figlia degli eventi traumatici che l’hanno vista protagonista. Uno dei difetti maggiori di The Walking Dead è l’immobilità di certe situazioni e personaggi, che non cambiano mai o che tendono a ripetersi all’infinito; Carol invece è riuscita a cambiare pur rimanendo sempre se stessa. Ora l’effetto sorpresa è la sua arma principale e la donna ha tutta l’intenzione di usarla in questa occasione: facendosi passare per un’innocua signora eccitata al solo pensiero di una fetta di crostata, Carol mette già qualche base per le prossime evoluzioni della storia, prepara il terreno per la fuga, studia il posto che la ospita cercando di farsi conoscere il meno possibile; anche questo è uno degli insegnamenti che la vita le ha riservato.

È chiaro che “The Well”, insieme a “The Day Will Come When You Won’t Be”, sia un nuovo inizio per la serie, che con la premiere ha voluto segnare un importante punto di rottura col passato, non solo dal punto di vista estetico e stilistico: con questo secondo episodio lo show ha iniziato a dare forma ad un nuovo corso e creare delle nuove storyline di cui conosciamo solo i protagonisti, ma non dove andranno a parare. Questa è l’unica grossa incognita, che ci riempie di speranza, ma che allo stesso tempo ci riporta alla memoria tutte le volte che abbiamo dato fiducia a quelle che sembravano delle novità e che invece si sono rivelate la solita minestra riscaldata. L’incontro inaspettato tra Morgan e gli uomini di Negan è un piacevole colpo di scena, che sembra un crossover tra due storie dello stesso universo narrativo, ma per il momento distinte e separate, non solo per la lontananza di Carol e Morgan dal massacro di “The Day Will Come When You Won’t Be”, ma soprattutto perché le due situazioni sono state raccontate con uno stile estremamente diverso.

Per questi motivi la puntata è soddisfacente e, come da tradizione, sposta l’attenzione dagli eventi principali per fare il punto su tutti i personaggi coinvolti nella storia; in questo caso, però, lo spostamento della messa a fuoco ha senso e ci mostra qualcosa di interessante e godibile, non ancora influenzato dalla furia di Negan. Il punto di contatto tra questa realtà e quella massacrata che vede al centro Rick e gli altri sarà il prossimo step importante del racconto, che “The Well” ci fa solo pregustare.

Voto: 7+
The Walking Dead – 7×03/04 The Cell & Service
Come ogni anno la serie di punta della AMC tenta di rilanciarsi a livello qualitativo, dopo aver macinato tutti i record di ascolti possibili. L’affezione dei fan allo show è tanto solida da non preoccupare per nulla la rete, che continua a tentare degli approfondimenti poco credibili sui personaggi e a lavorare sulla lenta attesa di un grande colpo di scena.

Proprio per questo la sensazione riguardo la programmazione di quest’anno è la stessa dello scorso: grande inizio, puntate lente e riflessive per preparare il terreno, gran finale di midseason, e così via. La ripetitività di questo ciclo impone di analizzare le puntate della serie anche in relazione al loro collocamento nella stagione, da sempre uno dei peggiori difetti di The Walking Dead. Dopo “The Day Will Come When You Won’t Be”, ad esempio, dobbiamo attendere ben tre episodi prima di assaporare le conseguenze che l’arrivo di Negan ha portato nel gruppo di Rick, e anche in questo senso non ci possiamo ritenere completamente soddisfatti. Certo, lo show è formato da tanti personaggi, e la scelta di saltare da un’ambientazione ad un’altra potrebbe essere vincente, se solo questi fossero ben scritti e in grado di reggere cinquanta minuti sulle loro spalle. Quest’anno Jeffrey Dean Morgan dà una grossa mano a rendere meno pesante il tutto, ma anche il suo Negan, alla lunga, ha tutte le potenzialità di appiattirsi e annoiare al pari degli altri.

Questi errori nella posizione degli episodi si esemplificano proprio in “The Cell”, un episodio Daryl-centrico che vuole mostrarci quanto possa essere terribile la prigionia di Negan, anche in relazione al compromesso terribile che ha dovuto accettare Dwight. È certamente interessante dare uno sguardo alla base del villain della stagione – in questo senso l’AMC non bada mai a spese – e confrontarlo con l’episodio precedente dedicato a Ezekiel, due tipi di società che non potrebbero essere più diverse; tuttavia rimane sempre il sentore, che poi si rivelerà corretto, che l’episodio sia un gigantesco filler, risolvendosi nel finale con un nulla di fatto. Dwight, in fin dei conti, non cambia nella sua caratterizzazione, Daryl rinuncia a sottomettersi a Negan e lo status quo iniziale non si modifica.

È in questo momento che si sarebbe fatto volentieri a meno di conoscere il destino di Daryl e si sarebbe auspicato un ritorno ad Alexandria, dove le conseguenze della morte di Abraham e Glenn potevano risultare d’impatto e un diretto prosieguo degli ottimi spunti generati dalla premiere. Invece bisogna attendere “Service”, il quarto episodio, per rivedere Rick e soci, che beneficiano, però, di un salto temporale non necessario e fin troppo comodo agli autori.

È sempre Negan la star: anche in questo caso l’episodio è tutto giocato sulla sottomissione di Rick e sull’accanimento psicologico dell’uomo con la mazza nei confronti dell’ex poliziotto. Il rapporto che si instaura tra i due vede il protagonista della serie per la prima volta in una condizione di inferiorità, sia fisica che morale, accettando una resa con termini a lui altamente sfavorevoli. I Saviors si comportano proprio come dei bulli, ridicolizzando gli abitanti di Alexandria e non perdendo occasione di sbeffeggiarli, distruggendo la loro umanità; simbolo lampante di questo procedimento è il furto dei materassi trovati poi abbandonati e bruciati da Michonne.

La debolezza di Rick fa sì che intorno a lui emergano altri caratteri forti, da sempre in ombra rispetto al leader. A partire da Carl, che incarna lo spirito combattivo e non arrendevole del padre nei suoi tempi migliori, per arrivare a Spencer, personaggio pressochè inutile nella scorsa stagione, qui che sgomita per avere un ruolo di rilievo. Anche Rosita, Michonne e Padre Gabriel reagiscono in modo molto diverso alle scorribande del gruppo di Negan, lasciando trasparire una perdita di fiducia nei confronti del personaggio di Andrew Lincoln. La scelta di provare a caratterizzare meglio gli elementi che compongono il gruppo di Rick potrebbe rivelarsi vincente, sempre che a questo meccanismo verranno affiancati dei percorsi di crescita coerenti e se il tutto sarà inserito in una storia più grande, una trama orizzontale chiara in grado di rapire lo spettatore episodio dopo episodio.

Perché il problema principale dell’ultimo The Walking Dead è proprio la mancanza di un obiettivo a lungo termine che determini la progressione della storia. Sappiamo ormai tutti che non avremo alcuna informazione sul motivo che ha fatto scatenare l’epidemia – lo stesso Kirkman ha sempre detto che non c’è alcun bisogno di saperlo – e, allo stesso modo, non ci sarà mai una risoluzione che determinerà il raggiungimento della fine di un percorso. L’unica cosa che devono fare i protagonisti dello show è sopravvivere: per questo la trama può essere potenzialmente infinita e, come già sta accadendo, priva di appeal e ricca di episodi stand-alone. Si tratta di uno dei tratti caratteristici della serie e, senza un cambio di rotta radicale, è pressochè impossibile che la situazione cambi.

“The Cell” e “Service” sono i classici episodi di The Walking Dead giunti a questo punto; lenti, introspettivi, ricchi di giri a vuoto. Meglio il secondo del primo, in cui finalmente si torna ad Alexandria, anche se non si spiega neanche in questo caso la necessità di renderlo l’episodio più lungo della stagione. L’attesa prima di un nuovo grande colpo di scena è ancora lunga, e ci si augura che gli autori trovino di meglio per ingannare il tempo che ci separa dal midseason finale.

Voto 7×03: 5
Voto 7×04: 6
The Walking Dead – 7×05 Go getters
Con il passare del tempo inquadrare il fenomeno The Walking Dead, e quindi i motivi del suo successo, è diventato sempre più difficile, soprattutto a fronte del sempre più accentuato scollamento tra l’anima gore e le aspirazioni intimiste dello show.

La presunta incursione della cosiddetta quality tv nel genere dell’horror post apocalittico ha presto rivelato tutti i suoi limiti, evidenziando come le velleità di analisi di carattere etico, sociale e psicologico molto presenti ai tempi dell’esordio costituiscano ormai poco più di uno strumento utile a giustificare i frequenti giri a vuoto della narrazione. Quella dello show AMC è infatti una scrittura spesso pigra e superficiale, in cui l’approfondimento dei personaggi raramente colpisce nel segno, finendo per diventare un mero riempitivo in attesa del prossimo colpo di scena o cliffhanger. “Go getters” è un episodio emblematico di questo atteggiamento, il cui carattere di filler viene mal celato dal supposto scavo psicologico di alcuni dei protagonisti.

Dopo ben quattro episodi dalla morte di Glenn e Abraham gli autori decidono di condurre la narrazione a Hilltop, mostrandoci finalmente come Maggie e Sasha stanno reagendo alla perdita dei rispettivi compagni. La scelta di rimandare così a lungo il focus sui due personaggi che più di tutti sono stati emotivamente colpiti dalla furia di Negan non può che rivelarsi controproducente: quella che viene messa in scena è una sofferenza ormai raffreddatasi – e questo in un certo senso vale anche per lo spettatore –, costretta ad appoggiarsi su simboli e immagini esteriori (l’orologio e il sigaro), perché in fin dei conti già proiettata verso la vendetta (nel caso di Sasha) e la leadership (Maggie). L’episodio in questo senso quindi non fa che confermare come tutti i personaggi di The Walking Dead non siano altro che pedine interscambiabili, la cui morte è funzionale unicamente a shockare lo spettatore e a provocare una reazione violenta nei vivi.

Lo stesso discorso, a maggior ragione, vale per Carl e Enid, due figure che non sono mai state in grado di ricevere una caratterizzazione che oltrepassasse l’etichetta di “adolescente impulsivo che si mette costantemente in pericolo” e le cui vicende non possono quindi sperare di suscitare il minimo interesse nello spettatore. Per quanto la scelta di opporre la rassegnazione e la remissività di Rick al desiderio di ribellione e di rivalsa del figlio non sia affatto priva di potenziale, le scene che vedono protagonisti i due ragazzi risultano fiacche, dando l’impressione che si stia perdendo tempo solo per arrivare in chiusura a mostrarci Carl diretto verso il Sanctuary insieme a Jesus – unico vero passo in avanti a livello di trama dell’episodio.

Allo stesso modo, le vicende “politiche” che coinvolgono Jesus, il leader di Hilltop e i Saviors – le quali finiscono col fagocitare la rappresentazione del dolore delle due donne – non possono dirsi particolarmente riuscite, innanzitutto per la ripetitività con cui ci viene di nuovo presentato il modus operandi dei Saviors, che abbiamo appena visto all’opera ad Alexandria in un episodio inutilmente più lungo del normale. Se la tensione per l’eventuale scoperta del tradimento di Hilltop e della presenza di Maggie e Sasha è pressoché assente, d’altro canto a emergere è infatti proprio l’esplicita – verrebbe da dire urlata – volontà di insistere sulla perfidia gratuita dei nuovi villain, in modo da preparare il terreno a quello che, presumibilmente, sarà uno scontro su larga scala che vedrà Alexandria, Hilltop e The Kingdom allearsi contro Negan. Il passaggio da una rappresentazione diacronica a quella sincronica di diverse comunità ha dato vita a un racconto di più ampio respiro, che se sfruttato a dovere potrebbe davvero portare nuova linfa vitale alla narrazione – pensiamo al potenziale del Kingdom e di Ezekiel –, nella speranza però che non si rivelino essere solo carne da macello per lo scontro con i Saviors. La carneficina della premiere e le continue umiliazioni subite dai personaggi lasciano infatti intendere che le aspirazioni riflessive degli esordi, apprezzabili pur nella loro imperfezione, hanno ormai lasciato spazio a un circolo di violenza-umiliazione-vendetta che non contempla sfumature intermedie e che fa appello ai sentimenti più bassi dello spettatore.

Il dato che emerge con forza in questa stagione è quindi quello di un maggior scollamento tra le due anime dello show: da un lato abbiamo la volontà di puntare sempre di più sul gore (che però continua a essere centellinato) e sul binomio crudeltà-sopravvivenza, dall’altro un approfondimento delle psicologie dei personaggi portato avanti con sempre meno convinzione, in quanto ormai totalmente funzionale a creare la giusta attesa prima di una nuova esplosione di violenza. Si tratta di uno schema difettoso ma su cui lo show ha continuato a fare affidamento forte del consenso del pubblico, il quale però, stando ai dati degli ascolti, non sta accogliendo in modo positivo questa ulteriore radicalizzazione.

In attesa di vedere in che modo le diverse storyline, al momento tenute insieme dalla diaspora dei protagonisti e dalla sottomissione a Saviors, andranno a intrecciarsi, non possiamo non valutare “Go getters” come l’ennesimo fallimento dello show, ora più che mai bisognoso di un segnale come quello del calo di ascolti per provare a rimettersi in carreggiata.

Voto: 5-
The Walking Dead – 7×06 Swear
La premiere della settima stagione di The Walking Dead ci aveva tratto in inganno: chi pensava che un nuovo inizio fosse possibile aveva prontamente abboccato all’amo per poi rimanere deluso dagli sviluppi che il dopo premiere ha preso; una serie di episodi filler ci ha portati a Oceanside, con la speranza di rimanere finalmente soddisfatti.

La tecnica, però, è quella di sempre: un grande inizio per invogliare lo spettatore, un intermezzo vario, ma costantemente deludente e un mid-season finale col botto per dare un’accelerata all’attenzione che si era gradualmente spenta – e per il momento due fasi su tre si sono compiute. In questo momento TWD si trova nella fase di mezzo, in cui lunghe puntate riempitive la fanno da padrone, raccontandoci di questo o quell’altro personaggio secondario, per poi continuare ad ignorarlo finché non serva di nuovo del materiale per fare minutaggio.

In “Swear” è il turno di Tara, che mai e poi mai ci saremmo aspettati di vedere al centro di un episodio a lei dedicato; gli eventi narrati sono totalmente slegati da quelli della storyline principale e ci viene raccontata una storia che nulla ha aggiunto all’universo dello show. Oceanside è l’ennesima comunità nascosta per proteggersi dai mostri, ma crocevia involontario di qualunque viaggiatore: ci si imbatte Tara, ma anche i Salvatori, che hanno sterminato tutti gli uomini rendendola, di fatto, una colonia formata da sole donne. Pur sviluppando un’intera puntata su personaggi femminili non ancora incasellati in ruoli consolidati e quindi modellabili secondo ogni tipo di esigenza narrativa, “Swear” non ha fatto nessun lavoro sulla rappresentazione delle donne in questo universo post-apocalittico, perdendo la chance di descriverle in un altro modo rispetto alle categorie “guerriera arrabbiata” o “sprovveduta da proteggere“. Tutte le donne restano personaggi piuttosto semplici, diffidenti, ma buoni nel profondo e ingenui.

Tara, che invade una comunità di cui non fa parte, e le abitanti di Oceanside, che la lasciano andare sulla parola – dopo aver visto i loro amici e parenti uccisi da estranei –, riassumono l’idea che The Walking Dead vuole dare delle donne, o per meglio dire della pigrizia con cui vengono descritte delle figure che meriterebbero una sorte migliore. Per questo motivo la svolta femminista non è andata a buon fine e, pur apprezzando lo sforzo e il coraggio di dare in mano un intero episodio a donne semi-sconosciute – non perché sia una cattiva idea, ma per la difficoltà che gli autori di TWD hanno settimanalmente nella stesura delle sceneggiature – non possiamo dirci soddisfatti del risultato.

“Swear” ci apre definitivamente gli occhi sul fatto che The Walking Dead è diventata una serie presuntuosa: vuole farci credere che a qualcuno interessino le sorti di un personaggio che definire di sfondo sarebbe comunque eccessivo e pensa che cinquanta minuti di nulla assoluto vadano bene solo perché dieci milioni di spettatori sono stati davanti allo schermo a vederlo. Per questo motivo TWD incarna il peggio dell’autorato televisivo, quello che si nasconde dietro ad un brand e lo venera in modo assoluto, seguendone alla lettera le regole auto imposte che si ripetono all’infinito. È per questo motivo che la serie non potrà mai cambiare: prima di tutto perché non è conveniente farlo – il salto nel buio sarebbe troppo rischioso a fronte di uno show che funziona pur essendo brutto – e in secondo luogo perché una buona scrittura ha bisogno di menti che facciano fatica. “Swear”, però, va oltre al concetto di brutto e pesca a piene mani nel cesto dell’inutilità, caratteristica, se è possibile, peggiore.

Se la premiere aveva avuto il pregio di trasformare la violenza in trama, non facendo accadere quasi nulla per tutta la puntata – se non le due morti largamente anticipate –, facendo comunque restare incollati allo schermo gli spettatori, “Swear”, ma anche “Go Getters” e “Service“, non hanno neanche saputo giocarsi questa carta. La delusione scaturita dalle promesse iniziali, unita alla scarsa qualità di questa puntata in particolare, tolgono ogni speranza per il futuro breve dello show, ostaggio di se stesso e del suo pubblico, troppo numeroso per permettere agli autori di essere liberi creativamente. Per questi motivi, l’episodio vince il titolo di più inutile di sempre, aspettando – e siamo sicuri che succederà – che gli venga sottratto da qualcosa di peggio.

Voto: 4½
The Walking Dead – 7×07 Sing Me A Song
Abbandonata, finalmente, la deriva filler che aveva preso la serie dopo la premiere e dovendo preparare il terreno per il finale di midseason incombente, The Walking Dead riporta al centro dell’azione quasi tutti i suoi personaggi principali: da Negan e i Salvatori, a Rick e Alexandria, lasciando però fuori incomprensibilmente Ezekiel e il suo regno.

Non si spiega, infatti, la scelta di costruire una sequela di realtà molto promettenti al di fuori di Alexandria, che fino all’anno scorso era stata la protagonista indiscussa, senza però sfruttarle a dovere. Il primo episodio in cui Ezekiel e Shiva sono apparsi è stato anche l’ultimo e lo stesso vale per la comunità femminile scoperta da Tara nello scorso; tutti elementi che potrebbero convergere e dare uno sprint quanto mai necessario alla narrazione, sempre più stanca e sempre meno ispirata.

Il calo di ascolti della scorsa settimana deve aver generato una piccolissima crepa nelle convinzioni sulla solidità indiscussa dello show, che comincia a sentire l’affanno – parliamo pur sempre di una serie alla sua settima stagione – di una gestione disastrosa che, nel corso degli ultimi anni, l’ha allontanata sempre di più dall’etichetta di “serie di qualità”. È difatti ormai chiaro che The Walking Dead sia più simile ad una lunghissima telenovela con gli zombie: sempre alla ricerca dell’approfondimento tematico o dell’introspezione dei suoi risibili personaggi, ma il cui destino è quello di girare in tondo senza avere successo né nell’una né nell’altra.

“Sing Me A Song” è l’esempio lampante di queste difficoltà; l’episodio ha come fulcro l’incontro-scontro tra Carl e Negan, che richiama e si pone in opposizione a quelli a cui abbiamo assistito precedentemente tra il villain e Rick. Anche in questo caso si poteva gestire tutto in modo molto diverso: la – poca – tensione accumulata dalla missione in solitaria del ragazzo per tentare di vendicarsi di Negan viene dissipata nei primissimi minuti, con il fallimento annunciato di un piano molto stupido e la sua cattura prevedibile e scontata da parte dei Saviors. Il problema qui è ancora più ampio: riguarda l’assoluta certezza dello spettatore che un personaggio chiave, come lo sono Carl e Negan, non uscirà mai di scena in un episodio di transizione, lasciando alla “paura” di una loro dipartita prematura il tempo che trova. Come è già stato detto tante volte, The Walking Dead è una serie schiava del proprio pubblico e, per questo motivo, ingabbiata dal fan service e praticamente costretta a muoversi su binari predefiniti senza potersi prendere il rischio di grandi deviazioni.

È questa la ragione per cui nel confronto tra i due personaggi è un po’ più interessante tutto quello che fa da contorno: facciamo un’altra visita alla base dei Saviors, scopriamo qualcosa in più sulle regole che la governano e sui personaggi che la abitano prima di ritornare ad Alexandria. Negan continua ad essere un personaggio magnetico e un cattivo convincente su cui si può costruire un carattere originale, nonostante in alcuni punti dell’episodio cominci ad accusare segni di stanchezza e di ripetitività. Il suo eterno sorriso e la sua follia trovano in “Sing Me A Song” il disvelamento di un’umanità celata, sommersa dalla crudeltà e dall’inebriamento del potere che lo contraddistinguono. Simbolica in tal senso è la scena finale in cui si appropria della casa di Rick e prende Judith con sé, ricreando un distorto quadro familiare dalle sfumature decisamente inquietanti.

Se questo segmento narrativo a tratti funziona, non si può dire lo stesso di tutte le altre storyline, riempitive e decisamente poco interessanti. A partire dalla ricerca delle provviste che interessa da un lato Rick e Aron, dall’altro Spencer e Padre Gabriel, fino ad un altro piano totalmente improvvisato – al pari di quello di Carl – per andare a cercare vendetta contro il personaggio interpretato da Jeffrey Dean Morgan. Niente di tutto questo è davvero appassionante e la sensazione è che i personaggi si stiano muovendo per essere al posto giusto all’inizio del prossimo episodio, prendendo decisioni senza senso e facendo scelte poco coerenti.

“Sing Me A Song” è sicuramente un episodio migliore del precedente – sarebbe stato difficile fare peggio – che, tuttavia, continua a risentire di una pesantezza generale di cui è sempre più difficile liberarsi. È davvero così arduo riuscire a costruire una storia che possa intrattenere senza pretese e non annoiare? Agli autori il compito di fornire una risposta.

Voto: 5,5
The Walking Dead – 7×08 Hearts Still Beating
The Walking Dead raggiunge il giro di boa stagionale con una puntata che ovviamente getta le basi per la seconda parte che, almeno sulla carta, dovrebbe essere all’insegna della guerra totale ai Salvatori. E il protagonista indiscusso e che regge la già fragile baracca rimane sempre Negan.

“Hearts Still Beating” è costruito (e c’era da aspettarselo) come un episodio corale, dove vediamo in azione tutti i personaggi e i loro rispettivi problemi: questo modo di raccontare non fa che amplificare la netta differenza della storyline principale con quelle degli altri protagonisti.

Sempre debole e raffazzonata sembra essere la sequenza dedicata a Carol e Morgan: abbiamo ormai capito da tempo la volontà della prima di vivere in esilio, e da tempo si è capito che agirà di nuovo solo in vista di un bene superiore, come sarà probabilmente la guerra ai Salvatori. Il loro dualismo – che poi vero e proprio dualismo non è – continua a non funzionare: è ormai stantio, logoro e non dice più nulla su due personaggi che o sono rimasti un po’ piatti (Morgan) oppure hanno subito una trasformazione troppo repentina e quasi ridicola (Carol). Maggie e Sasha ormai fungono solo da appoggio alla storia principale e forse rientreranno effettivamente in gioco nella seconda parte di stagione: anche in questo caso la trama disegnata dall’autore per la coppia (o il trio, se consideriamo anche la giovane Enid) sembra intravedersi già da tempo, con Maggie pronta a prendere il potere, sostenuta dal popolo. Poi c’è Rosita e la sua sete di vendetta, Daryl che riesce a fuggire grazie a un aiuto misterioso e la strana coppia Rick-Aaron che trova provviste su una barca di un possibile (probabile?) nuovo protagonista: sono tutte sequenze che riempiono il minutaggio ma non danno quello che forse vorrebbero; non c’è una scossa, un brivido, un pensiero più profondo, solo sequenze che portano da un punto A a un punto B. E poi, come dicevamo, c’è Negan.

The Walking Dead ha sempre avuto bisogno di grandi villain per giustificare una narrazione che altrimenti sarebbe stata solo la presa di coscienza dell’Apocalisse, sopravvivenza stentata, sopravvivenza, morte. Da Shane passando per il Governatore, lo show ha avuto i suoi picchi di pathos proprio nello scontro frontale tra questa forza bruta e oscura e quella altrettanto cruenta del gruppo di Rick, che non si è mai sottratto a fare la cosa giusta anche con mezzi non del tutto convenzionali. Allo stesso modo Negan sta spezzando la monotonia della serie: anche se molte delle azioni che compie sono prevedibili (la violenza nuda e cruda lo è spesso, azzerando tutto a un livello animalesco), molte altre ci portano a un livello di sopportazione visiva e interiore di molto superiore a quello a cui The Walking Dead ci ha abituati. Il funzionamento della sua comunità è paragonabile a uno Stato a regime totalitario, ma forse ancora più spaventoso se si considera che Negan non ha remore a mostrarsi in prima persona come esecutore delle pene capitali. Il ferro bollente sul viso è forse addirittura nulla in confronto alle sequenze che hanno aperto la stagione, ma effettivamente, quando c’è l’ottimo Jeffrey Dean Morgan sullo schermo, la tensione è palpabile.

Il culmine dell’episodio si ha nelle scene della partita di biliardo in mezzo alla strada, e qui si ritorna agli antichi e troppo spesso ripetuti picchi negativi di sceneggiatura e regia dello show: perché di punto in bianco una ventina di persone compaiono dal nulla a guardare il match? Perché Rosita, che fa parte del gruppo, aspetta forse il momento meno opportuno per sparare a Negan quando poteva ammazzarlo nel bel mezzo di una steccata? A questo si aggiunge la morte di Spencer: al solito violenta e splatter, ma decisamente girata male, al contrario di quanto di buono era stato fatto nel primo episodio. Ovviamente la randomica vendetta di Negan, che fa sparare a una persona a caso, colpisce uno dei personaggi più insulsi dell’intera serie e che era assurto a semi-protagonista giusto per (non) farci piangere la sua crudele dipartita.

Infine, è abbastanza ridicola la presa di coscienza di Rick che, forse sì, bisogna combattere e non genuflettersi ogniqualvolta Negan si presenta ai cancelli. Ovvio che Rick sia sconvolto dopo quello che ha passato, e va bene che anche un leader carismatico come lui possa incontrare dei momenti di estrema difficoltà, ma davvero basta un minuto di discorso accorato di Michonne per fargli cambiare così repentinamente idea? È un peccato avere tutta questa fretta per turning point probabilmente importanti quando durante l’anno vediamo puntate totalmente prive di senso come “Swear”. “Hearts Still Beating” è chiaramente una puntata di preparazione alla seconda metà di stagione che si spera sarà come dovrebbe essere: ormai abbiamo capito da anni quali sono i difetti di questa serie e probabilmente non miglioreranno più. Rimane comunque ancora qualcosa per cui valga la pena arrivare fino in fondo alla stagione, ed è sicuramente il personaggio di Negan e tutto quello che si porta appresso. Il cuore di The Walking Dead batte ancora? Stando agli ascolti, il battito è forte e vigoroso; giudicandolo come dobbiamo fare noi, è lento e fa fatica, ma nonostante tutto siamo ancora qui ad ascoltarlo. Ed è già qualcosa.

Voto: 6-
The Walking Dead – 7×09 Rock In The Road
Altra pausa, altra midseason premiere. The Walking Dead torna in questo 2017 carico di aspettative per una guerra totale sempre più vicina che, forse, riuscirà a dare finalmente uno scossone alla sua derelitta trama orizzontale, da sempre il tallone d’Achille di una serie che deve la sua popolarità all’affetto incondizionato dei fan sparsi in tutto il mondo.

Appurato che la prima parte di questa stagione è stata decisamente inferiore alle attese, se non addirittura il peggior ciclo di episodi da un po’ di tempo a questa parte in quanto a continuità narrativa e sviluppo delle idee, è adesso tempo di cambiare aria: Rick ha finalmente trovato la forza e il coraggio di far partire una rivolta contro i Saviors che mira ad aggregare tutti i gruppi oppressi in un fronte comune. La scelta, seppur maturata fin troppo velocemente e in maniera poco convincente nello scorso episodio, non può che far tirare un sospiro di sollievo agli spettatori, decisamente tediati dal pantano in cui si stava dimenando lo show, tanto grave che anche i fan più appassionati stanno cominciando ad avere dei dubbi – come dimostra il leggero calo di ascolti di questa settima annata.

Siamo quindi di fronte ad una svolta? The Walking Dead ha davvero ancora qualcosa di interessante da raccontare? In tal senso “Rock In The Road” ci dà segnali contraddittori.

L’episodio comincia dove era terminato il precedente: Rick e compagni alla ricerca di un’alleanza con Hilltop, la comunità pacifica in cui si sono rifugiate da un po’ di tempo Maggie e Sasha. Il tentativo di unirsi contro Negan viene prevedibilmente frenato dalla paura e dalla prudenza di Gregory, un personaggio che abbiamo imparato a conoscere già in passato ma al quale non è mai stato dedicato sufficiente spazio per provare a dargli un minimo di background caratteriale, relegandolo ancora una volta in un ruolo piatto e privo di spunti. Ben più interessante il primo approccio dei protagonisti con King Ezekiel e il suo Kingdom: l’incontro è utile soprattutto per far entrare prepotentemente il personaggio di Khary Payton nelle vicende principali della serie, un’assenza quasi inspiegabile – e imperdonabile – degli scorsi episodi. Non è certo il rifiuto del sovrano alla richiesta di aiuto immediata di Rick a sorprendere – quando si tratta di prendere tempo e dilungarsi The Walking Dead è un maestro – ma la tacita promessa di un’alleanza futura, che potrebbe svilupparsi e rendere al meglio nei prossimi episodi in quella che sarà la grande rappresaglia verso Negan e compagni.

La serie AMC, che ha sempre vissuto di attese, deve ora affrontare la sfida più grande di questa settima tormentata stagione: riuscire a costruire in questo tempo che ci separa dalla grande guerra un sostrato narrativo adatto che traghetti al meglio lo spettatore e che non faccia sì che egli si penta della fiducia che continua a riporre nella serie. Sì, perché negli ultimi tempi guardare The Walking Dead è una questione di cieca fiducia; gli episodi filler a cui la serie ci ha abituato, quelli impossibili da digerire senza skippare violentemente gli interminabili dialoghi e i momenti morti di cui sono pieni, si sopportano solo in attesa di un glorioso finale, un evento che, anche solo per pochi minuti, possa dare un senso alle ore perse per raggiungerlo. Ovviamente non sempre va a finire così, e le delusioni in tal senso sono sempre dietro l’angolo; per esemplificare questo ragionamento, però, basta pensare alla scorsa stagione, costruita solo in funzione del suo doloroso quanto efficace finale.

Come inquadrare questa midseason premiere, quindi? Le possibilità che si prospettano sono principalmente due: una risalita qualitativa degli episodi con una narrazione coerente che giunge al naturale esplodere della guerra contro i Saviors, oppure l’ennesima serie di eventi sconnessi tra loro, che mira ad allungare il brodo fino al gran finale, che giungerà privo di pathos e troverà degli spettatori sfiniti. Non ci è dato propendere per una o per l’altra opzione al momento, ma la seconda parte dell’episodio fornisce alcuni spunti positivi a riguardo.

Nel ritorno ad Alexandria il gruppo di sopravvissuti trova un posto di blocco armato di esplosivi, per un’enorme orda di non-morti, piazzato dai Saviors per mantenerli sull’autostrada. Il piano di Rick è semplice: raccogliere quanto più possono e fuggire senza farsi notare; inutile dire che non va a finire come il leader si aspettava. Soprassedendo alle ormai consuete numerose forzature, che sono la routine per la serie, ci si accorge di come lo show stia finalmente provando ad abbandonare i continui tentativi di prendersi fin troppo sul serio: la scena dell’enorme falciatrice improvvisata – un cavo metallico teso tra due auto – è tanto assurda quanto divertente e ben costruita; è un’illogica e poco credibile risoluzione di un problema che, tuttavia, lascia incredibilmente soddisfatti dopo la visione. Questo dovrebbe essere The Walking Dead: un prodotto che non cerchi imperterrito di sforare nel puro drama – fallendo sempre miseramente, tra l’altro – ma che riesca ad alleggerire la tensione che accumula attraverso l’eccesso e l’inaspettato, se non addirittura l’ironia e la parodia del suo stesso genere.

A fare da contraltare a questa mossa che sorprende in positivo, tuttavia, persistono ancora storyline poco convincenti come quella di Carol. La donna, che appare solo fugacemente in “Rock In The Road”, sottolinea la sua volontà di isolamento nei confronti del mondo, rifiutando apertamente i tentativi di avvicinamento di Ezekiel e del suo consigliere, Benjamin. Sorvolando sulla scarsa profondità e e la poca consistenza che hanno le motivazioni di questo allontanamento, lasciar fuori dai giochi un personaggio importante e meno banale di molti altri come Carol è una scelta che fa discutere, soprattutto se non si abbozza neanche un percorso caratteriale o una linea narrativa che giustifichi questa esclusione.

In definitiva “Rock In The Road” si configura come l’episodio più carico di speranze per lo show da molto tempo a questa parte. Speranza intesa non solo dal punto di vista dei protagonisti, alla ricerca di una luce che illumini le tenebre che i Saviors hanno portato nelle loro vite, ma anche da quello della riuscita del prodotto, che dovrebbe portare gli autori a sfruttare questo buon trampolino che si sono creati per costruire una trama interessante nei prossimi episodi, imparando a non ripetere gli errori del recente passato.

Guardare The Walking Dead è quindi, ancora una volta, un vero e proprio atto di fede.

Voto: 6,5
The Walking Dead – 7×16 The First Day Of The Rest Of Your Life
Non c’è niente di più difficile di essere degli appassionati di The Walking Dead, la serie più paradossale dell’età televisiva contemporanea: tanto di successo quanto altalenante qualitativamente e, ormai da anni, avviata verso un format sempre più prevedibile e prestabilito che consolida il legame con il fandom ma priva la serie della sua personalità.

Ormai è nota a tutti la ripetitiva sovrastruttura narrativa che, negli ultimi anni, determina la costruzione stagionale dello show di Scott M.Gimple – premiere e finali importanti, episodi centrali lenti e inutili – e questa settima annata non ha fatto eccezione. Se con “Rock In The Road” si è voluto concedere ancora una volta il beneficio del dubbio nei confronti di un prodotto che, ricordando le esperienze degli anni passati, probabilmente non se lo meritava, questa speranza si può ora considerare mal riposta.

Ripercorrendo velocemente le tappe che hanno portato The Walking Dead dalla pausa di midseason al suo settimo season finale è da notare come la maggior parte degli episodi non siano stati che dei riempitivi, assolutamente mancanti di significative ripercussioni sulla trama orizzontale, la quale si è appiattita e allungata inspiegabilmente, risultando ancora più lenta che nelle annate precedenti. È il caso, per esempio, di “Say Yes”, ma anche in parte di “Bury Me Here”, sezioni del racconto che potevano essere benissimo condensate in meno episodi per la funzione che svolgono, visto e considerato il loro debolissimo apporto alla caratterizzazione dei personaggi, che tra l’altro è da sempre uno dei peggiori difetti della serie.

Lo show si è trascinato a fatica fino a “The First Day Of Your Life”, continuando ad annunciare una clamorosa guerra, la preparazione della grande rappresaglia contro i Saviors, forse l’unico stimolo rimasto per continuare a guardarlo. Per quanto lenta e mal scritta, la sezione centrale della stagione ha portato i personaggi nella posizione adatta a sviluppare gli eventi di questo finale, con il convincente tradimento di Eugene – che si conferma perlomeno come il personaggio meno contraddittorio, anche se sempre poco interessante – e l’acquisizione dell’arsenale di Oceanside, necessario a convincere gli Scavengers ad unirsi alla ribellione. Soprassediamo sull’inutile crollo morale di Morgan – praticamente dimenticato e superato in cinque minuti nel finale – e sul piano suicida e senza senso di Sasha che è strettamente funzionale al suo ruolo negli episodi successivi.

È proprio il destino di Sasha nel finale ad esplicitare il grande paradosso ci cui si parlava nella prima parte della recensione: la morte del personaggio di Sonequa Martin-Green è stata ampiamente prevista a causa del suo nuovo ruolo in Star Trek: Discovery – serie di CBS in lavorazione – e in questo modo privata della già di per sé poca potenza che questa poteva avere nell’episodio; in questo caso, tuttavia, si può in parte perdonare lo show che riesce a intavolare un buon colpo di scena – sceglie infatti volontariamente di morire e trasformarsi per cogliere di sorpresa Negan – rendendo al meglio il suo sacrificio. Nonostante Sasha sia sempre stato uno dei personaggi meno riusciti della serie, il lavoro, sempre comunque fin troppo didascalico, che si fa in questo finale sul suo passato con Abraham e il continuo richiamo al dolore della perdita è meno fastidioso di quanto ci si potesse aspettare, anche grazie ad un minimo di innovazione registica rispetto ai canoni della serie.

Questo improvviso risveglio dietro la macchina da presa nei confronti della storyline di Sasha – alla regia dell’episodio c’è Greg Nicotero, che non nasce come regista ma può vantare una lunga esperienza al fianco di nomi molto noti – non è percepibile nei confronti dell’altra grande sequenza importante di questo finale: la battaglia di Alexandria. La sparatoria finale tradisce le attese e risulta a tratti ridicola nel suo tentativo di sembrare epica: sia per realizzazione che per scelte narrative, è un segmento che non incide e non convince se non a tratti – lo scompiglio provocato da Shiva ad esempio. I personaggi principali sono, come sempre, intoccabili e a prova di proiettile, mentre le comparse muoiono senza essere piante a sufficienza, ma quello che disturba maggiormente è il voice-over di Rick e Maggie che chiude l’episodio: impregnato di un buonismo raccapricciante tenta di trasportare la lotta dei protagonisti sul piano dello scontro eterno tra bene e male, eliminando ogni possibile sfumatura del caso e banalizzando il tutto.

A questo punto il ragionamento porta necessariamente ad analizzare il ruolo di Negan in questa stagione. Il villain interpretato da Jeffrey Dean Morgan, apparso per la prima volta nel potentissimo finale dello scorso anno, ha beneficiato di un’esaltazione prematura nei suoi confronti, merito di un carattere sin da subito sopra le righe e decisamente originale in partenza. Il problema del personaggio non sta nella sua ideazione ma, come sempre, nella scrittura e nella narrazione che lo accompagna: a conti fatti, dopo un’intera stagione, non sappiamo pressoché nulla di lui, del suo passato o delle motivazioni che lo spingono a governare dispoticamente il mondo post-apocalisse zombie. Se si volesse fare un paragone interno alla serie, gli si potrebbe affiancare idealmente la figura del Governatore, altro storico villain di The Walking Dead; quest’ultimo, a differenza di Negan, ha goduto di un sostrato narrativo adeguato e ben costruito, anche attraverso la formazione di una moralità ambigua e umanamente difficile da decifrare. Ci si chiede se non si potesse fare lo sforzo di analizzare meglio la figura dell’uomo con la mazza, visto e considerato il tempo eccessivo nel quale ci si è concentrato su personaggi di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.

Cosa dire ancora di The Walking Dead che non sia già stato detto? Ormai sembra quasi inutile continuare sperare in una stagione avvincente, o perlomeno godibile, nonostante i numerosi difetti divenuti parte integrante dell’identità del prodotto. Questo finale, sopra la media stagionale in quanto a qualità ma pur sempre ancora sotto la sufficienza, ha quantomeno l’obiettivo di traghettare chi ancora ha la forza di seguire lo show verso la fantomatica guerra definitiva di cui si continua a parlare da almeno una stagione intera. L’unica speranza è che la già confermata ottava stagione proponga più ritmo, più intrattenimento e meno episodi filler, ma che soprattutto maturi dal punto di vista tecnico, una pecca che non si può accettare da una serie con un budget così alto.

Voto episodio: 5/6
Voto stagione: 4½
The Walking Dead – 8×01 Mercy
Per l’ottavo anno consecutivo ritorna The Walking Dead, sempre sulla cresta dell’onda negli States nonostante una sceneggiatura che ormai da qualche anno stenta a mantenere i livelli delle primissime puntate. È un ritorno frenetico, che mette subito in scena azione e introspezione.

But those who use and take and kill to carve out the world and make it theirs alone – we end them!

Il protagonista indiscusso di questo primo episodio è – guardacaso – Rick Grimes: alla testa di ormai tre gruppi di sopravvissuti, dà definitivamente il via per la guerra contro i Salvatori. Si comincia quindi già nel cuore dell’azione: TWD a volte ci ha abituato a degli inizi turbolenti, con qualche colpo di scena che lanciava bene il resto della stagione (al contrario dell’inizio, spesso debole e raffazzonato fino ai cliffhanger di mid e final season), ma in questo caso lo start di queste ulteriori sedici puntate è nel cuore degli avvenimenti.

Dopo il solito discorso da capo illuminato, che ormai lo fa apparire quasi più ridicolo che un leader rispettabile, si parte subito all’attacco: le sequenze della sparatoria e della messa in pratica del piano sono ormai le stesse che vediamo da anni. Uno dei punti deboli di questa serie ormai logora è proprio questo: in un contesto ormai ampiamente ristretto dal numero di storie raccontate, è quasi impossibile non ripetere gli stessi schemi che hanno contraddistinto per anni la serie. Come volevasi dimostrare, il piano è praticamente perfetto e pensato in ogni minimo dettaglio, salvo che non riesce mai a centrare l’obiettivo primario, in questo caso uccidere Negan e porre fine ai Salvatori. Il problema è che si sa già dall’inizio: l’unico vero e proprio stravolgimento – al netto di qualche “normale” colpo di scena – lo troviamo nello spettacolare avvio della scorsa stagione, in quella che è, grazie a quella scelta, probabilmente la puntata più riuscita di tutta la serie.

– If he isn’t one of them, I hope it makes it.
– It’s not gonna be enough, dad.
– Enough what?
– Hope.


L’episodio gioca anche sul montaggio e sull’alternanza di scene non ordinate cronologicamente: all’”adesso” si alternano due probabili flashforward. Il primo vede Rick in una situazione di potenziale pericolo, dove ha gli occhi arrossati e sembra essere stato sconfitto; il secondo ha un carattere più onirico, e vediamo un Rick invecchiato di molto al cospetto di altri protagonisti che sembrano invecchiati invece di pochi anni. Non discutiamo la scelta né l’effettiva riuscita di essa: sicuramente l’attenzione si alza e la curiosità si accende. Il problema anche qui è che non è niente di nuovo per TWD vedere delle situazioni future legate a doppio filo al presente, dove spesso ai protagonisti che sembrano in pericolo o in situazioni fuori dall’ordinario non succede mai nulla.

Il pericolo di vedere tutta un’altra stagione per poi far esplodere queste situazioni potenzialmente molto interessanti in un nulla di fatto è alta, e purtroppo la fiducia verso la serie si è di molto affievolita. Lascia una speranza di vedere qualcosa di diverso e di sconvolgente la natura ambigua del flashforward con Rick anziano: è una situazione che sembra non avere senso, visto che per lui sembra passato molto più tempo che per gli altri; in più, il trattamento fotografico è molto importante, discostandosi in maniera netta dall’altra sequenza, quella che sembrerebbe molto più triste e drammatica: un sogno o addirittura l’aldilà?

My mercy prevails over my wrath.

La parte più introspettiva dell’episodio invece sembra funzionare leggermente meglio, non fosse altro per l’utilizzo di Padre Gabriel: è sempre un personaggio totalmente insulso e odioso, ma per come va a finire l’episodio potrebbe trovarsi in una situazione molto interessante. È la pietà, la misericordia il punto cruciale di questa puntata, del suo senso e di come convenga o non convenga usarla. I nostri hanno forse capito che non ha senso utilizzare la pietà verso persone come i Salvatori: il concetto cristiano o religioso in senso generale è ormai ampiamente superato. Ed è quello che dovrebbe succedere, con un attacco massiccio e senza ripensamenti: ma qui due dei “nostri” sbagliano clamorosamente. Il primo è Rick, dando la possibilità di arrendersi ai tenenti di Negan: collegando questo sbaglio tattico (siamo in guerra, conviene ricordarlo) alla scena di un Rick nel futuro che sembra all’ultima spiaggia, ci viene da pensare che forse quella decisione da persona di buon cuore gli si possa essere ritorta contro. E poi c’è Padre Gabriel, che si infila in una situazione senza via d’uscita per portare in salvo uno dei personaggi più fastidiosi dell’intera serie, Gregory: altro errore fondamentale legato alla pietà, che porta chi la sceglie in una situazione potenzialmente mortale. La pietà non fa più parte di questo mondo, ma ancora c’è chi non cede al ricatto di un destino crudele e tenta in tutti i modi di rimanere umano in senso lato: “Non ho fatto vincere la rabbia”, si ripete Rick, sorta di consolazione per quello che gli sta per succedere.

In sostanza, “Mercy” è comunque una buona puntata, se rapportata al modo ormai stantio di raccontare di The Walking Dead: c’è azione e c’è introspezione, quantomeno ben bilanciate. La speranza, come dicevamo, di vedere una buona annata risiede tutta nella natura ambigua di quei due flashforward. Solo col tempo sapremo se è valsa la pena seguire ancora tutta la stagione in attesa di qualcosa di innovativo, oppure no, come purtroppo è accaduto spesso.

Voto: 6½
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