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Succession – Stagione 2
In un panorama variegato come quello odierno dove i colossi dello streaming, i network e le reti via cavo rilasciano contenuti in continuazione, è facile che alcune di queste serie finiscano nell’ombra, con prodotti molto validi che fanno fatica a emergere in un mercato estremamente competitivo. Uno degli esempi più lampanti è Succession, serie HBO che, dopo un’ottima prima stagione di cui si è parlato poco, sta finalmente uscendo allo scoperto, con critici e pubblico in estasi.

Succession nasce dalla mente di Jesse Armstrong, sceneggiatore britannico che ha collaborato a serie del calibro di Black Mirror e Veep, e segue la storia dei Roy, una ricca famiglia che controlla il conglomerato mediatico Waystar Royco che ha molti punti in comune con i reali Murdoch (proprietari tra le altre cose di Fox News). A capo dell’impero c’è Logan Roy, interpretato da un grandissimo Brian Cox, immigrato scozzese che ha costruito da solo questo colosso e che ora, alle porte del pensionamento, si trova a dover trovare l’erede al “trono”. Peccato che, in verità, non abbia nessuna voglia di lasciare in mano alla prole quella che in definitiva è la creatura a cui è più affezionato, dando così spazio a una serie di dinamiche in cui cerca di boicottare e manipolare gli eredi. Giochi di potere che a molti ricorderanno Game of Thrones, e questi Roy sono un po’ dei Lannister trapiantati nella New York del ventunesimo secolo.

I figli di Logan, Kendall (Jeremy Strong), Roman (Kieran Culkin), Shiv (Sarah Snook), Connor (Alan Ruck), quello più anziano e avuto dalla prima moglie, hanno sempre vissuto nell’ombra del padre, cercando in tutti i modi di compiacerlo e farsi strada per uscire come favoriti per la corsa al trono. Questo, però, li ha inevitabilmente portati ad arrivare in età adulta con un complesso di inferiorità rispetto alla figura paterna e seri problemi che spesso sfociano in comportamenti infantili. Kendall è il candidato numero uno, ma è anche quello che più di tutti subisce i giochi del padre. Tra i quattro, Shiv è l’unica ad essersi costruita una vita lontano dalla famiglia – lavora in politica – e infatti è la più normale, ma non per questo immune a Logan. Roman può inizialmente apparire come elemento di comic relief – alcune delle frasi migliori della serie sono opera sua -, ma gli autori non sono mai banali nella caratterizzazione del personaggio, e andando avanti dimostra di essere molto di più, emergendo in varie occasioni come un ottimo uomo d’affari.

Logan seduce e poi antagonizza, facendo ricadere i dubbi su chi gli sta di fronte, una tattica che gli permette di mantenere sempre il controllo. È una dinamica rivoltante, tipica di una figura che, negli ultimi anni, ci siamo abituati a vedere emergere fin troppo spesso nel mondo. Nonostante i chiari tratti disturbanti, riesce comunque a restare a galla e circondarsi di seguaci e veneratori disposti a fare qualsiasi cosa per compiacerlo ed entrare nelle sue grazie. Ovviamente non si ferma ai figli, e prosegue il suo percorso di antagonismo anche nei confronti del fratello, Ewan Roy (James Cromwell), unico personaggio immune al suo ego, una sorta di eremita recluso nel verde del Canada, che ne è l’esatto opposto: silenzioso, distaccato dagli affari di famiglia, ecologista, ma con un profondo odio per Logan che vede come reincarnazione di tutto quello che sta andando male nel mondo.

Il grande cast di membri della famiglia Roy è circondato da una serie di personaggi fantastici, tra cui il cugino Greg, nipote di Ewan interpretato da Nicholas Braun e uno dei co-protagonisti più interessanti che instaura un rapporto esilarante con Tom (Matthew Macfayden), il marito di Shiv. A loro si aggiungono i vari Gerri (J. Smith-Cameron), Marcia (Hiam Abbass), e Frank (Peter Friedman), che popolano il mondo dei Roy e che, nonostante non abbiano la stessa influenza di Logan, sono dei tasselli importantissimi nei complessi giochi di potere che ruotano attorno alla Waystar Royco. Tutto questo non sarebbe ovviamente possibile senza una grande scrittura, e la writers’ room guidata dal creatore Jesse Armstrong è riuscita nei due anni di messa in onda a toccare picchi narrativi altissimi, con un racconto mai convenzionale e sempre imprevedibile. Proprio lo showrunner ha vinto un meritatissimo Emmy per la migliore sceneggiatura con l’episodio finale della prima stagione “Nobodoy is Ever Missing”, superando la concorrenza dei favoriti Game of Thrones e Better Call Saul

Tra gli elementi più importanti di Succession spicca la musica, composta dal grande Nicholas Britell (Moonlight, Vice), le cui note danno la sensazione di assistere a giochi di potere di un’altra epoca, quando il destino del mondo si decideva a corte. Ora le cose sono cambiate e i potenti se ne stanno ai piani alti dei grattacieli di New York, ma le motivazioni, le dinamiche, e i capricci sono le stesse di re e regine del passato. La colonna sonora di Nicholas Britell è stata premiata agli ultimi Emmy per il migliore tema musicale.

Parlare oggi di ricchi miliardari sembra quasi in controtendenza rispetto alle tematiche di interesse globale, ma Succession riesce comunque a farsi strada e ad emergere come uno dei prodotti più interessanti degli ultimi anni, grazie a un racconto molto personale che è in definitiva la tragedia di una famiglia in cui i figli cercano in tutti i modi di farsi amare da un padre che proverà sempre rancore nei loro confronti per non aver sofferto e lottato quanto lui per ottenere quello che volevano. C’è molta tragedia greca in Succession, ma allo stesso tempo è una serie che diverte (i figli di Roy non citano Shakespeare o Machiavelli ma Star Wars) e intrattiene, diventando una satira fortissima di quello che avviene nei salotti dell’uno percento. L’episodio pilota è stato diretto da Adam McKay, premio Oscar per la sceneggiatura di The Big Short, e il suo stile registico ma anche narrativo trovano terra fertile nella serie di Jesse Armstrong. Proprio The Big Short e Vice – altro film di McKay – sono gli esempi più simili al tono di Succession.

Con la seconda stagione, Succession ha finalmente – e giustamente – iniziato a entrare prepotentemente nelle discussioni di critici e spettatori come serie assolutamente da non perdere, un prodotto di altissima qualità che spicca in un’epoca televisiva mai così ricca. HBO ha già annunciato il rinnovo per una terza stagione, che si prospetta come uno degli eventi più attesi del 2020, mentre in Italia possiamo recuperare le vicende della famiglia Roy su Sky, dove è da poco partita la messa in onda della seconda stagione. Se vi mancano le dinamiche di Game of Thrones o, più semplicemente, cercate un grande racconto familiare con scrittura impeccabile e grandi attori, Succession è la serie giusta.
Succession – Stagione 3
In un panorama televisivo come quello odierno, dove il numero di contenuti aumenta di mese in mese, è sempre più difficile restare rilevanti al suo interno. Che sia con la forma più “arcaica” del rilascio settimanale o dell’arrivo di un’intera stagione sulle piattaforme di streaming, il discorso attorno a una serie, anche nei casi di maggiore successo, spesso si spegne nel giro di pochi giorni. Si tratta di una dinamica, però, che non sembra minimamente interessare Succession, diventata ormai la serie di punta di HBO, coccolata – giustamente – dai critici e amatissima dal pubblico.

Podcast, recensioni e approfondimenti hanno accompagnato i due mesi di programmazione della terza stagione con grande entusiasmo, in un’annata per la serie creata da Jesse Armstrong che ha confermato la sua grandezza e ha tolto ogni dubbio a chi temeva arrivasse un primo passo falso. Che ci fossero gli elementi per un altro splendido capitolo della saga familiare dei Roy era già chiaro dall’ottimo episodio che ha aperto le danze, “Secession”, ma di settimana in settimana Succession ha infilato una striscia di puntate meravigliose, non facendo mai nulla di scontato e mantenendo il difficile equilibrio tra commedia pura e dinamiche da dramma shakespeariano.

Andando più nello specifico, è logico iniziare parlando di Kendall, colui che, dopo la conferenza stampa che aveva chiuso la scorsa stagione, sembrava essere davvero a un passo dal mettere in ginocchio il padre. Dopo l’euforia della premiere in cui Logan, forse per la prima volta, è apparso davvero in difficoltà, le cose hanno lentamente – e, soprattutto, dolorosamente – iniziato a ritorcersi contro Kendall, a riprova del fatto che il leader di questa famiglia e questo impero mediatico, per quanto disprezzato da tutti, continua ad esercitare un potere e un’influenza che lo rendono praticamente inattaccabile. Sicuramente le carte che Kendall aveva in mano, a lungo andare, non sarebbero state sufficienti per portare a compimento il suo grande progetto ma, nonostante abbia dimostrato alcune competenze nel corso degli anni, è evidente – e questo vale anche per gli altri fratelli – che non abbia davvero le capacità per prendere le redini della Waystar Royco.

Bisogna anche prendere in considerazione l’enorme quantità di abusi emotivi che ha subito nel crescere con un padre come Logan, e gli effetti di questa tossica relazione padre/figlio sono ancora più evidente nella terza stagione. Kendall, per quanto patetico e odioso nel cercare di cavalcare l’onda del #MeToo per emergere come paladino della giustizia e istigare l’opinione pubblica contro il padre – fallendo miseramente –, dà un enorme senso di tristezza in quei rari casi in cui lo vediamo investito dal senso di impotenza e solitudine che lo affliggono quando si rende conto di non avere nessuna chance, come nella scena in cui cerca il regalo dei figli durante “Too Much Birthday”.

Non è un caso che in molti, al termine di “Chiantishire”, dopo averlo visto a mollo in piscina in un’inquadratura che ricorda molto quella iconica del cadavere in acqua di Sunset Boulevard, abbiano pensato che Kendall si fosse tolto la vita. Da un certo punto di vista, per il suo personaggio, in quel momento avviene una sorta di morte, in quanto, dopo la cena della sera prima con Logan, Kendall si rende conto che la sua vita sarà sempre all’ombra della figura paterna, una prigione emotiva senza via di scampo.

Non se la sono passata tanto meglio gli altri potenziali eredi al trono della Waystar Royco. Shiv, indipendentemente dalla qualità delle sue azioni, non sembra riuscire a entrare mai veramente nelle grazie del padre. Allo stesso tempo, come Kendall, anche quando cerca di allontanarsi, viene risucchiata immediatamente, forse incapace di dire davvero addio ai Roy. L’esempio più lampante è il finale del sesto episodio “What it Takes”, in cui Shiv inizialmente sembra rifiutarsi di prendere parte alla foto che la vedrebbe ritratta con il futuro candidato repubblicano filo-fascista Jeryd Mencken, prendendo apparentemente una forte posizione etica e morale contro la politica familiare, ma quando il padre le chiede se faccia parte di questa famiglia, improvvisamente torna a essere succube di Logan. Il “You win, Pinkie” è quanto di più paternalista ci possa essere, una finta ammissione di sconfitta che evidenzia ancora più quanto Shiv e gli altri fratelli siano trattati ancora come dei bambini.

Per Roman, invece, sembrava davvero essere l’anno buono, almeno finché non ha mandato una dick pic al padre nel cuore di Milano, in uno dei momenti più esilaranti della serie, rivelando la sua natura a una padre che in più di trent’anni non si è mai accorto – o interessato – di chi fossero davvero i suoi figli. Nonostante la preziosissima guida di Gerri, non è riuscito a capitalizzare le numerose opportunità createsi anche grazie al suo intuito e alla sua bravura, finendo col sabotarsi come hanno sempre fatto Kendall e Shiv. Per un breve periodo è davvero sembrato che potesse essere lui il “prescelto”, ma forse sarebbe bastato guardare a Connor dall’inizio per capire che, alla fine, Logan non aveva nessuna intenzione di cedere il suo trono a loro. Il fratello più grande, in una logica puramente monarchica, avrebbe per anzianità il diritto di ottenere la carica (“I’m the eldest son!”), ma in realtà non è mai stato minimamente considerato.

Logan naviga abilmente il rapporto con i figli, dando loro prima un piccolo assaggio di affetto per poi condirlo con litri di odio. In loro vede dei bambini viziati e privilegiati che non hanno mai fatto nulla per meritarsi la ricchezza in cui navigano, e da questo punto di vista la scelta di accettare la proposta di Matsson sembra quasi indicare che in lui abbia trovato una mente affine e, soprattutto, un “ragazzo” che ha costruito il suo impero con le sue mani, esattamente qualcosa che Kendall e gli altri non hanno mai fatto. Logan rappresenta alla perfezione l’1% dell’1%, quel gruppo di ricchi e potenti che controllano il mondo, in maniera estremamente discutibile, con metodi dettati più dall’orgoglio che dalla logica; nonostante dei passi falsi o delle reali accuse che potrebbero metterli in ginocchio, alla fine per loro le cose non cambiano mai, e tutti quelli che ruotano attorno a loro ne sono inevitabilmente vittime.

Succession è una serie cinica su un gruppo di persone profondamente odiose: non appena ci affezioniamo a uno dei protagonisti, gli autori ci ricordano quanto viscidi e spregevoli siano davvero. Eppure, in tutto questo, c’è spazio per una delle scene più toccanti della serie, cioè il momento in cui Kendall, seduto sul terreno polveroso della toscana, confessa a Shiv e Roman quello che ha fatto alla fine della prima stagione e di come la morte di quel ragazzo lo abbia intrappolato emotivamente per tutto questo tempo. La grandezza dello show sta anche nella reazione quasi imbarazzata di Shiv e Roman che non hanno assolutamente idea di come reagire in maniera umana di fronte al fratello che si dimostra così vulnerabile per la prima volta. Roman, per esempio, attua l’unica tattica a sua disposizione, ovvero metterla sul ridere. Quello che però nasce da questo momento è qualcosa che per lungo tempo i fan della serie hanno atteso: i tre fratelli uniti contro il padre. Sembra l’inizio di uno scontro finale epico, di una battaglia generazionale in cui i più giovani, che per così tanto tempo hanno subito la malvagità del perfido Logan Roy, hanno finalmente trovato la forza di compiere il tanto desiderato colpo di stato.

Eppure, come ormai sappiamo da diverse puntate, Succession non fa mai nulla di prevedibile, e, per quanto esaltante sia vedere Kendall, Shiv, e Roman uniti, il loro colpo di genio arriva inevitabilmente troppo tardi. Logan è sempre un passo avanti, e, in una scena in cui come mai prima d’ora i tre figli appaiono come dei veri e propri bambini alla mercé di un padre imbestialito per l’ennesimo capriccio, avviene qualcosa che apre le porte a una quarta stagione dall’enorme potenziale, in cui tutte le carte in tavola vengono completamente scombussolate e fare ogni tipo di previsione diventa impossibile. Kendall e gli altri sono finalmente liberi di fare quello che vogliono, ma questa possibilità arriva come una condanna, anche grazie all’operato di Caroline, candidata numero uno per il premio “peggior madre dell’anno”. I tre fratelli sono fuori da giochi, in castigo, puniti severamente dai loro genitori, e ora sarà interessante vedere come reagiranno di fronte a questa possibilità.

Oltre a Logan, chi esce a testa alta da questa stagione è l’inseparabile duo Tom-Greg. Il primo, coinvolto in uno dei matrimoni più tristi mai visti sul piccolo schermo, benché spesso preso di mira dai fratelli Roy (in primis da Shiv), a testa bassa è riuscito a entrare nelle grazie di Logan, e dopo mesi passati su blog carcerari e a provare il cibo nei diner, Tom diventa protagonista di uno dei tradimenti più taglienti di Succession, in una scena che gli è valsa l’appellativo di “Tomfather” – complice anche la scelta registica di inquadrarlo dalla porta proprio come nei momenti conclusivi del primo film de Il Padrino – e che chiude in maniera perfetta la stagione. Greg, invece, tra una rivalità con Greenpeace e l’essere a un solo disastro aereo dal diventare il re di Lussemburgo, si è sempre più avvicinato allo stile e alla cinismo che contraddistinguono gli altri, passando dall’essere quel ragazzo che si fumava uno spinello in macchina nel pilot, a qualcuno che, in quanto vice di Tom, è ora in una posizione di potere superiore a quella dei fratelli Roy.

La terza stagione di Succession conferma come al momento non ci sia una serie in grado di rivaleggiare con questo capolavoro HBO: dalla regia all’incredibile cast (Jeremy Strong ha ipotecato un altro Emmy), fino alla brillante e impeccabile scrittura degli autori, ogni tassello si inserisce alla perfezione in questo mosaico produttivo. Nell’attesa che arrivi la già confermata quarta stagione – sperando che passino meno di due mani – non ci resta che gioire di fronte alla possibilità di avere una serie così unica a farci compagnia.
 
Voto: 10
Succession – Stagione 4
Nella storia della serialità degli ultimi vent’anni ci sono stati show che hanno fatto dire più volte al pubblico frasi come “dopo questa serie niente sarà più come prima” e altre esagerazioni dettate dal sentimento del momento. Essere troppo vicini – di più, contemporanei – alla materia trattata rende troppo emotivamente coinvolti per essere obiettivi, e solo il tempo può mettere le cose in prospettiva. Tuttavia, è innegabile come alcune serie si presentino generando una fascinazione che va oltre il momento stesso, per cui si percepisce un’insolita dualità: da una parte si vede infatti lo show come emblema dello zeitgeist, prodotto rappresentativo dello stato dell’arte di un determinato genere in quel periodo, e dall’altra ne si coglie una sorta di vibrazione anticipata, di riverbero del suo successo che sembra tornare indietro dal futuro. Bando ai catastrofismi, dunque, la serialità rimarrà viva anche dopo questo show, ma, se proprio dobbiamo sbilanciarci, facciamolo: Succession è una delle cose migliori che ci siano capitate in questo decennio, e ci sono buone probabilità che lo diremo anche fra dieci anni.

Sin dall’inizio, grazie alle storie della famiglia Roy e della Waystar Royco, l’intento della serie HBO creata da Jesse Armstrong è stato quello di mostrarci una guerra di successione all’interno di un impero mediatico: infatti lo show inizia proprio con un malore del patriarca Logan Roy, che incrina per la prima volta la solidità del CEO dell’azienda e dà il via a tutti i giochi di potere che abbiamo visto per tre annate. Ed è proprio quando finalmente ci ritroviamo con Kendall, Shiv e Roman dallo stesso lato della barricata, uniti contro il padre all’inizio di questa quarta stagione, che le carte vengono mescolate di nuovo: Logan muore (inaspettatamente ma con un’intuizione geniale) già al terzo episodio, e questo evento fa tremare la terra sotto ai piedi dei fratelli Roy non solo perché ognuno di loro si ritrova ad affrontarne il lutto, ma anche perché quell’alleanza, già fragile, viene spezzata nuovamente.

Dalla morte del padre-padrone – il cui lutto è una cosa dannatamente seria, perché se non è facile affrontare la perdita di un padre amato, è quasi impossibile uscire indenni da quella di un genitore così, larger than life e generatore automatico di traumi –, i tre figli si ritrovano a dover gestire un’eredità ambita ma senza sapere come orientarsi. O peggio: se prima erano senza bussola, lanciati l’uno contro l’altro ma con obiettivi comuni (conquistare il potere e la stima del padre), ora si ritrovano con una bussola impazzita, che, ancor più di prima, li porta ad allearsi uno con l’altro e a tradirsi dopo pochi secondi, o a pensare subito a piani alternativi. È lo stesso gioco che abbiamo visto sin dall’inizio ma portato all’ennesima potenza, eppure nemmeno così perde di realismo: in qualunque altra serie questo continuo cambio di alleanze avrebbe fatto storcere il naso, ma qui il lavoro riesce incredibilmente bene, e per un motivo preciso.
La chiave del successo della serie di Armstrong si trova proprio nel suo delicato equilibrio tra tragedia e commedia, tra motivazioni reali e tremendamente umane da una parte e ridicoli comportamenti da classe iperprivilegiata dall’altra; sarebbe stato tutto davvero poco credibile se a sorreggere questa impalcatura non ci fossero stati questi due pilastri – tragico per il portato umano e interiore dei personaggi, satirico per quello sociale ed esteriore.

Potremmo insomma dire che quello della “successione al trono” sia stato un escamotage per indagare due macrotemi, quello del mondo esterno (mezzi di comunicazione, business, corruzione, politica) e quello del mondo interno, riassumibile con la definizione “famiglia disfunzionale e condanna sulle generazioni successive”. Può sembrare eccessivo, ma questo richiamo alla tragedia greca, in cui gli errori dei padri ricadono sui figli, è perfettamente in linea col gusto della serie, innanzitutto perché questa è una tragedia, in tutti i sensi, specialmente nel suo essere inevitabile: “Good tragedy should feel inevitable, shouldn’t it?”, come ricorda Mark Mylod, regista del primo, terzo, nono e ultimo episodio della stagione (aggiungendo poi queste parole sul finale: “Le verità essenziali dei personaggi, le conseguenze della loro natura e della loro formazione… tutto ha condotto a questo momento”). Lo è al punto che quando in un episodio assistiamo a un momento di leggerezza tra i fratelli, la nostra pressione comincia a salire, perché sentiamo che sta arrivando velocissimo il treno che li dividerà per l’ennesima volta e che li farà andare di nuovo in mille pezzi.
Inoltre, la condanna che ricade sui figli, un concetto da oracolo di Delfi che pare così lontano dal nostro mondo, diventa più vicino quando lo analizziamo usando un linguaggio a noi comprensibile, quello appunto del trauma familiare. Al vertice c’è il padre-patriarca, amato e odiato al tempo stesso, che gioca psicologicamente con i figli crescendoli a suon di ricatti e di dosatissime mani tese solo per avere qualcosa con cui legarli a sé; un padre che teme i legami tra di loro perché forse – forse – solo insieme sono in grado di sconfiggerlo, ed ecco che allora non perde occasione per allontanare uno dall’altro. Possiamo davvero pensare che le colpe del padre, di questo padre, non ricadano sui figli sotto forma di trauma, di coazione a ripetere, di tentativi di ribellione che vengono abortiti proprio all’apice della loro messa in atto (perché un conto è minacciare di sfidare papà, un altro è farlo davvero)?

We called Wisconsin. Now we’re gonna call Arizona, so we call the election.

Succession non è certo la prima serie a raccontarci le disastrose conseguenze di educazioni troppo folli per pensarle vere, ma ha il pregio di averlo fatto con un approccio diverso seguendo due binari: prima di tutto rendendolo chiaro sin da subito, con quella sigla così iconica che non lascia dubbi sul fatto che il passato dei figli sarà determinante, eliminando il cliché delle “scioccanti rivelazioni” in corso d’opera; poi perché sceglie come protagonisti di questa tragedia dei sentimenti i personaggi che meno al mondo si meriterebbero la nostra compassione. Sono ricchi, ricchissimi, potenti a livelli inimmaginabili per delle persone comuni: è questa l’annata in cui viene eletto un presidente degli Stati Uniti di retaggio nazista, e tutto per avere l’accordo sperato in termini di vendita (o meno) dell’azienda. “Il mio regno per un cavallo!” urlava Riccardo III nell’omonima tragedia shakespeariana, e già era follia allora – figurarsi ora, dove a svendere gli Stati Uniti sono persone che tecnicamente sono cittadini come tutti gli altri.
C’è del tormento in questa scelta? Forse in Kendall, che ogni tanto riscopre di avere un’anima prima di annichilirla con un sorriso da brivido; forse in Shiv, che però – per ammissione della stessa Sarah Snook – si trova per puro caso a sostenere la parte giusta della Storia e che a parti invertite non avrebbe avuto poi così tante remore; di sicuro non per Roman, il cui disinteresse per i comuni mortali è pari solo a quello che ha sentito per anni dal padre nei suoi confronti.

Se detta così questa vicenda sembra correre il rischio di rappresentare una sorta di lamento per cui “anche i ricchi piangono”, Armstrong muove invece i giusti passi per evitare che questo accada, e qui arriviamo alla seconda colonna portante della serie: la componente comedy, che passa dalla potente satira contro il mondo rappresentato dai Roy, a venature dark e persino cringe – un aspetto essenziale tra l’altro per mantenere attiva la sfera critica del pubblico, mai passivo davanti alle vicende ma costantemente strattonato tra questi poli. Continuando a muovere il pendolo delle nostre preferenze, la serie ci porta con coscienza a provare più emozioni allo stesso tempo – con buona pace di chi pensa che davanti a persone di un certo calibro si possa essere assolutisticamente pro o contro.

Sono lontanissimi i tempi dei personaggi buoni con cui schierarsi, e sono lontani ormai quelli dell’antieroe, di cui si riconosceva la cattiva natura ma per cui ci piaceva tifare: Succession ci ha dato personaggi che abbiamo amato odiare e odiato amare, e può sembrare un cliché ma non lo è. Riconoscere che il trauma ci identifica e ci unisce come esseri umani, darci un contesto e delle spiegazioni, non vuol dire giustificare: ecco quindi che possiamo trovarci davanti a una serie in cui non parteggiamo per nessuno, in cui anzi alcuni dei personaggi che osserviamo sono semplicemente orrendi, e ciononostante provare per loro un’umana pietà quando si ritrovano a costruire e decostruire crisi intorno a loro solo perché è l’unico modo in cui hanno imparato a crescere.
Con un approccio simile era impossibile pensare a una conclusione pacifica, e in effetti nessuno vince davvero. C’è Tom (un eccezionale Matthew Macfayden), che ne esce con una corona di cartapesta, e che per lo stesso Armstrong sta lì a rappresentare tutti quelli che si muovono verso l’alto mettendosi a completa disposizione del potere; c’è Greg, ripescato da Tom per ricostituire il più bel duo della storia seriale, ma bollato come nuovo Giuda davanti a tutti; c’è la vecchia guardia pronta a essere silurata, e poi ci sono gli stessi Stati Uniti a uscirne con le ossa rotte – a meno di nuove clamorose rivelazioni dal Wisconsin, di cui però non veniamo messi a conoscenza. Persino Connor si trova sul crinale di due opzioni per lui non favorevoli: se vincerà effettivamente Mencken il suo sarà un matrimonio a distanza – e chissà quanto durerà; se vincerà Jiménez, salterà anche l’accordo che lo riguarda.

I love you, but you are not serious people.

E poi ci sono i kids, come spesso ci si riferisce a loro: le “persone non serie”, così definiti da Logan stesso – e sì, aveva ragione, ma chi è che li aveva portati a quel punto?
Ogni persona adulta dovrebbe arrivare a un momento in cui smettere di colpevolizzare l’educazione ricevuta e cominciare a guardare al lavoro svolto su di sé: ma, per usare una metafora bellica, è davvero possibile guarire da un PTSD mentre si è ancora sotto le bombe? I figli di Logan (tolto Connor che si è in parte salvato proprio per il suo essere esterno alle vicende) sono stati sotto l’influenza paterna e dentro le vicende dell’azienda per tutta la vita – e certo, questo accade anche dopo la morte di Logan, non solo perché diegeticamente passano pochi giorni dalla terza all’ultima puntata, ma anche perché il lutto non si esaurisce in breve tempo.

Il finale è un momento di pura distruzione e nichilismo, in cui sono stati costretti a confrontarsi col loro non essere le persone giuste per quel posto e soprattutto non riuscire a esserlo insieme: “We are bullshit”, “We are nothing”, dice Roman, ma forse è proprio in quel loro non essere adeguati al ruolo che si nasconde – su un lungo termine che non vedremo – la chiave per uscire dal loop tragico in cui si ritrovano. Sembra dirci questo il più giovane dei Roy, che si ritrova nelle ultime scene seduto al bar come quando tutto è iniziato, con un sorriso che non trattiene un certo sollievo.
Forse l’unico modo per guarire da quelle ferite, o per iniziare a farlo, è proprio non essere successori di Logan Roy, non essere costretti a confrontarsi tutti i giorni col fantasma del padre, non dover chiedersi a ogni singolo bivio “Cosa avrebbe fatto papà?” – una domanda che sentiamo più volte in queste puntate, e che di certo non si sarebbe fermata con Kendall come CEO e Roman e Shiv in posizioni di potere dentro l’azienda. Recidere il cordone ombelicale infetto che ancora li collega a Logan sarà per alcuni il più grande ostacolo della vita, per Kendall di sicuro: del resto il padre gli aveva dato le chiavi dell’impero a sette anni, quindi risulta difficile stupirsi del suo attaccamento al ruolo, del suo voler riempire coi piedi quelle scarpe sempre troppo grandi da colmare. Per Roman potrebbe significare libertà: è stato più volte suggerito che lui quel posto non lo volesse davvero e forse è proprio così; che poi in futuro possa o meno fare i conti con l’aver giocato col destino dell’umanità per un buon affare, è un altro discorso.

E poi c’è Shiv, l’autrice dell’autosabotaggio più incredibile e al contempo prevedibile della vicenda. Potremmo interrogarci a lungo sul perché del suo voto, e potremmo anche farci andare bene la “semplice” spiegazione che Kendall su quello scranno diventa un uomo insopportabile, ben lontano dal Re-fratello scelto con un “meal fit for a king” e incoronato con un frullato sulla testa. “I love you, but I can’t fucking stomach you” è una frase potentissima, non solo perché riassume la quasi totalità delle relazioni in questa serie, ma soprattutto perché è vera. Eppure non si può sottovalutare quello che Shiv sta facendo in tutto questo: dare l’azienda a Mattson – l’uomo che più l’ha raggirata dopo il padre e i fratelli –, vedere suo marito pugnalarla alle spalle e prendersi il ruolo che era destinato a lei, e decidere comunque di stargli accanto. La figlia che ha fatto di tutto per convincere suo padre che anche le donne possono stare al potere ed essere degne di fiducia e di rispetto, proprio lei, pur di non vedere suo fratello in quel posto, ha fatto saltare il banco intero, inclusa se stessa; e, come se non bastasse, l’ha fatto per trovarsi esattamente nella posizione che meno desiderava. È impossibile non notare il parallelo: Shiv voleva essere una donna diversa da sua madre, ma finisce col ricalcarne le orme, prendendo il posto di moglie del CEO della Royco, senza uno straccio di potere e con in grembo un erede. Si potrebbe obiettare che sia l’unica ad avere ancora mezzo piede nella porta, ma dopo tutto quello che è successo è difficile immaginarsi un suo ruolo di rilievo nell’azienda.
Possiamo davvero dirci che l’abbia fatto “solo” per non vedere suo fratello come CEO, o forse decenni di soprusi da parte di Logan hanno avuto la meglio e l’hanno fatta inconsciamente schierare con il padre, evitando anche solo il rischio che uno di loro potesse prendere il potere? Può essere solo un caso che la frase sopra citata rivolta a Kendall abbia la stessa struttura (“I love you, but…”) dell’ultima frase che Logan ha rivolto ai figli? Nessuna risposta è davvero quella giusta, ma se c’è un merito – enorme – da riconoscere alla serie è proprio quello di aver lasciato aperte tutte queste possibilità in character e plausibili, in una vicenda in cui nessuno di loro può dirsi davvero vincitore.

All’inizio di quest’ultima stagione Brian Cox, interprete di Logan, ha dichiarato in diverse interviste che secondo lui ogni annata di questa serie riesce a superare la precedente, e, per quanto si possa vederla come un’intelligente pubblicità per lo show, è difficile dargli torto. Quest’ultima stagione ha avuto dalla sua la possibilità di lavorare su un livello di emozioni mai riscontrato prima, causato proprio dalla morte di Logan così anticipata rispetto al previsto: questo, unito a un cast eccezionale e sempre più aderente ai propri personaggi, ha fornito un materiale di inestimabile valore, che solo un’ottima regia poteva esaltare. Tra i diversi registi di queste ultime puntate, è impossibile non sottolineare il contributo essenziale del già citato Mark Mylod, che soprattutto in “Connor’s Wedding” e “Church and State” ha adottato precise tecniche per diminuire il più possibile le interruzioni durante le riprese.

Girare di continuo, seguendo i personaggi in modo fluido senza staccarsi dai loro volti o dalle loro emozioni, amplifica ancora di più le già incredibili doti degli attori che in diversi casi si sono ritrovati a improvvisare, ormai interamente assorbiti dalla vicenda. Senza arrivare per forza agli eccessi identificativi di Jeremy Strong – che non usciva dai panni di Kendall neanche tra una ripresa e l’altra, ma non ci lamenteremo mai del risultato –, Alan Ruck, interprete di Connor, ha definito molto chiaramente questo processo nel “dietro le quinte” del terzo episodio: riferendosi al momento in cui Shiv va da Connor per dirgli che il padre è morto, Ruck dichiara come l’aspetto stesso di Sarah Snook in quel momento abbia innescato la sua reazione – “It was just like “game over”. You don’t have to act”. Questo approccio della macchina da presa, definito dallo stesso Mylod “sadicamente voyeuristico”, ha prodotto dei risultati inimmaginabili sia nella terza puntata che nella nona, che trova il suo picco nel discorso di Roman e nel suo successivo crollo, interpretato magistralmente da Kieran Culkin.

Sono poche ormai le serie che riescono a chiudere alle loro condizioni e pochissime quelle che sanno fermarsi al momento giusto. Armstrong ha individuato la conclusione qui, non perché non ci siano cose interessanti da raccontare nelle vite dei Roy rimasti, ma perché il tema era la successione e questo momento è arrivato: cavalcare l’onda del successo sarebbe stato facile, ma portare avanti Succession mostrandoci la rivalsa dei Roy avrebbe trasformato la serie in una cosa che non è mai stata, e alla fine l’avrebbe rovinata. Queste quasi 40 puntate sono quello che ricorderemo di una serie che sembra davvero non aver sbagliato un colpo: come sempre l’ardua sentenza andrà ai posteri, ma possiamo dirci sufficientemente certi del fatto che Succession si sia guadagnata il suo posto tra i capolavori della serialità.

Voto Stagione: 10
Voto Serie: 9
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