The Bear – Stagione 1

Christopher Storer, uno che di esperienza in TV ne ha tanta e che arriva ad essere per la prima volta autore completo – creatore, sceneggiatore e regista – per The Bear dopo una sfilza di colpi andati a segno e collaborazioni in serie importanti: dalla co-partecipazione in alcuni degli spettacoli più famosi di Bo Burnham, al ruolo di produttore esecutivo in Ramy, nonché tra le altre cose la regia per alcuni episodi delle serie di AppleTV+ Little Voice e Dickinson. Se c’è una cosa che hanno in comune tutti questi suoi passati progetti, e che possono far capire la strada che porta al suo ultimo lavoro, è che si tratta di prodotti dallo stile ibrido tra dramma e commedia – alcune di quelle citate sono infatti classificate come dramedy – e in alcuni casi caratterizzati da un umorismo nero, o comunque da toni che poco hanno da spartire con la comicità in senso stretto.
The Bear è, in realtà, una serie che si sbilancia più sul lato drammatico, sebbene la si possa identificare senza problemi come una dramedy per via della comicità che, in modo sembra quasi inconsapevole, emerge dall’assurdità delle situazioni che si vengono a creare – la durata degli episodi tra l’altro è di circa trenta minuti, in linea con gli standard di questa categoria di show. Anche l’antefatto conserva una sua drammaticità di fondo dal quale si riesce però a evincere una certa ironia: Carmen Berzatto, detto “Carmy”, è un giovane talento della cucina che ha fatto carriera velocemente ed è riuscito ad andare a lavorare come chef in ristoranti stellati; quando il fratello Mikey improvvisamente si toglie la vita, però, il protagonista sceglie di lasciare la sua carriera e tornare nella sua Chicago a gestire il modesto ristorante di famiglia specializzato in panini al manzo, un luogo ben lontano dall’alta cucina alla quale era abituato. Se da questa premessa ci si poteva aspettare una serie che puntasse molto di più sulla comicità della situazioni che potevano venirsi a creare dall’incontro/scontro di due mondi e due modi diversi di fare cucina, lo spettatore rimane da subito spiazzato: la scelta, come si è detto, è di premere forte il pulsante della malinconia del protagonista ed elevare il carico drammatico dell’ambiente culinario mettendo in risalto le difficoltà che affronta questa categoria di lavoratori.

In questo caos si sviluppano le relazioni tra i personaggi ed emergono tutti i dissapori e le emozioni a cui si può pensare: gelosie, ansie, paure, ambizioni e diversità di vedute. Il tutto è gestito con una delicatezza – che sembra quasi un ossimoro per come si è parlato finora della spigolosità delle vicende narrate – e un’attenzione tale da tenere incollati allo schermo, facendoci assistere appassionati a quello che accade in cucina: gli autori sono bravissimi anche nella scrittura dei dialoghi, una parte essenziale per una serie che si svolge quasi sempre negli stessi ambienti, tanto da far pensare in certi momenti di star guardando una pièce teatrale – e il bellissimo settimo episodio “Review” non fa che portare all’estremo questo concetto.
Carmy è magistralmente interpretato da Jeremy Allen White, molto noto in TV grazie al suo ruolo principale in Shameless ma che ha all’attivo anche una parte nella prima stagione di Homecoming; il personaggio sembra essere scritto su misura per lui poiché l’attore riesce a dargli una caratterizzazione ottima pur con le pochissime battute a lui riservate. Carmy è infatti taciturno, immerso nei suoi pensieri e nella sua elaborazione del trauma – la morte di Mikey, interpretato in un flashback da Jon Bernthal (The Walking Dead, The Punisher) – e con lo sguardo sempre perso nel vuoto: questo suo carattere si scontra con quello di Richie, interpretato da Ebon Moss-Bachrac (Girls, The Punisher), il migliore amico di Mikey e, di fatto, fratello maggiore acquisito per il protagonista. Richie è molto impulsivo e decisamente più pragmatico di Carmy: le sue idee su come andrebbe gestita la paninoteca finiscono sempre con lo scontrarsi con il desiderio del protagonista di voler portare il ristorante ad un livello organizzativo e culinario superiore. Su questa dialettica e sul loro confronto poggiano le basi gran parte delle linee narrative drammatiche, il restante è invece legato al loro rapporto con i collaboratori, in particolare con la nuova ragazza assunta, Sidney.

The Bear è inaspettatamente una delle migliori novità di quest’anno e il grande plauso della critica internazionale ne è la dimostrazione. In Italia la serie è disponibile interamente su Disney+ e FX ne ha già ordinato una seconda stagione: il consiglio è di recuperare al più presto questa serie imperdibile, il miglior biglietto da visita da autore tout court per Christopher Storer.
The Bear – Stagione 2

O forse no.
Il ritorno di The Bear infatti parte da un vero e proprio conto alla rovescia: se la prima stagione si chiudeva con la decisione di trasformare il locale in un ristorante “degno di una stella Michelin”, la seconda si apre con la consapevolezza che nemmeno tutti i soldi trovati nel precedente season finale sono sufficienti a garantire questo risultato. Bisogna aprire entro sei mesi, anzi, tre: ci vuole molto poco per arrivare a questa conclusione, soprattutto considerando il folle autoricatto elaborato da Carmy con zio Jimmy/Cicero – la restituzione del debito entro 18 mesi o la cessione di tutto, ristorante ed edificio compreso. Non è casuale il fatto che la season premiere inizi con una condanna proposta dalla vittima stessa: in questa stagione la storyline di Carmy avrà esattamente l’autosabotaggio come fil rouge, un percorso in contromano mentre (quasi) tutti gli altri si muovono in una direzione nuova e gratificante, alla riscoperta di se stessi e delle proprie capacità. Qui si trova il primo, grande ossimoro rappresentato dal protagonista: se la sua brigata fatta di colleghi/amici/parenti si trova sul ramo ascendente della parabola è sicuramente solo grazie a lui e a quanto accaduto nella prima stagione; è indubbio infatti che la spinta al cambiamento sia arrivata grazie a Carmy e nonostante il dolore per la perdita di Michael. La contraddizione scatta nel momento in cui colui che ha dato il “la” al movimento degli altri rimane immobile, nonostante all’apparenza provi di tutto per dare una svolta alla sua vita.
Let it rip

Funziona così per il locale e funziona così per la maggior parte del team.
Nel primo caso, l’apoteosi del processo avviene attraverso il superamento del test per i sistemi antincendio e le condutture del gas: è necessario scavare accuratamente nei ricordi per trovare la soluzione, che si trova proprio nelle discutibili decisioni di Michael; dunque il segreto per far ufficialmente partire il The Bear va ricercato nei momenti peggiori del The Beef, che vengono setacciati da chi riesce a essere meno emotivamente coinvolto dalla vicenda di Michael – in questo caso Fak.
Nel secondo caso, come si diceva, non tutto il team segue la stessa strada, ma si possono individuare due macrogruppi grazie a una stagione in cui il ritmo rallenta, in cui ci si prende il tempo necessario per donare a ogni personaggio la possibilità di raccontare la propria storia.
Da una parte abbiamo Richie, Natalie, Tina, Marcus e persino Ebra, anche se sarà il più refrattario al cambiamento; dall’altra troviamo Sydney, che si troverebbe a metà strada tra il primo e il secondo gruppo se non fosse per lui, Carmy, vero protagonista al contrario dell’altrimenti dominante processo evolutivo della brigata.
Every Second Counts

Abbiamo poi Marcus (Lionel Boyce), che nel quarto episodio vola a Copenhagen per imparare nuove tecniche da adottare per i dolci da servire al The Bear. È un episodio che si distacca dagli altri non solo per gli evidenti chilometri di distanza da Chicago, ma anche perché cambia completamente di ritmo, e per diverse ragioni. Innanzitutto c’è la solitudine di Marcus, che decide di partire nonostante la madre malata a cui non smette di pensare nemmeno per un secondo; c’è la sua scoperta della città, la voglia di imparare da zero e il rapporto con Luca (Will Poulter, una delle tante guest star di questa stagione), che si costruisce di giorno in giorno all’interno di una professionalità rigida ma non tossica, che sa comprendere la cura e il perfezionamento di sé e dei dolci in egual misura.

Ma è Richie (Ebon Moss-Bachrach) l’osso duro del team – lo sanno loro e lo sappiamo anche noi. È per questo che il settimo episodio, “Forks”, pur mettendo in scena un cambiamento forse troppo rapido per avverarsi in una sola settimana, colpisce nel segno e ci conquista, perché ci mostra cosa possa diventare una persona quando non solo ha un obiettivo, ma ne coglie la vera essenza. Richie è un uomo nato per stare in mezzo alla gente, ma allo stesso tempo incapace di moderare i propri istinti ogniqualvolta senta pungolate le sue insicurezze e i suoi complessi d’inferiorità. È per questo che inizialmente si mostra riluttante a fare bene il suo mestiere, perché crede che iniziare dal pulire delle forchette sia un atto derivato dal giudizio nei suoi confronti, tutta una macchinazione del mondo (e di Carmy) per fargli sentire ogni grammo della sua inadeguatezza. È solo quando entra nel gioco e capisce che l’ossessione per il dettaglio del cugino nasce da un’esigenza ben precisa – fornire il miglior servizio possibile per persone che in quel ristorante ci vanno non solo per il cibo ma soprattutto per l’esperienza – che avviene la svolta.

A chiudere il gruppo, pur non avendo un intero episodio su di lei, troviamo Natalie/Sugar, che passa dal dover essere praticamente convinta a lavorare al progetto a esserne così coinvolta da capire, nel season finale, di voler lavorare al The Bear. Sugar è la dimostrazione di come – pur avendo lo stesso bagaglio di traumi familiari di Carmy – ci sia una possibilità di autoricostruzione nel momento in cui si trova un obiettivo e si riesce al contempo ad avere la propria vita. Non è una coincidenza il fatto che in questa stagione sia incinta: è infatti la prova (e non sarà l’unica) che lavoro e vita privata possono coesistere, che dare tutto e dare il meglio di quello che si ha in un progetto non deve avere come contropartita la solitudine e l’isolamento, soprattutto se si coinvolge chi si ha accanto nel proprio percorso. Il marito, Pete, non sarà forse l’elemento più apprezzato della famiglia, ma è una brava persona, che riesce a cogliere il punto quando dice a Sugar: “You’re easier. […] Because you love this, and, like, you’re not as pissed all the time”.
A livelli diversi, ogni persona di questo gruppo si muove verso la novità e l’ignoto ribilanciando di volta in volta oneri e onori, responsabilità e momenti personali. Sotto questo profilo, Sydney e Carmen sono decisamente più in difficoltà.
You’re going to have to care about everything more than anything

A sottolineare questo concetto troviamo la terza puntata che è incentrata su Sydney per un motivo ben preciso: Carmy la lascia da sola, dandole buca all’ultimo per un giro di test di cibi che peraltro era stato proprio lui a suggerire. “Sundae” è un episodio che fa del processo creativo culinario il vero protagonista, grazie a un tour per ristoranti e locali che Syd intraprende in solitaria e che la porterà a girare per Chicago con la mente aperta a ogni suggestione. Come dirà anche Luca a Marcus, i piatti migliori non sono quelli che arrivano dalle tecniche più raffinate ma dall’ispirazione, e per questo bisogna passare tanto tempo in cucina quanto fuori; è lo stesso messaggio che troviamo qui, con la splendida regia di Joanna Calo che mostra l’anima creativa di Syd attraverso l’accostamento di immagini – palazzi, pasta, finestre, ravioli, ricordi d’infanzia, piatti ideali.
Il problema di Sydney è che il suo costante non sentirsi all’altezza la porta a non puntare i piedi quando ce n’è bisogno e a farlo troppo quando è assolutamente non necessario: Syd e Carm passano una stagione intera a non essere sintonizzati sulle stesse frequenze, ed entrambi pensano che sia perché l’altro non ha abbastanza fiducia in loro. Il confronto che avviene nel penultimo episodio, sotto a quel tavolo che per la prima volta li vede raccontarsi a cuore aperto, li riconduce al nocciolo della questione: entrambi sono in grado di tirare fuori il meglio dall’altra persona, di darsi manforte, di tenere il timone quando l’altro è in difficoltà. Il loro è un duo in costruzione che ha ancora molto lavoro davanti, soprattutto a livello di comunicazione: se ci sarà – come si spera – una terza stagione, questo sarà uno degli snodi fondamentali.

Non è la paura il problema, e neanche il bilanciamento tra lavoro e vita privata: la vera questione sta a un livello molto più profondo ed è quella per cui Carmy non crede di aver diritto alla felicità, di potersela meritare. Dall’esterno sembra che ci provi a concedersela, nonostante la riluttanza iniziale, ma lo fa nel modo sbagliato, sbilanciato, facendo sì che il tempo dedicato a Claire diventi letteralmente tempo sottratto al The Bear; e in fondo basterebbe solo parlare, anche perché Claire lavora in prima linea in ospedale, dunque sa benissimo cosa voglia dire trovare equilibrio tra la propria vita e un lavoro che è la quintessenza dell’emergenza. Carmy scopre che può essere felice, ma non pensa di meritarselo: e, come in una profezia autoavverante, fa inconsciamente tutto ciò che serve per mettersi nelle condizioni di dover fare una scelta; per condursi a un punto in cui lui possa dire di averci provato ma di non potercela fare perché per questo lavoro non si può avere altro a cui pensare – mentre tutte le persone attorno a lui sono la dimostrazione di quanto questo non sia vero.

“Fishes” è un episodio sorprendente per tutti i motivi sopra esposti, ma soprattutto perché scopriamo la sua vera natura solo nell’ottava puntata: quella a cui abbiamo assistito non è stata una analessi narrativa predisposta per lo spettatore, ma un ricordo di Carmy, che nel presente si ritrova ad avere un attacco di panico e a raccontare a Claire “di quel Natale in cui mia mamma ha sfondato la casa con un’auto”. Carmen Berzatto non è ancora pronto per trovarsi sul ramo ascendente della sua parabola perché è ancora nella fase in cui, piuttosto che affrontare i suoi demoni (specialmente quello in cui dovrà riconoscere di non essere molto diverso da sua madre), è deciso a colpevolizzare la natura del suo lavoro per giustificare il fatto di non poter essere felice; anzi, di “non aver bisogno” né di dare, né di ricevere gioia e divertimento, perché è deciso a raccontarsi un mondo in bianco e nero, in cui la moneta da pagare per la felicità è il fallimento su tutto il resto – un fallimento che non è ovviamente disposto ad accettare.

Voto: 9
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