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The Boys – Stagione 1
L’entusiasmo globale intorno al genere supereroistico – certificato dai numeri astronomici al botteghino di Avengers: Endgame – sembrava quasi chiamare in modo insistente un prodotto come The Boys, chiamato a decostruirlo e, in qualche modo, a certificare la sua importanza. La serie di Amazon, infatti, parte da un presupposto ben specifico: cosa accadrebbe se i supereroi, lungi dall’essere icone di splendente moralità, fossero calati in un mondo di multinazionali spietate votate alla più crudele economia di mercato che, guarda caso, assomiglia molto al nostro?

The Boys è uno show ad alto budget creato da Seth Rogen, Evan Goldberg ed Eric Kripke (il creatore di Supernatural) basato su una serie a fumetti uscita tra il 2006 e il 2012 creata da Garth Ennis (Preacher) e Darick Robertson (Happy!). Come si diceva la narrazione si svolge in un mondo perfettamente identico al nostro se non fosse per l’esistenza dei supereroi che lavorano per l’azienda Vought e sono considerati delle vere e proprie celebrità dotate di abilità fuori dal comune. L’idea di un mondo in cui l’esistenza di questi esseri soprannaturali è ormai un dato di fatto porta con sé il disvelamento quasi immediato della reale natura di questi uomini e donne che hanno sempre vissuto a contatto con il potere e la consapevolezza di essere superiori a tutti gli altri; dietro l’immagine che l’azienda vuole mostrare al mondo si celano, infatti, tutte le contraddizioni tipiche dell’essere umano, dalla corruzione alla ricerca del profitto, dai vizi di natura sessuale alle dipendenze da sostanze illecite. Un mondo che la Vought deve, per tutelarsi, tenere nascosto e che invece qualcun altro può utilizzare per controllare o, in casi estremi, mettere fuori gioco queste para-divinità: si fa riferimento appunto ai “ragazzi” del titolo, un gruppo eterogeneo di persone accomunate dalla loro avversione e ostilità nei confronti dei super che, muovendosi ai limiti della legalità, hanno come obiettivo quello di smascherarli e mettere un freno alla loro pericolosa esuberanza.

Non è certamente la prima volta che il genere supereroistico subisce un’attualizzazione e, men che meno, che viene utilizzato come spunto per un ribaltamento di prospettiva: le opere che anticipano questo meccanismo narrativo sono molteplici, a partire dal celebre Watchmen di Alan Moore (che tra l’altro a breve sarà portato in tv da HBO) che aveva posto per la prima volta sul piatto il dilemma di Giovenale “chi controlla i controllori” (quit custodiet ipsos custodes) in riferimento proprio a questo tema. La necessità di porre un freno all’abuso di potere di chi ne possiede troppo: se i super sono coloro che vigilano sulle persone, chi deve controllare il loro operato? Garth Ennis nel 2006 non fece che riprendere un filone tematico di grande successo e lo portò alle estreme conseguenze scrivendo una serie per adulti ultra-violenta ed esplicita con il chiaro intento di ironizzare e deturpare la sacralità di un immaginario ormai consolidato nella mente dei lettori di fumetti di supereroi. La trasposizione seriale del 2019 ha dovuto, per forza di cose, fare i conti con il periodo storico totalmente differente e, per questo motivo, adattare la trama originale alle esigenze del mondo contemporaneo: scompaiono, infatti, tutti i riferimenti alle paranoie post-11 settembre – molto importanti nella trama del fumetto – e lo spirito estremamente dissacrante che caratterizzava il materiale di partenza viene quantomeno mitigato, con evidenti vantaggi sulla definizione di alcuni personaggi che assumono così uno spessore diverso e che rigettano una semplicistica caratterizzazione manichea che li portava ad essere o totalmente positivi o totalmente negativi.

Ne guadagna per esempio la figura di Homelander (in italiano tradotto come Patriota) ben interpretato da Antony Starr (Banshee), un evidente miscuglio tra agli eroi americani per eccellenza, Superman e Capitan America. Dove il personaggio di Ennis non usciva da una bidimensionalità che lo teneva ingabbiato nell’essere una sorta di gerarca nazista freddo e calcolatore ben consapevole della sua superiorità e del suo potere, nello show si è cercato maggiormente di porre l’accento sugli aspetti psicologici dietro il suo delirio di onnipotenza, che sono conseguenza del modo in cui è stato cresciuto ed educato: pur rimanendo un villain in tutto e per tutto alcuni aspetti della sua personalità sono spiegabili in quanto lui stesso è stato una vittima, e quindi manipolato, da un sistema malato che vedeva in lui solamente una possibilità di profitto. Homelander è, infatti, una creazione del sistema capitalistico incarnato dalla Vought, il prodotto definitivo della società di mercato intesa in senso vile e approfittatrice: tutto quello che conta è la sua immagine e le possibilità di vendere un prodotto ideato e costruito per piacere alle persone. È chiaramente simbolica la costruzione di questo personaggio – ma in realtà di tutto il discorso sul sistema dei Sette e dei supereroi nella serie – in un periodo storico come il nostro in cui il populismo dilagante spinge sempre di più in questa direzione, nascondendo la realtà con la distesa di un velo pubblicitario ben orchestrato e costruito per ottenere consenso e approvazione.

Tutta la prima stagione di The Boys, in realtà, si sviluppa intorno a questo sistema di verità e finzione: ogni personaggio ha qualcosa da nascondere e qualcosa da rendere pubblico. Persino il gruppo guidato da Butcher non è esente da ciò: il personaggio interpretato da Karl Urban, per esempio, vive in uno stato di totale abnegazione nei confronti del suo obiettivo, la vendetta contro Homelander, e in tal senso è pronto a sfruttare chiunque gli faccia comodo spingendolo nella sua stessa direzione; è quello che fa con Hughie, del quale raccoglie la rabbia e lo spinge ad agire di pancia trasformandolo in un assassino vendicatore, impedendogli di frequentare la ragazza di cui si innamora e mettendo in pericolo la sua famiglia. Nel fare questo Butcher non rivela mai la sua ossessione, ma dissimula il suo fine ultimo nascondendolo dietro un’idealistica crociata di giustizia contro i super, un ideale più facile da abbracciare e da seguire da persone mosse da buone intenzioni come Mother’s Milk e Frenchie.

A livello strutturale questo si traduce in una trama tutto sommato solida che segue due direzioni ben precise: l’assortimento della squadra per i Boys e le mire politico-istituzionali della Vought che vorrebbe conquistarsi un posto di rilievo inserendo i super nel programma di difesa nazionale, in concomitanza con la progressiva presa di coscienza di classe da parte di Homelander e soci pronti a far rivalere la loro superiorità e a ribellarsi contro i loro “proprietari”. Se la metafora para-marxista è ambiziosa, è chiaro che la sceneggiatura, soprattutto negli ultimi episodi, non aiuta a chiarirla del tutto, troncando di netto la narrazione e lasciando un senso di incompiutezza che non può soddisfare lo spettatore. Probabilmente il rinnovo anticipato per una seconda stagione – prima del lancio della serie ma sicuramente già noto agli autori – ha contribuito a non dare una vera e propria chiusura a questa prima annata, accelerando in modo innaturale e scomposto gli eventi degli ultimi episodi e andando a inficiare il buon lavoro fatto fino a quel momento. A macchiare ulteriormente il giudizio sull’esordio di The Boys si unisce la superficialità con cui è stato costruito il rapporto tra Hughie e Starlight, non aiutato dall’interpretazione dimenticabile di Erin Moriarty.

The Boys arriva, quindi, nel momento perfetto per rappresentare la risposta estrema alla proliferazione ed eccessivo sfruttamento del genere supereroistico ad un pubblico che è testimone – e complice – di questo fenomeno invasivo anche nel mondo reale. Lo show giostra questa intuizione narrativa attraverso diversi registri, dalla violenza gratuita ad un’ironia che a volte sfocia nel comico – tutta la vicenda di The Deep per fare un esempio – riuscendo a trovare un buon equilibrio che intrattiene per tutti gli otto episodi di questa prima stagione. Peccato per il calo qualitativo degli ultimi episodi che, ci si augura, venga recuperato con la già programmata seconda annata della serie.
 
Voto stagione: 7
The Boys – Stagione 2
Terminata la seconda stagione, è il momento di tirare le somme su quello che il gruppo guidato da Eric Kripke ha saputo tirar fuori quest’anno, alzando sin da subito il livello delle aspettative con l’ingresso di una serie di storyline più o meno riuscite.

The Boys è stata, lo scorso anno, una delle serie che ha saputo farsi notare maggiormente per l’approccio disincantato sull’idea dei supereroi. A differenza di ciò che da anni il cinema e la serialità televisiva hanno saputo creare – l’idea dei supereroi come migliori di noi, dotati di grande senso di responsabilità e del dovere –, The Boys ha tutta un’altra prospettiva: possedere poteri così eccezionali significa creare intorno a sé il vuoto e l’adulazione, con il rischio molto concreto di alimentare egoismo e narcisismo a livelli patologici.

È chiaramente questo il caso di Homelander, che rappresenta il villain della serie ma che non viene certo caratterizzato in questo modo. Homelander rappresenta il prodotto perfetto di questo mondo in cui è possibile regalare superpoteri: è potente, narcisista, cresciuto come esperimento in laboratorio e dunque fortemente manipolabile da chiunque sia in grado di smuovere i suoi affetti ancestrali. C’era riuscita lo scorso anno Madelyn come figura materna, c’è riuscita quest’anno Stormfront, abile nel guidarlo verso un percorso che lo vedeva al centro della scena – anzi, al centro dell’intero universo. Ecco, dunque, che tutto intorno a Homelander doveva funzionare in virtù della sua grandezza: avrebbe avuto una donna capace di lasciarlo libero d’esprimere il proprio potenziale, sarebbe stato il padre perfetto, avrebbe avuto un compagno di giochi, sarebbe stato adorato e riverito. Perché alla fine con lui si riduce tutto lì, ad avere quell’affetto e quel senso di approvazione che non ha mai ricevuto crescendo allevato da medici spaventati da lui. Beninteso, Homelander è un mostro, totalmente incapace di provare sincera empatia: e non è un caso che nel finale abbia rinunciato all’esperimento del figlio per non perdere l’adorazione del pubblico, che è la vera cosa che gli interessa. La sua scena finale, poi, è l’esaltazione massima del drogato di potere (fa piacere sapere che Kripke sia riuscito a girare la scena della masturbazione che apparentemente non gli avevano concesso nella prima stagione). Finché ha dovuto mostrarsi interessato ai progetti di Stormfront, lo ha fatto per il proprio tornaconto, ma è sempre stato chiaro che quegli ideali lui non li ha mai appoggiati davvero.

Se infatti dovessimo trovare un tema principale in questa stagione si potrebbe parlare della viltà di seguire idee che non si condividono per il proprio interesse personale. Lo ha fatto A-Train, affidandosi alla Church of the Collective pur di ritornare nei Seven, sebbene chiaramente non ne condividesse gli ideali; lo ha fatto Edgar, il quale ha accettato quasi senza colpo ferire l’esaltazione di una nazista (letteralmente) che avrebbe sterminato chiunque apparisse come lui pur di aumentare il valore delle azioni di Vought; lo ha fatto lo stesso Homelander, che non si è davvero mai posto il problema del ‘genocidio bianco’ e verso cui ha mostrato una insofferenza nascosta dietro la necessità di sentirsi venerato ancor più di quanto lo sia allo stato attuale.

Stormfront è stata l’introduzione di peso di questa annata, un’aggiunta particolarmente riuscita soprattutto nella prima parte della stagione – forse ha perso un po’ di smalto nella seconda, messa da parte e ritrovatasi a fare troppo da spalla a Homelander. Il suo arrivo aveva avuto grande efficacia per due ragioni: da un lato mostrava il lato più moderno del guadagno, quello che non si accontenta più di ingannare, ma di farlo sobillando nel frattempo la rabbia e la paura della gente. In un paese, gli Stati Uniti d’America, che si trova ad affrontare una delle crisi politiche più gravi della sua storia, il personaggio di Aya Cash è stato in grado di mostrarci l’altro lato della rabbia, quello che si alimenta di tweet e di like, di falsità su falsità. Dall’altro lato, poi, c’è l’altro grande incubo americano, ossia la lenta e inesorabile presa di coscienza che gli Stati Uniti non sono più il paese dominante del mondo, incapace di nascondere sotto il tappeto le profonde diseguaglianze e gli ideali tossici alla base della propria fondazione. Il mettere al centro una vera nazista, i cui ideali si sono così perfettamente sovrapposti a QAnon e suprematismo bianco, ha esaltato questo cortocircuito e ha denunciato con intelligenza il risorgere di certi ideali. Non è un caso che verso le battute finali il personaggio di Stormfront diventi quasi una cieca caricatura: d’altronde lo sono anche i supporter di questi ideali, pericolosi idioti.

Se Homelander ha dovuto rinunciare ai suoi sogni di padre e protettore della Patria, diverso è il caso di Butcher, il quale ha mostrato una grande crescita in questa stagione, sebbene non tutto sia filato liscio come avrebbe dovuto. Parte del fascino di Butcher è sicuramente il suo lato scontroso, quel suo ‘cunt’ che è diventato distintivo. Ma la sua storyline con Becca è sembrata esclusivamente funzionale ad un addolcimento dei suoi tratti distintivi, ad una minore asprezza se non nei modi almeno nelle relazioni interpersonali. L’obiettivo certo nobile di dare una maggiore solidità a Butcher ha funzionato solo in parte, perché il modo in cui questo traguardo lo si è raggiunto è stato attraverso la storyline più debole della stagione, quella tra lui, Becca, e Ryan. Anche l’incontro con il padre – un John Noble sprecatissimo – è servito a poco e niente, e ha lasciato interdetti come gli autori non abbiano saputo davvero gestire questo racconto.

Fortunatamente, di punti deboli questa stagione ne ha avuti pochi. Molto riuscita è anche la storyline di Maeve, un percorso di redenzione che, sebbene non proprio originalissimo in tutti i suoi livelli, ha mantenuto quel senso di crescita d’intensità, portandoci quindi a un finale che finalmente la vede pronta ad affrancarsi da Homelander. Unico neo nel finale, al massimo, è l’apparizione a sorpresa che non avviene solo una volta, nella lotta con Stormfront (ma lei non può volare e siamo in campo aperto, come hanno fatto a non accorgersene?), ma anche poco dopo in mezzo alla foresta con Homelander. Gli autori avrebbero potuto gestire decisamente meglio i suoi effetti a sorpresa. Per inciso, il finale in generale si concede un po’ troppe licenze nelle scene d’azione, quasi avesse paura a far uscire di scena i propri personaggi: si pensi all’incidente d’auto causato da Stormfront che lascia tutti sopravvissuti senza graffi; certo, gli autori ci hanno dato un bel momento ‘girls get things done’, che in parte ripaga della delusione.

Parlando di storie sentimentali, se quella di Maeve ed Elena sembra finita, e sia Butcher che Homelander sono rimasti senza le loro compagne, va molto meglio agli altri personaggi: Starlight e Hugh finalmente ammettono i loro sentimenti e vanno oltre i propri ostacoli – non capita tutti i giorni che l’uomo di cui sei innamorato venga a salvarti da una prigione per supereroi; Frenchie e Kimiko trovano un nuovo equilibrio, imparando finalmente a parlarsi. Soprattutto, però, Mother’s Milk torna a casa dalla propria famiglia, ora che le accuse sulle loro teste sono finalmente cadute (e la scena con la figlia vale l’intero episodio, per noi sentimentali). Resta il dubbio sul perché mantenere The Deep nella serie dal momento che la sua storyline è stata una grossa perdita di tempo.

A ben vedere, non fosse per gli ultimissimi minuti, questo sarebbe quasi un series finale. Tutte le cose tornano al loro posto, ognuno sembra pronto a ricominciare o andare avanti con le proprie vite, così come la grande corporazione malvagia deve mettere in pausa i propri progetti di dominazione. C’è, però, la scoperta dei superpoteri di Neuman, adesso a capo di un’organizzazione governativa a sorveglianza dei supereroi e candidata alla presidenza. Chi scrive non nasconde però la sua delusione circa questa scelta – salvo, ovviamente, che non ci sia una spiegazione molto più efficace nella prossima stagione. Ci sono due punti che non tornano: da un lato, la Congresswoman sembrava sinceramente spaventata mentre le teste esplodevano durante l’udienza. Certo, avrebbe potuto fingere, ma allora perché mostrarsi così terrorizzata? Tra l’altro i suoi occhi erano ‘normali’, mentre quando uccide il capo della setta sono bianchi. Potrebbe trattarsi di un inganno da parte degli autori, ma al momento sembrerebbe lei la responsabile delle esplosioni delle teste (e se continua a farlo, come si può dire che sarà colpa di Stormfront?). Questo, però, apre un altro problema, ed è la trasformazione di un personaggio in apparenza positivo solo per renderlo il nuovo villain della serie, o comunque una persona immischiata in acque più o meno torbide. Nelle migliori delle ipotesi, infatti, viene mostrato come anche i progressisti abbiano le mani in pasta (attraverso i suoi contatti con il leader della setta). Nelle peggiori, va a giocare con il pericoloso ideale del ‘entrambi i lati sono uguali’, che ricorda quel ‘you also had people that were very fine people, on both sides’ detto da Trump in coincidenza con gli eventi di Portland. Un concetto pericoloso, quando uno dei due lati è un’autentica nazista. Tra l’altro il personaggio di Neuman è l’unica politica introdotta nella serie ed è innegabile che sia ricalcata sulla figura di Alexandria Ocasio-Cortez, puro fumo negli occhi per una certa parte politica. Sembra questa una scelta vile e onestamente offensiva, per una serie che in due stagioni ha saputo con intelligenza parlare della politica e della società americana come poche altre, anche più esplicite di queste. Ci sono, però, i presupposti per creare qualcosa di più autenticamente forte ed efficace, ma è l’accostamento tra queste due ideologie a far rabbrividire.

Una terza stagione, dunque, arriverà. Sebbene ci siano alcuni spunti da sfruttare, è certo che questa stagione, senza più l’effetto novità, ha dovuto faticare un po’ a trovare un proprio equilibrio. Alcune storyline hanno funzionato, altre meno: innegabile, ad esempio, che gli umani senza superpoteri siano stati per una buona fetta della stagione la parte meno interessante. Se però gli autori sapranno approfittare dei buoni personaggi che hanno, accostandovi una nuova prospettiva sul rapporto tra potere, denaro e politica, allora ci si potrà attendere una buona terza annata. Intanto, questa seconda stagione conferma come The Boys sia una serie ancora fresca e divertente, a cui si perdonano anche alcuni passi falsi.

Voto: 7
The Boys – Stagione 3
In poco tempo The Boys si è elevata da progetto di nicchia a serie di punta ad alto budget di Prime Video, raccogliendo consensi con una buona prima stagione e un’ottima seconda: i meriti dello show sono stati quelli di essere riuscito ad aggiornare un fumetto degli anni 2000 con tematiche oggi attuali, prendendosi dei rischi puntando tutto su un’estetica e uno stile che non risparmia nulla, ma proprio nulla, a livello visivo.

Parliamo per esempio dell’iperviolenza esplicita e della totale assenza di inibizioni per quanto riguarda la nudità e l’esagerazione; queste scelte possiamo dire “artistiche” hanno da subito attirato una grande attenzione sulla serie di Eric Kripke; d’altro canto, però, rischiano di essere spesso un paradossale limite alle potenzialità narrative dello show. Non è un mistero, infatti, che The Boys alle volte sembra quasi che voglia sempre spostare un po’ più in là il limite di quello che può mostrare sullo schermo, anche a costo di farlo in modo gratuito, o semplicemente perché è una via molto facile per attirare l’attenzione degli spettatori e far capire che non ci sono filtri, che non esistono linee di demarcazione che non si possono superare – emblematica in questo senso la scena di sesso mostrata nel primo episodio di questa annata. Da questo punto di vista anche questa terza stagione è piena di momenti sopra le righe, di immagini forti che urlano a gran voce la volontà di essere il più scorretti e sboccati possibile, lasciando più di un dubbio su quanto queste scelte siano funzionali alla trama.

Nella terza stagione il problema emerge in modo particolare perché l’impalcatura narrativa non è così solida come lo è stata in passato: la trama orizzontale, infatti, è ricca di problemi di scrittura che vanno anche a intaccare la riuscita complessiva dello show, con tutte le altre componenti – gli archi dei personaggi, l’estetica – che prese singolarmente si sfaldano sotto il peso della superficialità. La criticità più importante che si nota nella macrostruttura narrativa stagionale è principalmente legata ad una troppo grande ambizione, quella di tenere insieme tante, troppe sottotrame, che vengono sostenute in modo debole e approssimativo: dall’inizio della stagione, infatti, ci sono tante parentesi che si aprono e si chiudono e che non si amalgamano bene con quella che dovrebbe essere la storyline principale, ovvero quella legata a Soldier Boy nel passato e poi nel presente. Prendiamo per esempio tutta la side-story legata alla misteriosa Victoria Neumann (Claudia Doumit) che, almeno ad inizio stagione, sembrava essere fondamentale e centrale per gli sviluppi di trama; questo segmento narrativo viene invece abbandonato dopo pochi episodi – principalmente dopo che il personaggio ha adempiuto alla sua funzione, quella di contribuire a far fuori in modo fin troppo semplice e sbrigativo Stan Edgar dalla Vought ed elevare lo status di Homelander – e non più recuperato se non per un cliffhanger di fine stagione che definire poco soddisfacente – e improvvisato – è un eufemismo. È chiaro che gli autori hanno “seminato” anche in vista della già confermata quarta stagione, ma la sensazione di frammentazione narrativa in questa terza permane e lascia un senso di amarezza soprattutto per l’uso strumentale e non organico che fanno di alcuni personaggi.

La stessa cosa la vediamo succedere con le storie secondarie dei personaggi appartenenti al gruppo di protagonisti, che si diramano dalla trama principale della stagione e creano delle piccole parentesi che spezzano il ritmo della storia principale ma non riescono a risultare credibili o avvincenti. Abbiamo, dunque, una lunghissima parte di approfondimento sui personaggi di Frenchie e Kimiko che fanno i conti con i loro sentimenti, con la loro voglia di una vita “normale” e che, nonostante tutto, alla fine della stagione si ritrovano ancora una volta al punto di partenza; certo, ci sono alcuni momenti ben fatti – come il segmento musicale nella fantasia di Kimiko – ma non bastano a scrollare di dosso l’idea di riempitivo e la voglia di poter saltare rapidamente a quello che accade agli altri protagonisti alle prese con Soldier Boy e con il piano per far fuori Homelander.

Sulla stessa scia non possiamo non citare anche la totale incoerenza del personaggio di Mother’s Milk che, al fine di ributtarlo nell’azione a tutti i costi, si lascia convincere da un vecchio rancore – per quanto profondo e radicato nella storia tragica della sua famiglia – e dalle parole di Butcher e sceglie nuovamente di abbandonare l’agognata tranquillità quotidiana guadagnata alla fine della scorsa stagione per inseguire un desiderio di vendetta. Nel suo caso rientra anche il tema della paternità messa a rischio dal nuovo compagno della moglie, che si rivela essere un seguace feroce di Homelander che lui, tra l’altro, odia. La nuova dinamica familiare, tuttavia, rende ancora più ingiustificabili alcune delle sue scelte che, per essere rese accettabili dagli autori arrivano ad essere espresse in un agghiacciante discorso padre-figlia in cui Mother’s Milk cerca di spiegarle il motivo per cui ritiene che la vendetta sia giusta e indispensabile.
Citiamo solo velocemente le trame legate ad A-Train che sperimenta per la prima volta l’ira della sua comunità per il suo mancato supporto alla causa degli afroamericani, quella di The Deep che continua ad essere la storyline più weird e comica della serie, e quella di Maeve che mai come in altri casi è chiaramente solo funzionale ad essere un supporto “di peso” ai protagonisti. Insomma, gli autori si sono lasciati un po’ guidare dalla pigrizia e hanno puntato su scelte facili ma poco interessanti, almeno per i comprimari, che sembrano dover a tutti i costi avere una loro storia dedicata, anche se questa è appiccicata alla trama stagionale in modo a dir poco approssimativo.

Hughie si trova in mezzo ad una crisi di coppia con Starlight a causa del suo comportamento tossico e al modo in cui pensa alla loro relazione – in questo specifico caso il personaggio non ne esce benissimo e alcuni dialoghi tra i due sono tra i peggiori scritti di tutta la stagione. Butcher, invece, è un po’ più sfumato dal punto di vista della caratterizzazione e riesce a trovare il suo spazio nel confronto con il passato di Soldier Boy e con il focus sulla sua infanzia – in questo caso molto azzeccato l’espediente di utilizzare i poteri di Mastermind per andare a scavare nella sua mente e nei suoi ricordi più dolorosi. Il personaggio interpretato da Karl Urban tiene botta fino alla fine della stagione: la scelta di proteggere Hughie che deriva dagli errori commessi con il suo fratello minore è ottima per creare un parallelo in grado di farlo crescere e maturare; è nel rapporto con il membro più giovane della sua squadra, infatti, che Butcher trova sempre il modo di far emergere quella parte di umanità che ogni tanto sembra essere lontanissima da come è stato costruito il personaggio nello show – che comunque è sempre stato molto meno estremo caratterialmente della sua controparte nel fumetto.

Gli altri due personaggi chiave ai quali la serie ha dato tantissimo spazio sono Homelander e Starlight. Se quest’ultima paga in modo evidente i limiti attoriali di Erin Moriarty e la già citata relazione con Hughie scritta in malo modo, ad essere sempre più un fan favourite e uno dei personaggi più acclamati dalla critica è il supereroe interpretato da Antony Starr. Se nel suo caso a fare molto è anche l’interpretazione dell’attore, bisogna dar credito agli autori per aver costruito nel corso di queste tre stagioni l’archetipo perfetto dell’essere onnipotente e incontrollato – o incontrollabile – la cui sola esistenza mette a rischio la vita di tutte le persone che osano dargli contro in qualunque modo. Homelander è a tutti gli effetti un influencer di fama mondiale con la discriminante che ha i poteri di un dio e che è disposto a tutto, ma proprio a tutto per ottenere consenso, e di conseguenza a reprimere con tutti i mezzi possibili il dissenso. Lo dimostra chiaramente la scena finale della stagione, con l’improvvisa esplosione di rabbia del personaggio nei confronti dell’hater in mezzo alla folla che viene ucciso – disintegrato – a sangue freddo; con questo twist gli autori sottolineano come la folla che adora l’uomo forte al comando è talmente aderente ideologicamente all’immagine populista che Homelander si è costruito in questa stagione – l’uomo che dice la verità che gli altri non dicono, quello dalla parte del “popolo”, contro i poteri forti e contro il sistema – da giustificare persino l’omicidio. Non sarà uno scherzo riuscire a gestire queste tematiche nella quarta stagione, soprattutto perché già in questa la credibilità interna alla storia ha già iniziato a vacillare, considerando che il personaggio ha assunto sempre maggiore potere senza avere degli adeguati contrappesi.

Proprio per lo squilibrio di forze in campo si è scelto in questa stagione di donare anche ai Boys la possibilità di ottenere dei poteri, per quanto temporanei, in grado di rivaleggiare con i super ai quali danno la caccia – per chi non lo sapesse, nel fumetto invece i personaggi sono tutti dotati di forza equivalente a quella dei super da subito, in quanto per entrare nei Boys è necessario iniettarsi il composto V. Questa scelta, unita all’entrata in scena di Soldier Boy – un Jensen Ackles in splendida forma – porta le scene d’azione e la tensione narrativa su tutt’altro livello: ora sembra che i protagonisti abbiano davvero una possibilità di vittoria contro Homelander e non è un caso che il supereroe provi per la prima volta un vero senso di paura dopo la straordinaria lotta che chiude “Herogasm”, una lunga sequenza action che ha impiegato ben sei giorni di riprese. Proprio quest’ultimo episodio, uno dei più chiacchierati della stagione, era stato ingigantito da Prime Video e dagli attori come qualcosa di mai visto prima in tv, facendo riferimento a quello che sarebbe stato mostrato nella famosa scena dell’orgia dei super che, come tutte le scene di questo tipo, fanno sempre un velato riferimento ad Eyes Wide Shut; in realtà non si è visto nulla di più di quanto già non si fosse visto in tre anni di The Boys e questa campagna pubblicitaria è stata appunto solo una campagna promozionale per spingere ancora più in alto le aspettative degli spettatori e contribuire a far parlare della serie.

A questo proposito, per chiudere il cerchio, una menzione d’onore va fatta alla scelta perfetta di rilasciare un episodio a settimana, un formato che ha permesso alla serie di essere sempre molto chiacchierata e attesa. Sembra una banalità, ma ancora una volta il senso stesso della “serie televisiva” viene esposto come vincente solo in quanto racconto serializzato e non raccontato tutto in una volta sola: non staremo certo a fare proclami dicendo che è la vittoria definitiva della serialità canonica sul binge watching – anche perché non avremmo gli strumenti per dirlo con certezza – ma è evidente come sia stato soddisfacente e divertente poter attendere con trepidazione l’episodio successivo dopo un grosso colpo di scena alla fine di quello precedente.

In definitiva questa terza stagione di The Boys mostra tutti i suoi lati migliori che ne fanno uno dei prodotti più interessanti, esteticamente folli e soprattutto imprevedibili – bellissima l’idea di raccontare la storia e l’interiorità di Black Noir con dei cartoni animati per esempio – ma anche tutti i rischi insiti alla volontà di voler ambire sempre più alla spettacolarità delle immagini e delle situazioni sacrificando la coerenza interna e gli archi narrativi dei personaggi. Insomma, lo show di Eric Kripke come prodotto supereroistico ed action rimane assolutamente godibile e divertente, forse uno dei migliori in questo momento in tv, anche se paga lo scotto di volersi elevare ad uno status che purtroppo non riesce mai a raggiungere, sia dal punto di vista delle tematiche trattate, sia da quello della scrittura e dei dialoghi. Per dirla con una battuta, The Boys non è Watchmen ma ci piace lo stesso.

Voto: 7
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