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Daredevil – 2×01 Bang
Il lungometraggio del 2003 con Ben Affleck ormai non è che un (brutto) ricordo lontano: il Daredevil di Netflix torna con una seconda tornata di episodi, forte di un esordio che l’ha portato di diritto nell’olimpo delle comic series – e non solo –, surclassando la precedente trasposizione.

La serie si è infatti fin da subito distinta per un’inedita maturità narrativa e formale, in grado di smarcarla dall’etichetta di mero prodotto d’intrattenimento che solitamente si accompagna al racconto supereroistico, e di rivaleggiare così non solo con le massime espressioni del genere – pensiamo al Batman di Nolan –, ma anche con le cosiddette high-brow series. Quello adottato da Goddard e DeKnight nel corso della prima annata è stato infatti un approccio cupo e adulto al classico tema dell’origin story, totalmente inedito per il piccolo schermo, dove sia sul versante Marvel che su quello DC raramente si sono superati la soglia della mediocrità e i confini del prodotto per famiglie. Maestoso nella messinscena e coeso nell’evolversi della trama, lo show ha saputo coniugare alla perfezione indimenticabili sequenze action a una vocazione più introspettiva, che è riuscita a costruire una convincente riflessione sui ruoli dell’eroe e del villain.

L’assimilazione tra le figure di Murdock e Fisk, entrambe spinte ad agire al di fuori della legge nella convinzione di farlo per il bene della città, ha costituito il tema portante della stagione, ponendo così al centro del racconto il conflitto etico del protagonista, scisso tra il suo ruolo di avvocato e quello di giustiziere. L’epilogo era poi apparentemente giunto a rimettere in ordine le cose, con Kingpin consegnato alla giustizia e l’acquisizione da parte di Murdock di una più definita identità di eroe, grazie al battesimo della stampa e all’adozione del nuovo costume. Come era però già intuibile dai trailer, e ancora di più alla fine della visione di questa premiere, i nuovi showrunner Doug Petrie e Marco Ramirez non hanno nessuna intenzione di archiviare un tema così fecondo come quello della costruzione identitaria dell’eroe.

“Bang” si lega così a doppio filo con gli eventi passati sia in termini narrativi che tematici, trovando nella figura di Punisher il suo naturale perno. Ed è proprio la sua introduzione a costituire il maggiore punto di forza della puntata, innanzitutto per il modo intelligentissimo con cui viene gestita: questa infatti, andandosi a inserire nel racconto delle lotte di potere figlie del vuoto lasciato da Fisk, permette da un lato di fare una panoramica della criminalità di Hell’s Kitchen – lungi dall’essere scomparsa in seguito all’imprigionamento di Kingpin – e al contempo di sviare lo spettatore, cercando così di coglierlo di sorpresa alla comparsa di Punisher, nonostante l’annuncio della sua presenza risalga a mesi fa.

Ma al di là di queste astuzie narrative, a rivelare la tenuta qualitativa della serie sono le analogie visive con cui l’arrivo in scena del personaggio è messo in relazione alla figura di Daredevil: sia nella sequenza d’apertura che vede protagonista il diavolo di Hell’s Kitchen che in quella dell’ingresso di Punisher in ospedale, allo spettatore viene negata la visione dei protagonisti dell’azione, i quali restano nell’ombra o fuori dall’inquadratura, percependo solo le reazioni di terrore e la violenza che li accompagna; allo stesso modo il loro primo incontro avviene, non a caso, su quel tetto da cui vediamo l’eroe ascoltare le richieste di aiuto della città. Ecco quindi che poche semplici ma efficaci mosse – l’episodio è diretto da Phil Abraham, regista del bellissimo “Cut man” – riescono a impostare un confronto fatto di differenze e soprattutto analogie tra eroe e villain, ancor prima che questo venga esplicitato dal punto di vista strettamente narrativo; non sono infatti ancora note le motivazioni che hanno spinto Punisher a questo sterminio.

Quello che è certo, però, è che le sue azioni hanno portato Daredevil a compiere delle scelte che potrebbero mettere in discussione il suo personale concetto di giustizia. Sia nei panni di avvocato che in quelli di vigilante Murdock si ritrova, infatti, a difendere i criminali dalla furia omicida di Punisher; ma se i confini della legge possono essere superati quando ritenuti insufficienti (pensiamo al discorso che fa a Foggy sulla loro cliente), chi e su quali basi è legittimato a stabilire le modalità e l’estensione di questa operazione? Nonostante faccia la sua comparsa a pochi minuti dalla fine, la figura di Punisher porta quindi con sé un potenziale altissimo, in grado di approfondire e complicare ulteriormente il discorso impostato nella scorsa annata tramite Kingpin.

Come si accennava poco sopra la messinscena continua a essere il fiore all’occhiello dello show: dall’inconfondibile palette caratteristica delle scene in notturno a efficaci soluzioni registiche (si pensi ad esempio al modo in cui la camera si muove attraverso i cadaveri degli irlandesi), passando per la maestria con cui vengono girate le sequenze d’azione e di combattimento – prima tra tutte quella dello scontro tra Daredevil e Punisher. Allo stesso modo anche la scrittura si conferma sapiente nel non appesantire troppo il racconto, bilanciando i toni cupi e drammatici che costituiscono l’ossatura dello show, con scambi più leggeri ma altrettanto riusciti: emblematico in questo senso è ovviamente Foggy che nonostante ciò ribadisce la sua natura di personaggio a tutto tondo, il cui ruolo non si risolve in quello di mero comic relief, come dimostra la sua visita ai Dogs of Hell.

In definitiva, “Bang” è una premiere classica nell’impostazione ma molto promettente, che conferma tutte le qualità che ci hanno fatto amare la stagione d’esordio, facendoci sperare in un annata non solo all’altezza ma persino superiore alla precedente.

Voto: 7/8
Daredevil – 2×02/03 Dogs to a Gunfight & New York’s Finest
Dopo un primo episodio per sua natura introduttivo, Daredevil entra con più decisione nel vivo del proprio racconto, inserendo in modo più definito il fondamentale personaggio di The Punisher la cui ombra assorbe gran parte della narrazione della serie e che diviene la lente d’ingrandimento ideale per capire ancor meglio la bussola morale del protagonista.

La prima stagione di Daredevil è stata, come ha ampiamente meritato, un vero successo sia di critica che di pubblico: si è trattato infatti del primo prodotto Marvel che utilizzasse come modello espressivo non il tono leggero e scanzonato che ha contraddistinto finora la produzione cinematografica e soprattutto televisiva della compagnia fumettistica, ma una tipologia di racconto che lo avvicinasse, come d’altronde è anche nella origine cartacea, al modello del Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan, per rimanere in ambito cinematografico, o al Ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller: una città cupa, un eroe oscuro, sangue e violenza.

Tutto questo è stato ulteriormente impreziosito dalla scrittura di un villain eccezionale com’è stato Wilson Fisk (un Vincent D’Onofrio la cui interpretazione è ancora meritatamente ricordata) ed una serie di comprimari che, benché non perfetti, fungevano da ottimo contraltare alla narrazione delle vicende di Matt Murdock. A cavallo tra la prima e seconda stagione di Daredevil, però, è arrivato l’ottimo Jessica Jones ad alzare ulteriormente il tiro muovendosi in acque molto diverse dalla prima serie collaborativa Netflix-Marvel: molta meno azione, molta più introspezione dei personaggi. Una scommessa vinta che, al netto di imperfezioni che non le hanno permesso di raggiungere la stessa bellezza della prima annata di Daredevil, ha comunque rappresentato un esperimento grandioso per il genere d’arrivo. È chiaro, dunque, il perché da questa nuova stagione sul Diavolo di Hell’s Kitchen ci si aspettasse moltissimo: difficile replicare il successo ottenuto, ma sarebbe bastato mantenersi a quei livelli per parlare di scommessa vinta. Qual è, dunque, il risultato?

Anche se stiamo parlando ancora solo del secondo e terzo episodio di questa serie interamente disponibile su Netflix, non possiamo che ritenerci ampiamente soddisfatti e desiderosi di continuare la nostra immersione in questa seconda annata. Sgombriamo subito il campo da alcuni dubbi e da alcune posizioni con le quali non possiamo che trovarci in profondo disaccordo (mi riferisco in particolare all’articolo di Abraham Riesman per Vulture, il quale ha fuor di dubbio preferito Jessica Jones): Daredevil è una serie che utilizza la cornice supereroistica per raccontare qualcos’altro. Chi potrebbe mai dire che l’esperienza di Jessica Jones sia conclusa nel mero racconto del suo scontro con Kilgrave? Allo stesso modo, ridurre – com’è stato fatto – Daredevil a semplice storia di supereroi e porlo allo stesso livello dei pur piacevoli Agent Carter o Agents of S.H.I.E.L.D. (cito questi perché sono prodotti Marvel) non solo è scorretto, ma anche profondamente fuorviante. Daredevil è un caleidoscopio di temi e di simboli: attraverso l’esperienza di Matthew Murdock, che si trasforma in un Diavolo per proteggere la propria città, si intravedono tematiche come legge, giustizia, amore, amicizia, fede, trauma, paura, senso di colpa. Ogni singolo aspetto dell’animo umano viene tirato in ballo e ammantato da un ottimo abito action che è anche uno dei pregi principali della serie (e contro il quale non dev’esserci nessun pregiudizio snobistico). Parlare, dunque, di cliché o di banalità con Daredevil è di certo scorretto e sbagliato: non sempre la scrittura, soprattutto nei dialoghi, è perfetta, ma siamo molto lontani dalla mediocrità ben evidente su altre reti ed in altri prodotti troppo facilmente assimilati allo stesso genere di questo show.

Il primo episodio è stato per forza di cose introduttivo ed in questo senso ha funzionato molto bene: ci ha permesso, un passo alla volta, di tornare con il cuore e con la mente nel quartiere newyorchese di Hell’s Kitchen, di rientrare in sintonia con i protagonisti e nel frattempo di avere un assaggio (anzi, considerando l’ottimo finale anche qualcosina in più) delle portate principali che ci sarebbero state offerte negli appuntamenti successivi. Gli episodi “Dogs to a Gunfight” e “New York’s Finest”, invece, si inoltrano con più decisione nel mondo della minaccia rappresentata, così sembrerebbe, da The Punisher, riuscendo a collegare – ancor meglio di quanto già accaduto lo scorso anno – i personaggi di Foggy e Karen dello studio legale con le vicende del vigilante mascherato. E si ricomincia proprio da lì, con Foggy sempre più spaventato per le incursioni notturne del suo migliore amico e della sua vita sempre più in pericolo. Il tema, apertosi già nella scorsa annata, sembra tornare qui con ancora più cura: Foggy non può condividere le motivazioni alla base del comportamento di Matt, non può entrare fino in fondo nella sua mentalità e comprendere le ragioni che lo spingono a vestirsi da diavolo, e ogni notte mettersi in situazioni pericolose per aiutare i cittadini di quel quartiere. Come esprimerà ancor più acutamente nel suo dialogo con Frank, Matt è nato e cresciuto in quel luogo, ancorato dalla sua fede cattolica ad un territorio che ormai fa parte della sua anima e le cui sofferenze diventano sue personali. Nel buio, anzi, nelle fiamme in cui la cecità lo costringe a vivere, quella città è scivolata sotto la sua pelle, divenendo parte di sé. A tenerlo a galla, però, è il tanto ribadito legame tra lui, Foggy e Karen che, almeno per ora, riesce a tenerli lontano dal cadere nella disperazione in cui sembrano destinati a precipitare per i tristi giochi del destino.

Foggy e Karen sono, in effetti, i due personaggi su cui i nuovi autori sembrano aver lavorato con maggiore fermezza. Il primo, soprattutto, necessitava di un processo di affinamento, dato che nella prima stagione non era stato sfruttato quanto meritava. In effetti, Foggy deve incarnare in sé parecchi ruoli (comic relief, voce della coscienza, miglior amico del supereroe, ecc.) e non sempre è riuscito a farlo senza risultare sopra le righe o non del tutto in parte. Questi primi episodi, invece, continuano a dimostrarci come si stia lavorando per dargli un carattere più deciso ed un ruolo meno da grillo parlante: ottima è ad esempio la sezione narrativa che lo vede più coinvolto come avvocato (non altrettanto riuscita la sua incursione tra i motociclisti), così come l’abile modo in cui è stato in grado di sedare la rissa in ospedale; tutti questi elementi servono a dargli una personalità meglio definita ed una indipendenza narrativa.

Gli autori sono ancor più precisi con Karen, che rimane un personaggio dalle grandissime potenzialità. Lo scorso anno l’abbiamo vista passare da vittima indifesa ad assassina per legittima difesa: un cambiamento che però non ha leso la sua profonda umanità – in alcuni momenti fa davvero tenerezza quanto possa sembrare innocente – e al contempo l’ha messa di fronte al senso di colpa per aver stroncato una vita. Che cosa può accadere, allora, quando arriva in città un uomo che uccide coloro che ritiene colpevoli? Karen ha di nuovo rischiato la vita in ospedale, è stata nuovamente posta in una situazione di pericolo, ma dentro di sé qualcosa le ha subito detto di meritare quella situazione: essendo lei stessa colpevole di omicidio, non dev’essere anche lei punita? Il suo senso di colpa è perfettamente inserito ed è la giusta motivazione di base che ci permetterà di entrare ancor più in sintonia con un personaggio all’apparenza debole in un mondo di combattenti e guerrieri. Da tenere d’occhio la simpatia tra Karen e Matt che potrebbe evolvere in qualcos’altro (sempre che l’annunciato arrivo di Elektra non cambi le carte in tavola).

Abbiamo accennato a questo personaggio ed è dunque arrivato il momento di parlarne: ci si riferisce al Punisher, interpretato brillantemente da Jon Bernthal che riesce ad incarnare al momento in maniera perfetta l’idea di un uomo distrutto che decide di mettersi a fare giustizia da solo. Un personaggio che porta la battaglia iniziata da Daredevil un passo più avanti: perché continuare ad arrestare i criminali colpevoli, se poi comunque usciranno di prigione e commetteranno nuovi reati, nuove violenze, nuovi omicidi? Da questa posizione inizia a delinearsi un uomo che, da solo, può permettersi di far fuori un’intera famiglia criminal e, di inseguire la vittima sfuggitagli sparando in giro per un ospedale. Frank (Castle è il cognome ancora da dichiarare) si è affidato una missione sacra di pulizia, un compito non diverso da quanto anche Matt ha in mente: a cambiare profondamente sono però i mezzi attraverso i quali raggiungere il medesimo obiettivo.

È proprio il confronto tra Daredevil e The Punisher a richiedere la parte maggiore del terzo episodio: questa sezione narrativa è fondamentale per comprendere quali siano i punti di contatto e soprattutto quelli di profonda separazione tra i due opposti. Chiunque abbia avuto modo di guardare Il Cavaliere Oscuro di Nolan o abbia letto alcune delle storie più importanti della vita fumettistica di Batman, non potrà non riconoscere in questa relazione profondi richiami a quel tipo di racconto. In effetti, Batman come figura era stata già richiamata dallo scorso anno, perché i due eroi (uno della DC Comics, l’altro della Marvel) condividono moltissimi tratti in comune: orfani, feriti, entrambi dedicano la loro vita alla protezione di una città con cui si sentono legati e da cui sono amati e odiati contemporaneamente. Sia Batman che Daredevil vivono questo legame con la città come una missione spirituale (l’uno per fede, l’altro per ragioni familiari), ben consapevoli che forse la propria battaglia non sarà mai in grado di cambiare fino in fondo l’ambiente nel quale vivono.

Con l’introduzione del Punisher (e come fatto notare dalla stessa Karen) c’è un nuovo elemento che porta i due personaggi ad avvicinarsi: dal momento in cui Daredevil ha cominciato a mascherarsi, il germe della follia e dell’imitazione ha dato vita alle sue nemesi. Uno degli elementi più avvincenti che riguardano Batman è che è stato proprio il suo arrivo, la sua personalità alla costante ricerca di ordine e legge ad aver generato la follia ed il caos incarnato dal Joker. E forse anche il Punisher è nato come costola di Daredevil, in grado di spingersi laddove il Diavolo di Hell’s Kitchen non è mai voluto arrivare: sono i “buoni” ad aver generato le loro nemesi, le quali, probabilmente, non si sarebbero mai presentati nelle rispettive città senza l’intervento degli eroi. E se, dunque, questa tematica sembra già essere stata affrontata in un altro racconto, nondimeno è interessantissimo lo sviluppo che ne danno gli autori di Daredevil: The Punisher è un uomo che mostra il suo volto, un soldato che non è mai riuscito a scrollarsi di dosso la guerra che ha vissuto e che quella guerra ha deciso di portarsela dietro tra le vie del suo quartiere natio (e non è un caso che anche lui, come Matt, sia cattolico). Non importa se ciò che lo ha spinto in prima istanza fosse il dolore per la perdita di qualcuno, come sembrerebbe: la differenza fondamentale (ed è anche ciò che li avvicina, perché il gap è davvero molto piccolo) è che Matt riesce ancora a vedere il bene nelle persone, anche quelle peggiori. Egli vive nella speranza, o nell’illusione, che ci sia sempre la possibilità di riscatto, di perdono; è convinto che chiunque meriti una seconda opportunità. Il Punisher non ne è affatto persuaso e l’unico modo che vede per rimettere a posto un corpo malato è quello di estirpare la malattia con qualsiasi metodo, anche se ciò dovesse significare portar via parti innocenti o curabili.

Sembra questa la ragione per cui il Punisher fa di tutto affinché Matt uccida Grotto: ottenendo la confessione dell’omicidio della donna anziana, Punisher vuole condurlo al punto di non ritorno, mostrargli quanto sia vero che i due siano più simili di quanto possa sembrare. Ciò che il Punisher vuole distruggere è l’illusione di bontà e giustizia di cui ritiene il Diavolo essersi rivestito; e chissà che quello non sia un modo anche per convincere se stesso della correttezza delle proprie decisioni e delle proprie scelte. Daredevil ha scatenato qualcosa, ha rappresentato un esempio che non tutti hanno saputo seguire (i famosi adoratori del Diavolo) e dev’essere ritenuto responsabile per le conseguenze della sua scelta.

Come detto in precedenza, però, a differenza di Jessica Jones questa serie lascia alla parte action un bel po’ di spazio per espandersi e brillare: chi è che, ripensando alla prima stagione, non prova un brivido lungo la schiena al ricordo di quel lungo piano sequenza di combattimento nel corridoio? Perché se c’è un punto su cui è difficile trovarsi in disaccordo è che i combattimenti di Daredevil sono generalmente magnifici; sia come regia che come stunt, questa serie ha raggiunto dei livelli di messa in scena d’azione senza dubbio superiori alla maggioranza dei prodotti simili (solo i fratelli Russo di Captain America: The Winter Soldier si sono avvicinati a questo stile). Le scene sono dominate dalla violenza, trasmettono quel sapore di sangue e ruggine che sembra esplodere in ogni singola scena di combattimento. E se lo scontro fisico tra Punisher e Daredevil alla fine del secondo episodio già ci sembrava grande cosa, è nulla a confronto con la spettacolare sequenza finale del terzo che, riprendendo lo scontro in corridoio della prima annata, lo espande e lo conduce nella tromba delle scale raggiungendo nuove vette di totale immersione (e forse, ma qui dipende dai gusti, è persino superiore a quel celebre combattimento). La violenza ed il dolore fisico sembrano entrare nelle ossa dello spettatore, che viene per vari minuti completamente rapito da quelle scene in un tripudio di rosso sangue e nero. Se la speranza era che la serie potesse mantenersi, in questo ambito, non distante dal tracciato della prima stagione, possiamo essere ampiamente soddisfatti: la regia ha saputo regalarci qualcosa di memorabile.

Arrivati quasi al termine di questa lunga recensione, rimane da menzionare un’altra caratteristica che dimostra l’abilità del team autoriale della serie: l’attenzione al racconto, infatti, si evince anche dal modo in cui perfino personaggi estremamente secondari (per non dire addirittura accessori) siano dotati di una propria personalità ed indipendenza. Pensiamo all’uomo che costruisce e ripara l’armatura di Daredevil: un soggetto già intravisto lo scorso anno ma il cui ruolo è chiaramente marginale; ciò nonostante gli viene costruita intorno una storia, lo si delinea secondo dei valori e delle linee morali che non ci aspetteremmo in un personaggio così secondario. Da notare, poi, che il graditissimo ritorno di Claire, anche se poco funzionale in senso stretto, serve da interessante collegamento tra questa serie e Jessica Jones con un riferimento diretto sia alla protagonista della serie che a Luke Cage (il quale, ricordiamolo, sarà il protagonista della prossima serie Marvel-Netflix in onda dal 30 settembre).

In definitiva, quindi, questi due episodi si dimostrano all’altezza di un racconto che al momento non sembra affatto aver perso smalto ed anzi è riuscito a dar vita ad alcuni momenti senza dubbio molto centrati e piacevoli, se non persino esaltanti. E sebbene la perfezione non si sia raggiunta, perché qualche difficoltà soprattutto in fase di dialoghi è di tanto in tanto percepibile, nondimeno siamo alle prese con un prodotto che non ha alcuna intenzione di dormire sugli allori e ha tutte le intenzioni di darci qualcosa in più di quanto promesso. Se questi presupposti saranno mantenuti lo vedremo più avanti, ma almeno fino a questo punto non si può non essere desiderosi di continuare.

Voto 2×02: 8
Voto 2×03: 9
Daredevil – 2×04/05 Penny and Dime & Kinbaku
Difficilissimo ricominciare dopo il finale del terzo episodio, dopo una sequenza che è già storia della TV per complessità, citazionismo, perfezione tecnica e lavoro sul genere action. Daredevil con questa coppia di episodi dimostra non solo di saper ripartire, ma anche di rilanciare alzando la posta in gioco.

Dopo cinque episodi è chiaro che la scelta dei due showrunner di posizionare l’episodio più introspettivo non prima del quarto appuntamento ha pagato, dando infatti l’opportunità di costruire un contenitore perfetto, un racconto superoistico di grande cupezza ma anche di altrettanta spettacolarità, ribaltando completamente l’assunto che vorrebbe le sequenze d’azione televisive come una replica meno riuscita e più povera di quelle cinematografiche. Nessun lungometraggio del Marvel Cinematic Universe ha infatti mai realizzato una scena di combattimento come quella citata nell’introduzione e, trattandosi di film sui supereroi, qualcosa questo vorrà pur dire.

2×04 “Penny and Dime”

Il quarto episodio prende questa già fantastica struttura e vi costruisce attorno un organismo complesso, dove il noir ritorna a essere il genere di riferimento e dove la colpa e il dolore si impongono come le chiavi di lettura principali dei personaggi, immergendoli in un limbo in cui giusto e sbagliato si fondono nelle torbide acque delle loro contraddizioni. Il segreto dell’episodio sta nel personaggio di Finn, che, oltre a essere protagonista del prologo, funge da Caronte tematico del racconto introducendo i temi della vendetta, della patologia e della violenza di strada come meglio non si poteva, spingendo Punisher verso territori introspettivi fino ad ora lasciati da parte. Un personaggio perfetto che domina la trama verticale con grande carisma per poi uscire di scena, non prima di aver contribuito a mettere le basi – come vedremo – per la trama orizzontale, sia riguardo al lavoro sul villain stagionale, sia per quanto concerne il ritratto del sottobosco criminale di Hell’s Kitchen.

Well… Elliot Grote was no Saint. He was human… Deeply flawed.

Un episodio complesso come questo, dove i Kitchen Irish fanno da fil rouge tra i personaggi principali, ha il grande merito di lavorare a specchio sia su Punisher che su Daredevil, il quale è protagonista di un importante cambiamento, grazie soprattutto al ritorno di una fondamentale figura della serie: padre Lantom. Il sermone dedicato a Grotto posizionato nella parte iniziale riporta la serie alle sue atmosfere originarie, ovvero in quei luoghi dell’anima in cui la religione si mischia alla violenza e dove le tradizioni di quartiere riflettono quel meticciato culturale che da sempre ha distinto gli abitanti di Hell’s Kitchen. Nel faccia a faccia tra padre Lantom e Matt emerge il conflitto interiore dell’eroe in tutta la sua portata, ciò che lo distingue dai giustizieri solitari. Il bisogno di perdono è il carattere distintivo del giovane avvocato e saper scendere a patti con essi è ciò che lo rende davvero un eroe, insieme al senso di giustizia da cui è permeato. È la colpa il vero collante tematico dell’episodio, posto come uno sbarramento di fronte al quale tutti devono fare i conti; nessuno ne esce indenne: non Matt, non Karen che ancora ha davanti agli occhi l’omicidio commesso, non Frank, il quale probabilmente non riuscirà mai davvero a non sentirsi responsabile della perdita della propria famiglia.

My girl, she’s keeping me on my feet.

Proprio sul personaggio interpretato magistralmente da Jon Bernthal l’episodio concentra il suo più importante climax e il momento di maggior approfondimento narrativo della stagione fino a questo punto. Nel gioco di differenze e rifrazioni generato dal confronto con Finn, Frank viene fuori in tutta la sua umanità: il primo è contraddistinto da una perfetta miscela di follia (le bare rovesciate), violenza (l’occhio perforato nella presentazione) e patologia (le medicine prontamente assunte), tanto da renderlo un impeccabile cattivo da fumetto; il secondo mette a nudo tutto il suo trauma, la sua immensa fragilità legata agli affetti e alla loro perdita, che sia il cane o la sua famiglia. Punisher compie un importante salto di qualità che, da formidabile avversario del protagonista, lo porta ad essere un degno erede di Wilson Fisk, ovvero il prodotto sofferente di una società disfunzionale, dominato da rabbia e paura ed estremamente bisognoso d’ascolto. La confessione di Frank è un momento di grandissima intensità, impreziosito dalla location cimiteriale che funge da perfetto contorno al racconto della difficoltà di elaborare il peggiore dei lutti. A ciò si aggiunge il reducismo del personaggio che lo porta ad essere ancora più alienato, se non totalmente ignorato, cancellato dal mondo così come occultata è stata la strage della sua famiglia. Frank è a tutti gli effetti un revenant, un non morto, colui a cui la vita ha dato un’altra possibilità senza però dargli anche la forza di superare le proprie debolezze. Il confronto tra i due serve tantissimo a Daredevil, che nel finale si sacrifica per un bene superiore, consegnando Frank alla polizia e privandosi di ogni merito. Qui la serie corre sugli stessi binari del Cavaliere oscuro nolaniano, facendo di Daredevil non l’eroe che questo quartiere merita, ma il vigilante di cui ha bisogno, colui che è disposto al sacrificio giornaliero per poi sparire nel nulla. Si tratta di gesti di grande eroismo, ripagati da una felicità concentrata in quel sincero sorriso appena tornato a casa, quando a Matt sembra che ogni cosa stia andando al posto giusto, nel “lavoro” come in amore. Ma è una gioia che dura un’attimo, la frazione di secondo che lo separa dal pugnale lasciatogli da Elektra.

2×05 “Kinbaku”

Come un fulmine a ciel sereno Elektra Natchios irrompe in casa di Matt e con il quinto episodio dà inizio a una nuova linea narrativa. Lauren Schmidt Hissrich (alla sceneggiatura) e Floria Sigismondi* (alla regia) sono perfette nel pennellare il nuovo personaggio con poche ma puntuali battute e alcune potentissime inquadrature. La macchina da presa della Sigismondi con un particolare delle labbra e uno delle mani restituisce tutto il carisma e la sensualità di Elektra, mentre la scrittura della Schmidt Hissrich è perfetta in sequenze come quella del dialogo al bancone, dove in due scambi vengono tratteggiati la personalità e i bisogni di un personaggio sicuramente notissimo agli appassionati del fumetto, ma tutto da costruire all’interno dello show. C’è un momento in cui è proprio Matt a descrivere la donna, mostrandole e mostrandoci l’unica cosa che dalla vita cerca davvero (potendo avere qualsiasi cosa): “the unexpected”, le dice squarciando la sua maschera di sicurezza e dimostrandosi l’unico ad averla capita davvero. Le autrici ci presentano una donna dominata dalla noia, una bambina viziata in un corpo da femme fatale (quello di Élodie Young, diplomata alla London Academy of Music and Art, laureata in Legge a Parigi ed esperta di karate), bisognosa di essere stupita, ma soprattutto notata. Con Matt scatta immediatamente quell’alchimia da incontro iniziatico, in cui lei trova un uomo estremamente dotato ma altrettanto manipolabile (e di cui forse innamorarsi davvero), mentre lui scopre una donna con la quale non deve più fingere e che è in grado di tenergli testa sul suo campo da gioco, come dimostra la stupenda sequenza d’amore e lotta nella palestra del padre di Matt.

Order something fantastic.

È la parola “fantastic” a sancire il parallelo tra le due donne che popolano la vita di Matt Murdock: Elektra e Karen. Considerato quanto detto della prima, c’è da sottolineare come la seconda non sia certo da meno in quest’episodio, potendo contare da una parte su una caratterizzazione consolidata e dall’altra sul suo ruolo cruciale all’interno delle storyline che collegano il supereroe ai complessi intrighi di quartiere. A questo proposito il lavoro di Karen rappresenta forse la principale svolta narrativa dell’episodio perché collega la morte di Ben nella scorsa stagione, il ruolo del giornalismo – e in generale delle istituzioni – nel mantenimento dell’ordine a Hell’s Kitchen e la scoperta del passato di Frank Castle. Una volta ricevuto il testimone dal defunto mentore, Karen sta diventando a tutti gli effetti un’eroina, sulle orme di quel giornalismo di impegno che richiama in ogni suo atteggiamento. La sequenza in cui ricerca le origini della famiglia di Frank richiama molto da vicino quel cinema d’inchiesta che da Tutti gli uomini del presidente porta fino a Spotlight, dove la responsabilità e il rigore camminano a braccetto con l’ossessione; un percorso, quello di Karen, che, oltre a caricarla d’importanza sempre maggiore, ne accresce la sicurezza in se stessa anche in ambito extra-lavorativo, come emerge dall’appuntamento con Matt, dove sicuramente non è nascosto un reciproco imbarazzo figlio di sentimenti reali, ma in cui per la prima volta si assiste a un confronto paritario tra i due innamorati.

Do you think that’s what love is?

“Kinbaku” è un episodio tutto al femminile – anche per via delle autrici –, che ragiona attraverso l’analisi di due donne sia sull’evoluzione del carattere di Matt dal passato al presente, sia sulle attuali fragilità. Come interpretare altrimenti il ritorno dell’affascinante combattente subito dopo aver dichiarato i propri sentimenti a Karen? La scissione di Matt è palese perché, sebbene oggi il suo cuore sia molto più della bionda che della mora, è stata proprio Elektra a mostrargli per la prima volta il suo lato oscuro – quella parte di cui più si vergogna, la fonte principale del suo senso di colpa – e ad accettarlo così com’è. L’attaccamento di Matt però trae linfa e giustificazione da un fondamentale evento del passato: con l’irruzione a casa di Roscoe Sweeney, Elektra stuzzica il suo lato oscuro offrendogli la più importante vendetta della vita sul piatto d’argento, insieme alla sua immediata soddisfazione. L’imprevedibile milionaria risulta così narrativamente perfetta nel tessere un parallelo tra Matt Murdock e Frank Castle tutto basato sulla difficile dialettica tra vendetta e giustizia, mostrandoci un protagonista non ancora dominato da giustizia ed eroismo, ma (come Punisher) sedotto dalla vendetta e accecato dalla rabbia.

Uscendo per un attimo dalla dominante legata alle due donne, l’episodio ci spiega anche cosa si nasconde dietro alla stupenda inquadratura di Frank che fissa la giostra, arricchendo l’intero suo percorso di una profonda malinconia. Dal capo opposto del racconto Foggy Nelson rivede Marci – sempre simpaticissima – in una discussione al bar che funge da collante del Marvel Cinematic Universe connettendo la serie a Jessica Jones con due preziose informazioni: Marci ora lavora nello stesso studio legale di Jeryn Hogarth; le istituzioni di Hell’s Kitchen con a capo Reyes si stanno ponendo seriamente il problema dei vigilanti a seguito delle azioni di Jessica Jones, Punisher e Daredevil.

“Penny and Dime” è un episodio estremamente denso, capace di collegare tante storyline e al contempo di approfondire il personaggio di Punisher come meglio non si poteva. Merito del ritorno di conflitti e ambientazioni (come la passeggiata sotto la pioggia finale) tipicamente noir, legati a una rappresentazione di New York di scorsesiana memoria, dove violenza e religione, colpa e perdono sono legati in modo inscindibile. “Kinbaku” invece fin dal titolo richiama un particolare legame tra uomo e donna, alludendo all’amore visto come lotta e al dolore come forma di piacere. La stretta al collo di Elektra è ciò che porta Daredevil verso il lato oscuro, ciò che lo avvicina al Punitore e lo allontana dal vigilante che salva la città senza prendersene il merito (“to protect the Kitchen”), ovvero quel punto in cui si sovrappongono Daredevil e Batman. Elektra non è solo una tentazione mentale e sessuale, simbolo di trasgressione e rifiuto delle regole, di libertà e di un amore vissuto a briglie sciolte; ella rappresenta anche la prima donna capace di conoscerlo davvero, un’eroina a tinte chiaroscurali, che dietro alla maschera da milionaria viziata nasconde una persona fragile e innamorata.

Voto 2×04: 9
Voto 2×05: 8,5


*La pescarese naturalizzata canadese Floria Sigismondi, regista del quinto episodio, è una delle maggiori autrici di video musicali al mondo. Tra le sue opere consigliamo la visione di “The Stars (Are Out Tonight)” di David Bowie.
Daredevil – 2×06/07 Regrets Only & Semper Fidelis
Dopo una breve pausa in cui abbiamo scoperto il passato turbolento e problematico di Matt Murdock, il presente irrompe nuovamente sulla scena per ricordarci che il capitolo The Punisher, con tutte le questioni etiche che si trascina dietro, è ancora ben lontano dall’essere chiuso.

Con “Regrets Only” inzia, però, una nuova fase nello sviluppo della storyline, che andando ad intrecciarsi sapientemente con gli altri elementi del racconto, restituisce un quadro molto più complesso e stimolante del rapporto tra i vigilanti e la legge. In questa seconda stagione, infatti, gli autori sembrano voler puntare con sempre maggiore enfasi su una serie di problemi di carattere etico che gli altri prodotti del MCU hanno sempre trascurato di affrontare davvero e fino in fondo. Rispetto ai grandi blockbuster Marvel, di fatto Daredevil – come del resto la serie Netflix “sorella” Jessica Jones – è indubbiamente molto più interessata alle implicazioni etiche, e non soltanto pratiche, del comportamento dei supereroi. Non ci riferiamo semplicemente al confronto Daredevil-The Punisher, e dunque all’opportunità o meno di comportarsi da giustizieri con licenza di uccidere, ma piuttosto al rapporto tra queste figure e la legge dei tribunali o, ancora, le forze dell’ordine, senza tralasciare altri aspetti più strettamente legati ai rapporti interpersonali.

Il processo a Frank Castle è dunque l’occasione perfetta, nonché il simbolo più adatto, per discutere approfonditamente della questione, facendo emergere con forza l’ambiguità – e l’ipocrisia – della figura di Matt Murdock. Avvocato e vigilante: due identità inconciliabili, ma che tuttavia convivono nella stessa persona. Quale altro eroe dell’universo Marvel poteva farsi carico di questa “missione” narrativa? E quale strumento migliore di una serie tv, che per minutaggio e struttura permette di affrontare al meglio temi complessi e stratificati? La collaborazione Marvel-Netflix si è posta fin da subito degli obiettivi precisi e distinti da quelli del comparto cinematografico degli Studios, scegliendo di concentrarsi sul “piccolo” mondo narrativo di Hell’s Kitchen e di sviluppare in quel preciso contesto tematiche che le storie su vasta scala (e in 140') dei Vendicatori non potevano necessariamente coprire.

Nasce anche da qui la scelta di mettere il Diavolo Rosso con le spalle al muro, portando – o riportando – nella sua vita quelle figure che più di tutte lo (e ci) spingono a riflettere sul suo operato. L’introduzione di Elektra proprio in questo momento ha un duplice scopo: da un lato accentuare e sviluppare ulteriormente il dilemma etico che rappresenta, appunto, il collante della stagione, e dall’altro creare un elemento di disturbo nella nascente storia d’amore con Karen. Se quest’ultimo, unito al “will they, won’t they” fatto di frecciatine e tensione sessuale tra Matt e Elektra, è forse l’aspetto più stereotipato e trito del racconto, è pur vero che l’irruzione della femme fatale nella vita di Daredevil rappresenta qualcosa di più di un topos fine a se stesso. Interessante, a questo proposito, è lo scambio violento tra i due personaggi al termine di “Semper Fidelis”, che ci fornisce una chiave di lettura fondamentale per comprendere l’operazione degli autori. Intimidendo il testimone chiave per la traballante strategia processuale di Nelson e Murdock, Elektra non ha fatto altro che “seguire le regole” del Diavolo di Hell’s Kitchen: “Quello che non puoi ottenere di giorno, te lo prendi di notte con la forza” è, infatti, una descrizione piuttosto precisa del modus operandi del nostro eroe. Questo significa che tra loro non c’è poi una grande differenza e dunque, in un contesto del genere, cosa può davvero ritenersi legittimo e cosa no? Fino a che punto un vigilante ha il diritto di immischiarsi nella vita delle persone, sostituendosi alle forze dell’ordine e facendo uso di violenza e minacce senza alcun controllo? Che Daredevil sia o meno “a bad day away” dal diventare The Punisher, la sua posizione è fin dal principio eticamente molto scomoda.

A tale dilemma si aggiunge poi il confronto con Frank Castle, la cui figura si fa sempre più umana e fragile di episodio in episodio, in particolare agli occhi di Karen. I dialoghi tra i due sono forse un po’ troppo lunghi e non sempre incisivi, ma questo inedito rapporto di fiducia getta nuova luce sulla relazione con Matt e sull’opinione che la donna si è fatta del suo alter-ego, offrendo spunti interessanti a livello di caratterizzazione. Se anche una ragazza naturalmente buona e un po’ ingenua come Karen può spingersi non solo a giustificare ma anche a ritenere auspicabili le azioni di The Punisher, allora è chiaro che ci troviamo di fronte a una questione etica davvero articolata. Mettere in bocca proprio al suo personaggio considerazioni che potremmo aspettarci piuttosto da Elektra, e dunque il suo opposto, è una scelta senza dubbio significativa e portatrice di sviluppi potenzialmente molto intriganti.

Per quanto i personaggi femminili della serie risultino ancora piuttosto abbozzati e legati a dinamiche spesso stereotipate – pensiamo a tutto l’arco narrativo che coinvolge Elektra ma soprattutto alla sua personalità – non si può quindi negare che vengano inseriti in un progetto di più ampio respiro il quale potrebbe in effetti dare frutti davvero interessanti. Pur non essendo esattamente una serie di prestigio né rappresentando in realtà lo show rivoluzionario di cui tanto si è discusso, Daredevil ha comunque intrapreso un percorso impegnativo ed inedito che, almeno per il momento, sembra essere perfettamente in grado di gestire. Passata l’esaltazione per la novità rappresentata dalla prima stagione, oggi la serie continua quindi ad intrattenere, fidelizzare ed innovare anche sul piano dei contenuti, puntando su ciò che la rende diversa e tirandone fuori il meglio.

“Regrets Only” e “Semper Fidelis” sono due episodi di transizione di per sé non particolarmente avvincenti, ma nei quali si sviluppano dei temi fondamentali per il prosieguo della stagione e che rappresentano due tasselli molto importanti del mosaico Daredevil. La questione etico-morale, che finora era rimasta latente, scoppia nelle mani dei personaggi generando diversi conflitti, non ultimo quello tra Matt e Foggy, promettendo sviluppi allettanti.

Voto 2×06: 7½
Voto 2×07: 7½
Daredevil – Stagione 2 Episodi 8-10
Dopo un inizio di stagione, composto dai primi 4 episodi stratosferici incentrati sulla figura di The Punisher, Daredevil prosegue con una trama che si separa in due filoni narrativi paralleli ben distinti, caratterizzati grossomodo uno dalle vicende di Frank Castle e l’altro da quelle di Elektra, con “l’Uomo senza paura” a fare da ponte di collegamento fra queste due sponde.

Questa divisione nel racconto della stagione, se da un lato ne mina l’organicità e ne rappresenta una possibile debolezza dal punto di vista strutturale, dall’altra evidenzia con maggior forza ed efficacia le difficoltà di Matt Murdock, sempre più combattuto tra le sue due realtà, quella diurna e quella di vigilante.

Ancora più che nella prima stagione, gli autori mettono il Diavolo di Hell’s Kitchen di fronte all’enorme mole di problemi associati all’essere un alfiere nella lotta contro il crimine: in particolare, riuscire a combattere tale battaglia tenendo fede ai propri principi etici e morali, in una realtà che spesso non lascia spazio a mezze misure. Se il confronto con il Punitore verte sul dilemma morale di uccidere o meno i criminali, e su quanto possa essere più o meno efficace ai fini della sua personale crociata, l’arrivo di Elektra aggiunge una nuova componente che subito si intrecciata alla precedente: l’incompatibilità apparente fra le sue due identità, avvocato e vigilante, e, conseguentemente, l’incapacità di queste vite di coesistere armoniosamente, senza che l’una fagociti l’altra.

In questa triade di episodi diventa ancora più chiaro come, su molteplici livelli, la vita di Daredevil stia facendo a pezzi quella di Matt Murdock – in primis sul piano personale, dove si vede allargarsi ancora di più la frattura fra l’avvocato cieco, il suo miglior amico Foggy e l’amata Karen Page, oltre che sul piano professionale e morale. La missione del Diavolo Custode è per lui ormai diventata un imperativo morale a cui non può e non vuole più sottrarsi (la sua città ha bisogno di eroi, come sottolinea la sua arringa in tribunale in “Guilty as Sin”), assumendo così giorno dopo giorno un peso sempre meno sostenibile. Si tratta di un fardello che Matt si ostina a portare tutto da solo, non accettando i metodi poco ortodossi di Stick, di Elektra e del Punitore, e isolandosi gradualmente da tutti coloro a cui tiene, come evidenziato da Claire nel dialogo in “The Man in the Box”.

When I finally get out of this cage, I will dismantle the lives on the two amateurs that put me in here!

È una situazione che non deriva solo dall’aumento dei nemici o dei fronti su cui combattere, ma anche dal fatto che tante delle sue vittorie sembrano a poco a poco sgretolarsi, vanificando nel nulla ogni suo sacrificio. In questo senso risultano particolarmente esemplificativi i ritorni di due antichi nemici che l’eroe dava erroneamente per sconfitti: il redivivo Nobu e soprattutto il terribile Wilson Fisk, protagonisti dei due cliffhanger che chiudono rispettivamente il nono e l’ottavo episodio. Due presenze che stanno proprio lì a sottolineare quanto la crociata del Diavolo Custode in realtà non stia andando come aveva immaginato, ma che, anzi, la situazione potrebbe addirittura peggiorare.

Il confronto con Fisk in “The Man in the Box”, infatti, non solo ci mostra come in realtà l’influenza e la capacità corruttiva del boss sia ancora molto forte, ma anche che, al momento più opportuno, egli farà il suo ritorno in campo, se è possibile ancora più pericoloso di prima: Kingpin mette bene in chiaro che, appena uscirà di prigione, userà tutte le risorse e il potere in proprio possesso per scatenare il suo furore vendicativo su Matt Murdock e soprattutto sui suoi amici – in quello che sembra un tease per una terza stagione che potrebbe ispirarsi ad una delle storie più belle e dure di Daredevil, “Devil: Rinascita” di Frank Miller. L’incontro con Fisk distrugge in pochi secondi tutte le rimanenti certezze e convinzioni dell’avvocato, gettando ancora più dubbi sull’efficacia del suo modus operandi, già contestato da The Punisher nel terzo episodio (“You hit them and they get back up, I hit them and they stay down”).

“You know… next time I see you only one of us walks away”
“Yes, of course. I’m counting on it.”


Proprio Frank Castle è tra gli artefici dell’ascesa di Wilson Fisk a kingpin della prigione, con un “accordo” tra i due che ha del sorprendente, non solo per le figure coinvolte, ma soprattutto per il ritorno davvero inaspettato del personaggio interpretato da Vincent D’Onofrio – complimenti alla produzione che è riuscito a tenerlo segreto.

Diciamo subito che non tutto fila perfettamente a livello di scrittura nella “conquista” del carcere da parte dell’arcinemico di Daredevil: durante “Seven Minutes in Heaven”, prima viene detto a Fisk che ha fondi limitati, che si esauriscono nel momento in cui corrompe la guardia per recapitare il messaggio a Castle; poi però, appena dopo l’omicidio di Datton, egli dice di aver già raddoppiato – non si sa bene con quali soldi – le tangenti a tutti i secondini nel suo libro paga; a rendere i passaggi di questa vicenda ancora più irrealistici, confusi e forzati si aggiunge il fatto che il tutto si svolge nell’arco di solo 24 ore, evasione di Frank compresa.

Sebbene a tratti l’episodio metta a dura prova la sospensione dell’incredulità dello spettatore, il confronto fra Kingpin e il Punitore lascia ampiamente soddisfatti. Vincent D’Onofrio conferma con la sua gigantesca presenza fisica e scenica quanto sia perfetto nel ruolo di Wilson Fisk, mentre dall’altra parte Jon Bernthal non è da meno, dimostrando come il suo Punisher riesca a reggere, se non pareggiare, il carisma magnetico del villain. Il picco qualitativo di “Seven Minutes in Heaven” (se non di tutte e tre le puntate) viene toccato però nella scena d’azione che dà il nome all’episodio, ovvero l’orgia di violenza e di brutalità che vede protagonista il Punitore mentre massacra i prigionieri del blocco A. Una sequenza action come sempre di enorme fattura, che sembra quasi richiamare una celebre citazione fumettistica pronunciata da Rorschach, l’iconico vigilante di “Watchmen” di Alan Moore: “I’m not locked in here with you, you’re locked in here with ME”!

Del resto The Punisher ricorda molto Rorschach in alcuni tratti: entrambi uccidono i criminali, entrambi non ammettono indulgenza alcuna né perdono, entrambi non ritengono loro stessi dei malati di menti che devono essere aiutati (come urla l’ex-militare durante la sua testimonianza in tribunale). A Castle non interessa essere accettato o compatito, ma solo scatenare la sua furia vendicativa verso chi se lo merita: un’altra crociata che come quella di Daredevil non si fermerà mai, neanche, come osserva Datton, quando avrà finito di eliminare tutti i responsabili dell’omicidio della sua famiglia.

Proprio sul massacro dei Castle, queste tre puntate gettano un po’ di luce sul mistero dietro la loro morte, sia attraverso le rivelazioni di Datton, sia attraverso le indagini di Karen (anche lei sempre più ossessionata dalla ricerca della verità): emerge così il nome di un oscuro narcotrafficante, The Blacksmith, che importa eroina purissima dall’estremo oriente. Che sia un indizio di un possibile collegamento con l’altra grande minaccia della stagione, la Mano?

“You’re dead!” “There is no such thing.”

L’arrivo prima di Elektra e poi di Stick, in “Guilty as Sin”, portano all’interno della serie una componente sovrannaturale, che, seppur presente in minima parte l’anno scorso, ora sembra reclamare con forza la scena con l’avvento de la Mano. È un filone che stona un po’ con il tono realistico e le atmosfere urbane della serie, ma bisogna anche tener conto che Daredevil, essendo la prima costola facente parte del progetto The Defender, deve un po’ introdurre anche i temi e lo stile degli altri show (come Iron Fist ad esempio) e dare un assaggio della loro mitologia – del resto siamo pur parlando dello stesso universo cinematografico della Marvel, che lancerà prossimamente nelle sale Doctor Strange. Più che l’aspetto sovrannaturale in sé, il vero problema di questo arco narrativo è che appare decisamente meno interessante e curato rispetto alle restanti storyline di stampo più urbano.

La stessa Elektra, dopo i primi episodi sicuramente positivi, non sta godendo più di una scrittura molto solida: ne è un esempio quando in “Guilty as Sin” uccide a sangue freddo il ragazzo ninja mandato da la Mano davanti a Matt, pochissimi minuti dopo aver promesso a quest’ultimo che non avrebbe più commesso azioni del genere. La sensazione che si ha è che la caratterizzazione del personaggio interpretato dalla brava e affascinante Élodie Yung venga sacrificata spesso o per esigenza di trama, o per accentuare la crisi esistenziale di Murdock. Anche per quanto riguarda questa parte della trama, se la scrittura non sempre è perfetta, a tenere alto il livello ci pensa la regia che regala delle scene action molto suggestive, come l’inseguimento iniziale di “Guilty as Sin” o l’arrampicata dei ninja sulle pareti dell’ospedale che conclude “The Man in the Box”.

Così come successo anche nella prima stagione, Daredevil vede calare gradualmente, seppur di poco, il livello qualitativo della narrazione, mantenendo però elevato quello dell’interesse. Le imperfezioni, in particolare a livello di sceneggiatura, sono tuttavia compensate dall’eccezionalità del comparto tecnico, che conosce pochissime sbavature, e da un cast sempre all’altezza, che nella circostanza vede il ritorno di un maestoso Vincent D’Onofrio. In vista del finale restano però i dubbi sulla gestione delle due trame al momento troppo lontane tra loro, sia in termini di narrazione sia in quelli di attrattiva.

Voto 2×08 “Guilty as Sin”: 7
Voto 2×09 “Seven Minutes in Heaven”: 8
Voto 2×10 “The Man in the Box”: 7.5
Daredevil – Stagione 2 Episodi 11-13
Gli ultimi tre episodi di Daredevil chiudono una stagione piuttosto riuscita che, nonostante dei difetti innegabili, non fa rimpiangere il successo della prima annata e prepara un terreno fertilissimo per una eventuale terza stagione.

Ancora una volta l’incontro creativo e produttivo tra Netflix e la Marvel si dimostra particolarmente fortunato: questa terza prova (considerando la prima stagione di Daredevil e di Jessica Jones) rende evidente come questo sodalizio trovi la sua forza soprattutto nella resa scenica e nella capacità di tratteggiare degli ottimi personaggi, tutti dotati, anche quelli minori, di personalissimi tratti che li rendono indipendenti e non meri strumenti per mandare avanti la trama generale o la crescita del singolo protagonista. Se il successo della prima annata di Daredevil è dovuto principalmente all’ottima presenza scenica di Wilson Fisk e alla riuscita rappresentazione del Diavolo di Hell’s Kitchen, quest’anno grande merito del successo della serie giace nelle espressioni e nel volto di The Punisher, nonché nella grazia e cura di Elektra. In modo assolutamente differente i due nuovi ingressi nel cast non solo sono riusciti ad approfondire la personalità di Daredevil, che si riflette nelle differenze con loro, ma soprattutto hanno messo in scena caratteristiche personali in grado di renderli due personaggi profondamente interessanti da seguire, che se ne condividano o meno i metodi e le posizioni.

Beninteso, come vedremo più avanti questa stagione è tutt’altro che priva di difetti, soprattutto nella seconda parte della sua annata, ma la resa dei conti e la realizzazione di questi ultimi tre episodi risultano perfettamente in linea con le aspettative già alte che lo spettatore ha provato man mano che ci si inoltrava nelle vicende del Diavolo. Una seconda stagione costituita da due anime: la prima parte del racconto, infatti, si è concentrata molto più sui singoli casi umani, su quei due nuovi ingressi e sulle relazioni che hanno iniziato a legare tutti i personaggi principali tra di loro. Si è poi passati alle vicende che riguardano la Mano, la nemesi di Daredevil per quest’anno, e qui si è finito per zoppicare maggiormente. Quel che ci interessa in questo momento, però, è notare come Daredevil abbia cambiato la propria natura rispetto al primo anno, lasciando entrare – forse in previsione di futuri personaggi come Iron Fist – il sovrannaturale in un modo mai fatto prima d’ora. Perché se è certo che Jessica Jones ha dovuto interagire con i superpoteri, è anche vero che entrambe le serie sembravano finora accettare solamente l’idea di umani “superiori” (nonostante siano ambientate nello stesso universo di Thor, per dire). Con l’arrivo di profezie e resurrezioni, si passa con più decisione nel campo del metafisico e Daredevil riesce a farlo con abilità, senza scivolare nell’esagerato o palesemente fuori contesto.

Siamo alle prese con una seconda stagione che porta ancora più avanti il legame che esiste tra le due personalità di Matt Murdock: da un lato l’uomo insicuro, l’avvocato che si innamora della buona e dolce assistente; dall’altro il violento vigilante che non può resistere al fascino oscuro dell’assassina Elektra. Due anime che combatteranno tra loro fino alla fine, con l’ultimo episodio che vede Matt impegnato nella ricerca di un punto di incontro: tenendo fuori dalla sua vita tutti quelli che gli erano vicini, ha lasciato che a farla da padrone in questa “relazione” fosse proprio il lato più oscuro e violento. C’era bisogno del percorso di redenzione di Elektra per fargli capire che le due anime non sono necessariamente inconciliabili e che dev’essere disposto anche a condividere e chiedere aiuto (cosa che non aveva voluto fare con Foggy in tutto questo tempo). Matthew è quindi consapevole di cosa deve fare nella sua vita e gli è ben chiaro che non può continuare a percorrere quella strada che vuole trasformarlo in un martire per la sua città. Certo, tutto questo è avvenuto dopo un periodo di dubbio che lo ha portato a rovinare quel forte rapporto d’amicizia che lo legava dall’inizio della scorsa stagione con Foggy: la fine del trio, la cui nascita si era definitivamente affermata nell’epilogo della scorsa stagione, rappresenta molto bene i sacrifici che Matt ha dovuto e voluto compiere per tener fede alla sua missione.

Hell’s Kitchen è ancora, tutto sommato, la protagonista della serie: è il quartiere newyorkese (e per estensione l’intera città) ad essere l’anima pulsante, che respira e soffre ma che al contempo richiama e plasma i suoi eroi (e nemici). Questo vero e proprio corpo respira come una creatura vivente – al punto da ostacolare l’udito di Daredevil stesso – e come tale dev’essere protetto ed amato. Non sappiamo se Matt avrebbe davvero abbandonato la sua New York qualora Elektra fosse sopravvissuta, ma il dubbio ci lascia immaginare che forse non sarebbe mai riuscito davvero a separarsene, come già era chiaro da quella volontà di sacrificio religioso che lo aveva ben caratterizzato nel suo dialogo con The Punisher.

A proposito dei due nuovi ingressi, entrambi trovano in questi episodi la conclusione delle loro rispettive storyline. Per ciò che concerne The Punisher, è innegabile che il personaggio interpretato da Jon Bernthal sia stata la punta di diamante di questa stagione: non solo l’interpretazione è risultata davvero molto convincente, ma l’intera scrittura del personaggio non ha mai perso vigore, riuscendo a creare un esemplare umano estremamente sfaccettato il cui dolore traspira di continuo dalle sue parole e dai suoi sguardi. Peccato solo che la sua storia sembra essere terminata in maniera molto debole: che Blacksmith sia proprio il colonnello della squadra in cui ha servito sembra quasi una risoluzione sciatta e prevedibile. A prescindere da questo, però, l’uomo si mantiene fedele ai propri ideali e non rinuncia a farsi giustizia da solo nemmeno quando Karen prova a “ricattarlo” emotivamente: The Punisher non si tira indietro e così come Daredevil era ufficialmente nato nel finale della prima stagione, così vediamo questo affascinante antieroe indossare gli abiti con cui è noto in quest’altro finale. Non è detto affatto che questo personaggio possa reggere il peso di gestire un intero spin-off sulla sua figura, com’è stato da più parti suggerito, ma è certo che in una eventuale terza stagione sarebbe un ritorno piuttosto gradito anche perché il suo ultimo intervento in difesa di Daredevil sembra presupporre la volontà di proseguire la sua esperienza da vigilante, anche se si è liberato finalmente dall’urgenza della vendetta.

Non dissimile il successo per quanto riguarda Elektra, che invece diventa la protagonista della trama principale: è lei quel Black Sky che è destinato a guidare la Mano (e presumibilmente a fare molto di più). I flashback che si concentrano su di lei rendono molto chiaro perché la donna abbia un così forte desiderio di vendicarsi per il tradimento di Stick: l’uomo che sapeva perfettamente del suo ruolo nel grande schema futuro (che sia questa guerra la base per The Defenders?) l’ha abbandonata quando la giovane aveva più bisogno di lei. L’ha investita di una missione e poi l’ha lasciata in casa di sconosciuti passando ad allenare il prossimo ragazzino in difficoltà. Nel corso della stagione abbiamo visto Elektra subire e non controllare un innato istinto all’assassinio: solo la vicinanza con Matt e la sua salda convinzione che ogni vita valga la pena d’essere salvata hanno permesso anche per lei un percorso di espiazione che aveva probabilmente bisogno della morte per realizzarsi fino in fondo. C’è qualcosa di particolarmente riuscito nella scrittura di questo personaggio ed è la capacità di formare con Daredevil un duo straordinario da guardare (ed in questo aiuta l’evidente chimica tra gli attori). Anche Elektra, dunque, rappresenta una delle novità più riuscite di questa seconda stagione e la chiusura nell’urna sembra presupporre che le sue vicende siano soltanto cominciate.

Per quanto riguarda i personaggi ereditati dalla prima annata, le cose non vanno molto bene: dopo un inizio promettente, Foggy ha un ruolo del tutto marginale in questa seconda parte di annualità (serve solo a rendere ancora più esplicito il legame con Jessica Jones). Questa stagione per lui è stata tutta incentrata sulla fine del suo studio legale e la nuova offerta lavorativa, ma non ha saputo darci nulla di più di quel poco che aveva mostrato nei primi episodi. Va meglio con Karen, molto aiutata dalle sue vicende con Frank Castle: questo rapporto sembra possedere in sé, anche grazie al mistero che aleggia intorno al passato di Karen (e che speriamo verrà fuori il prossimo anno), delle ottime potenzialità umane e non necessariamente romantiche. Karen al momento appare, dopo la strage nel diner a cui ha assistito, ben decisa a condurre The Punisher su una via che non necessiti uccidere a sangue freddo. Per quanto riguarda il suo nuovo percorso lavorativo potrà essere in futuro un buon punto di partenza per nuove vicende, anche se c’è bisogno di un bel po’ di sospensione dell’incredulità per ritenere possibile che un giornale assuma una ragazza senza alcuna esperienza giornalistica così facilmente (tanto da darle un ufficio tutto suo) e farle scrivere articoli d’opinione.

Questa seconda stagione, come si è in parte notato, è tutt’altro che perfetta: anche se solitamente guardare gli episodi tutti insieme a breve distanza l’uno dall’altro può rendere l’esperienza particolarmente immersiva e far notare di meno alcune incongruenze o debolezze di trama, Daredevil non è riuscito del tutto a cancellare la sensazione che non ogni passaggio abbia funzionato a dovere. La trama che riguarda la Mano, infatti, assume talvolta i contorni foschi di un lavoro non definito: che cosa significa essere il Black Sky, ad esempio, o perché Elektra non poteva accettare il ruolo di leader e poi ordinare di non uccidere Stick e Daredevil? Che cosa comportava tutto questo per il suo personaggio? La sensazione che gli autori volevano infondere nello spettatore era che la scoperta del Black Sky fosse qualcosa di molto spaventoso, ma questo timore non può essere condiviso da chi segue la serie, dato che è rimasto totalmente all’oscuro di ogni reale implicazione. In più è ben evidente l’assenza di un nemico tangibile (e non è un caso che sotto questo profilo gli episodi migliori siano proprio quelli con Fisk, la cui grandezza non è stata affatto scalfita dall’arresto) in grado di coinvolgere il pubblico: Nobu non solo non è affascinante come il personaggio interpretato da D’Onofrio, ma soprattutto non ha nemmeno lontanamente la stessa profondità d’intenti che aveva l’altro. Questa seconda parte di stagione non riesce a mantenere il ritmo brillante con cui si era aperta l’annata e, pur risultando nettamente superiore alla media delle serie televisive del suo genere, lascia in bocca un sapore amaro di scommessa non del tutto vinta.

Si sta comunque parlando di una serie che ha mostrato dei momenti riuscitissimi ed anche in questi tre episodi non è da meno (molto bello è ad esempio il discorso tra The Punisher e Karen nel ristorante, oppure l’ultimo dialogo tra Elektra e Matt). Se c’è un livello in cui però Daredevil non perde il ritmo è sul profilo delle scene d’azione: anche se nessuna raggiunge l’epicità dello scontro in “New York’s Finest”, siamo alle prese con una serie di combattimenti fisici molto riusciti e coinvolgenti, grazie anche all’idea funzionale di inserire un esercito di ninja come avversari (con tanto di necessario percorso di Matt per riuscire a sentirli). Anche sotto questo profilo, dunque, nulla da eccepire: ce ne fossero di serie come Daredevil.

Voto 2×11: 8
Voto 2×12: 8-
Voto 2×13: 8/9
Voto Stagione 2: 8
Daredevil – Stagione 3
Nel 2015 il MCU approdava nel panorama seriale tramite la piattaforma Netflix e si annunciava con uno show diametralmente opposto, nei toni e nelle atmosfere, alla sua parte cinematografica: si parla della serie Daredevil, che ha spianato la strada alla copiosa produzione seriale targata Marvel, trovando terreno fertile nel sodalizio con il colosso dello streaming. Daredevil si è imposta immediatamente e non solo come gran prodotto di intrattenimento, risultando per questo ancora oggi una delle migliori serie ospitate da Netflix.

Questo è grazie ai grandi personaggi, i memorabili interpreti e le tematiche che prevaricano il genere supereroistico, giungendo a ragguardevoli vette artistiche e di storytelling; basti pensare al rapporto del protagonista con la sua religione, alla profondità con cui viene affrontato il tema della giustizia e senza dimenticare le magistrali sequenze di combattimento. L’ottobre del 2018 ha visto la cancellazione di due degli show che compongono il variegato mondo dell’MCU: Luke Cage (2016) e Iron Fist (2017). Sono poco chiare le ragioni di tale scelta, alcuni affermano che sia dovuta allo scarso gradimento del pubblico, altri sostengono sia in preparazione una serie sugli Heroes for Hire, alleanza tra i due protagonisti delle suddette, tratta dalle pagine dei fumetti. In questo clima di incertezze, ecco giungere la terza stagione del diavolo di Hell’s Kitchen. Il trailer aveva promesso molte cose: il ritorno alle atmosfere cupe delle prime stagioni e di Wilson Fisk, interpretato magistralmente da Vincent d’Onofrio (Law & Order: Criminal Intent), che avrebbe dovuto portare il vigilante Matt Murdock ad un approccio più estremo alla giustizia solitaria da lui amministrata. Tra le cancellazioni di serie profondamente legate a Daredevil e queste aspettative, il diavolo di Hell’s Kitchen sarà in grado di riemergere un’altra volta?

Come è già avvenuto proprio per Luke Cage e Iron Fist, una volta terminate le vicende del crossover The Defenders (2017), la serie si libera dagli obblighi narrativi che la interconnettono agli altri show e ritrova la propria dimensione. Daredevil non può che giovare grandemente del ritorno alla sua rotta, riallacciandosi alle atmosfere ed i personaggi che le appartengono. La trama è semplice: Wilson Fisk ha gradualmente ritrovato il suo potere in carcere, tramite la corruzione e la manipolazione delle istituzioni ed è riuscito a conquistarsi la libertà nel feroce tentativo di ricongiungersi con l’amore della sua vita, Vanessa. Il suo ostacolo è il redivivo Matt Murdock del sempre convincente Charlie Cox (Boardwalk Empire), vittima di una profonda crisi mistica dopo la sua presunta morte, che lo allontanerà dagli amici più cari, costringendolo su un sentiero oscuro, nella convinzione di essere da solo nella più importante battaglia contro la sua nemesi.

La storia che si dipana nei tredici episodi è una grande partita a scacchi tra Fisk e Matt. L’intreccio principale, per questo motivo, non possiede il ritmo dinamico a cui ci avevano abituato le precedenti stagioni; la stagnazione degli episodi centrali rende infatti difficile investire emotivamente nella costruzione di un climax soddisfacente, e questo nonostante la presenza dello spettacolare attentato alla redazione del New York Bulletin alla fine del sesto episodio, primo avvenimento importante della serie. La strada intrapresa è però sostenuta dalla ricchezza delle sottotrame riguardanti i personaggi che si muovono nella scacchiera di Hell’s Kitchen. Per citare due volti nuovi, troviamo Rahul “Ray” Nadeem, interpretato da un bravissimo Jay Ali, che da agente della F.B.I. si trova coinvolto suo malgrado nella corruzione del suo stesso dipartimento e attraversa un percorso di redenzione che culmina con il sacrificio. Specularmente, Ben Poindexter, il futuro villain tratto delle pagine della Marvel Bullseye, i cui panni sono presi da Wilson Bethel, è uno degli spunti più interessanti della stagione, dipingendo un personaggio spezzato tra il dovere ed un perverso volere, manipolato da Fisk, che lo recluta come braccio destro salvo poi ritrovarselo come un problema da risolvere quando il suo precario stato mentale lo rende una mina vagante sia per Kingpin che per Daredevil.

I percorsi dei due personaggi si incrociano più volte, ma, nel loro sviluppo, corrono paralleli: entrambi vengono dapprima mostrati in atti di totale abnegazione alla causa, si mostrano nemici di Fisk, ma si adoperano a proteggerlo per un bene superiore, trovandosi infine impreparati di fronte alle capacità manipolatorie dal boss del crimine, quasi persuasi inconsciamente di agire dalla parte del bene. I due agenti sono la perfetta dimostrazione di una delle tematiche affrontate dalla terza stagione dello show. Le prime due annate si concentravano sul problema della giustizia e di come esercitarla in un mondo dove nulla è sicuro e degno di fiducia se non gli affetti più cari; la terza invece è la perfetta sintesi di questo pensiero in una sola parola, “conseguenze”, che dà anche il titolo al settimo episodio della stagione.

In questo racconto corale, che ha avuto successo dove la seconda annata di Jessica Jones ha fallito, la pur colpevole stagnazione della trama principale è un escamotage per approfondire i personaggi e metterli di fronte alle scelte passate, alle loro storie che riemergono. Più di tutti è il personaggio di Karen Page, interpretata dalla sempre bravissima Deborah Ann Woll (True Blood), ad essere sotto i riflettori, con un episodio omonimo a lei dedicato dove viene svelata la sua storia. Grazie ad esso, molte delle sue decisioni, dei suoi comportamenti nel corso delle stagioni, acquistano una nuova luce (l’uccisione a sangue freddo di Weasley e la difesa disperata di Frank Castle); con Karen, Daredevil si imbarca, ed in parte ha successo, nell’ambizioso compito di raccontare una storia e far crescere un personaggio non solo durante più stagioni, ma lungo più serie diverse, obiettivo che non è stata raggiunto dall’MCU nella sua interezza con i suoi ben più blasonati supereroi.

Questa cura verso le trame individuali porta con sé gli usuali difetti delle serie targate Marvel. Alle volte, durante i pur sempre ispirati dialoghi, si rischia di cadere in un errore che ha pesantemente gravato anche sull’ultima stagione di Iron Fist: come avviene con Karen o Nadeem, lo show gioca un po’ troppo con le sue tematiche, portando i vari personaggi a raccontarsi troppo, rischiando di apparire didascalici, come a voler inserire a forza delle lezioni morali infarcite da dimenticabili aneddoti. Sono momenti artificiosi, ma sporadici, mentre lo sviluppo delle numerose storie si dipana in maniera soddisfacente e sfaccettata, svelando perché l’accettare le conseguenze sia così importante. Matt stesso lo dichiara a Karen nel dodicesimo episodio, “One Last Shot”, quando afferma (portando lo show su un nuovo livello di riflessione) che le persone sono definite non dagli errori di una vita, ma solo se accettano le conseguenze di questi: Karen viene a patti con il suo passato, Matt accetta finalmente la scelta degli amici di combattere al suo fianco, abbandonando la sua testardaggine nell’intraprendere una battaglia impossibile da solo, Nadeem accetta di sacrificarsi e verrà perciò ricordato come un eroe.

Se questo riunisce i “buoni” dello show, segna la caduta del potente Wilson Fisk, sempre interpretato da un magistrale d’Onofrio; il tentacolare potere del Kingpin, sebbene alle volte persino troppo grande per essere pienamente credibile, getta in una disperazione palpabile i personaggi, in particolare Matt e Ray. Il boss verrà infine sconfitto dalla sua stessa arroganza nella pretesa che nessun crimine compiuto per ricongiungerlo a Vanessa sarebbe rimasto impunito e che bastasse solo il suo amore per giustificare le sue terribili scelte e le vite che ha schiacciato.

Infine, uno dei punti di forza della terza stagione è la ragguardevole attenzione portata verso il simbolismo cristiano che riveste la figura di Matt Murdock. Prima fervente cattolico, si confronta con la perdita della sua amata Elektra e delle sue capacità extra-sensoriali, allontanando di conseguenza la fede in Dio, e al contempo è portato a rivestire i panni di un’improbabile figura messianica. Matt viene recuperato dalla madre dopo la sua presunta resurrezione, curato in una sorta di cripta; appare a Foggy e Karen, che lo credevano morto e, infine, assistiamo all’emozionante e potente scena della supplica in punto di morte di Padre Lanton, quando lo prega di perdonarlo per aver tenuto nascosta l’identità della madre. Un percorso di rinascita, dal punto più basso per il Daredevil, che non recupera la sua tuta, ma in compenso riconquista la fiducia nei suoi amici, in se stesso e la fede, come testimonia la scena che lo vede vegliare su Hell’s Kitchen, accovacciato ai piedi della croce della sua chiesa.

Un pregio che Daredevil non ha mai perso, inoltre, è l’essere da sempre un piacere per gli occhi. La trama è raccontata non solo dai suoi personaggi ma anche dalle inquadrature dal forte significato simbolico. Per nominarne alcune: la sopracitata scena della croce, Matt incapace di risalire le scale del sotterraneo della chiesa nei primi episodi, per poi scenderle nel finale dell’ultimo episodio ed il quadro bianco preferito di Fisk, simbolo della pace provata al fianco di Vanessa, insozzato dagli schizzi del sangue di Kingpin causati dalle percosse di Daredevil.

Anche i combattimenti non hanno perso il loro smalto; le sequenze di corpo a corpo sono sempre un momento fondamentale e non solo per l’intrattenimento: sono motivo per raccontare in maniera diversa i personaggi tramite le crude, avvincenti coreografie, che mostrano tanto lo struggimento di una battaglia, quanto la psicologia con cui i combattenti le affrontano, come nei memorabili scontri tra Matt e Poindexter, soprattutto la spettacolare tenzone nella chiesa in “Karen”.

Daredevil ha appena rallentato, in una stagione più introspettiva, ma non ha perso lo smalto che l’ha resa uno dei prodotti di punta della piattaforma Netflix, né la sua anima gotica è stata snaturata dai recenti crossover. La serie del diavolo di Hell’s Kitchen è solo nominalmente parte di un universo più grande, ma ad ogni stagione conferma e rivendica la sua identità come prodotto di pregevole fattura, portando sullo schermo storie e personaggi da sempre memorabili.

Voto: 8
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