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Fargo – 1×01 The Crocodile’s Dilemma
Nel passaggio dal grande al piccolo schermo, il progetto “Fargo” si è portato dietro fin dall’inizio altissime aspettative ma anche inevitabili dubbi, frutto di una rischiosissima operazione di remake. Dopo mesi di attesa, l’ultima parola spetta a questo pilot.

Se c’è un pregio che questo episodio ha e che subito rassicura sulla buona riuscita (almeno nelle premesse) dell’intero progetto, è che, a tutti gli effetti, sembra di vedere Fargo senza, però, vedere Fargo.

It’s a red tide, Lester, this life of ours.

Joel e Ethan Coen sono presenti non solo in quanto produttori esecutivi, ma fuoriescono da ogni fotogramma, da ogni inquadratura e personaggio, nelle atmosfere e nelle tematiche che lo showrunner Noah Howley (romanziere con della gavetta trascorsa nel team creativo di Bones) ha portato sullo schermo. Riprendendo basi e struttura dell’originale, lo sceneggiatore se ne è però anche distanziato in maniera intelligente per creare qualcosa di totalmente nuovo, in grado di camminare sulle proprie gambe nonostante la pesante eredità sulle spalle, e di essere giudicato come prodotto a sé stante, senza ricorrere necessariamente a scomodi paragoni con la sua “fonte”.
 
L’uomo comune schiacciato da se stesso, dall’universo che lo circonda e, soprattutto, dal Fato nichilista, torna sul piccolo schermo non più nei panni di William H. Macy, ma in quelli di Martin Freeman, bravissimo nel percorrere tic e insicurezze nella gestualità del suo Lester Nygaard. Il male (ma sarebbe meglio dire il Caos) si insinua lentamente nelle vite mediocri di una tranquilla provincia del Minnesota: non viene cercato dal protagonista, come accadeva con la coppia di criminali nel film del 1996, ma piomba in città sotto le sembianze di Lorne Malvo, un Billy Bob Thornton altrettanto bravo nel saper caratterizzare il proprio personaggio, con un’espressività semi-seria che per certi versi lo allontana dal glaciale ritratto che Javier Bardem aveva offerto in un ruolo simile e altrettanto cult in Non è un paese per vecchi.

Your problem is you spent your whole life thinking there are rules. There aren’t. We used to be gorillas.

The Crocodile’s Dilemma è un episodio che parte lento, molto lento, lasciandoci scivolare nella grigia quotidianità di questo paese, dipinto con volti al limite del caricaturale, in sospeso tra il surreale e l’assurdo, incentrato su piccole e patetiche situazioni che mettono in luce il vuoto di un mondo materiale che passa per lavatrici nuove, impianti audio all’ultima moda, tinteggiature per pareti e virili armi da combattimento nascoste nello scantinato. È un universo tipicamente coeniano, che però Howley riesce a sviluppare evitando il rischio “copia sbiadita”, nonostante la compassata regia e il montaggio dilatato ricalchino perfettamente lo stile dei due fratelli americani.
 
È un mondo ipocrita, fintamente governato da regole, morali e perbenismo, ma dove la violenza, la sopraffazione e la meschinità si insinuano silenziosamente nelle pieghe di ogni diverbio quotidiano. È un universo quasi distopico nella sua disumanizzata rappresentazione, una società soffocante di costrizione e sottomissione per chi non è in grado di cavalcarla; per chi, alla fine, non ha altre armi che sorprendere quelle stesse sovrastrutture abbattendole con una più umana e rabbiosa primitività. Ed ecco che il ritmo blando dell’inizio si fa via via più serrato, nonostante gli ultimi 20 minuti siano occupati per tre quarti dall’unico setting della casa di Lester, dove l’iniziazione del protagonista ha luogo in tutta la sua esplosiva efferatezza.

Because some roads you shouldn’t go down. Because maps used to say, “there be dragons here.” Now they don’t. But that don’t mean the dragons aren’t there.

Il Dilemma del Coccodrillo è una delle tante elaborazioni del cosiddetto Paradosso del Mentitore: un coccodrillo ghermisce un bambino e promette di restituirlo alla madre in caso lei riesca a indovinare se lui ha intenzione di mangiare l’infante oppure no. Qualsiasi cosa la madre risponda, si verrebbe a creare un paradosso irrisolvibile, senza soluzione. È anche questa una forma di caos che emerge nella logica, una macchia nel processo razionale e matematico che si annida sotto ogni rigida struttura. E nonostante sia attraverso una serie di razionali sillogismi che, nella sequenza in ospedale, Lorne arriva alla naturale conclusione del discorso su Sam Hess (“This is a man who doesn’t deserve to draw breath“), ciò non fa altro che mettere in scena, invece, il paradosso di Lester: voler vedere morto il suo ex-compagno di scuola senza però volerlo uccidere. Non c’è una risposta, non c’è un sì e un no, ma solo un magma indefinito che Billy Bob Thorton sa gestire alla perfezione e che invece in Lester esplode poco dopo in tutta la sua irrazionalità.

Lester, have you been a bad boy?

Fargo si dimostra essere dunque un prodotto pensato con grande intelligenza, come ormai dimostra la sempre più ricca offerta di FX, che dopo Sons of Anarchy, American Horror Story (scivolone della terza stagione escluso), Archer, Justified e The Americans (passando per il mai dimenticato The Shield), mette a segno un altro grande colpo, con l’unico rischio che questo suo prodotto possa venire eclissato in quanto a popolarità dall’altra grande serie antologica dell’anno e dalla più potente (mediaticamente) HBO.
Per ora, l’unico pericolo è che Fargo ripercorra in maniera troppo marcata la tematica del loser che trova la sua rivalsa rispetto al resto del mondo in maniera anti-convenzionale (il poster del pesce rosso che rema contro il resto dei suoi simili è lì appeso come una dichiarazione d’intenti), percorso che ha un ancora troppo fresco ed illustre precedente nel Walter White di Breaking Bad (serie tra l’altro caratterizzata da un simile aspetto surreale).

A parte questo, non possiamo che annoverare questo episodio tra i migliori pilot dell’anno, che in poco più di un’ora scalza via subito i più critici pronti subito a dire: “Eh sì, ma il film era un’altra cosa“.
Sì, il film era un’altra cosa. Meglio di questo non potevamo chiedere.

Voto: 9
Fargo – 2×01 Waiting for Dutch
La prima stagione di Fargo è stata, per molti, una delle più grandi sorprese della televisione recente, una scommessa che sembrava persa in partenza e che ha, invece, ridefinito il concetto di adattamento televisivo di un prodotto cinematografico. Eppure Noah Hawley non era ancora soddisfatto, e con questa premiere punta di nuovo al rialzo, superandosi per l’ennesima volta.

Quest’anno la serie partiva infatti da un altro rischio, quello della natura antologica della serie, vista con diffidenza da alcuni a causa, in particolare, della discussa seconda annata dell’altro grande show che ha messo in atto questa scelta. Se bisogna (anche se, per ovvi motivi, non si dovrebbe) paragonare le due partenze, tuttavia, è facile, molto facile che il giudizio penda verso una sola parte, perché “Waiting for Dutch” è un episodio così travolgente e ben costruito che tutti i dubbi non possono che svanire, scacciati da quella che è l’anima unica ed incredibilmente affascinante della serie.

That’s like Jupiter telling Pluto “Hey, you’re a planet, too”.

Quello che aveva funzionato nella trasposizione di Fargo non erano tanto le differenze che avevano portato la serie lontano dal film originario, quanto i punti di contatto che le tematiche e lo stile della creatura di Hawley continuavano a mantenere con il capolavoro dei Coen. Perché, fin dall’inizio, ci si accorge che quello che gli autori sono riusciti a cogliere è lo spirito che permea ogni singola opera dei fratelli americani, quella continuità di situazioni ed atmosfere che viene mantenuta anche in questa premiere, una vera e propria dichiarazione di intenti per quanto riguarda il futuro della stagione. Dopotutto, la costruzione di una trama del tutto originale avrebbe potuto mostrare delle falle, ma i primi minuti pensano subito a gettare lo spettatore nella più coeniana delle situazioni, con tre personaggi già iconici e difficili da dimenticare, grazie anche alla (ma ci siamo abituati) ottima qualità nella scrittura dei dialoghi.
Ed è sempre sull’assurdità ed il coraggio della serie che si basa la prima metà di questa premiere, capace di presentare, caratterizzare ed eliminare un personaggio nell’arco di venti minuti: la vicenda di Rye, in fondo, non è altro che il motore di quello che sembra essere un disastro di proporzioni epiche, ma la scrittura di Hawley sceglie di privilegiare lo stesso l’approfondimento e l’introspezione, dando alla strage nel diner un senso più compiuto.

In questo modo, l’umanità conferita all’autore del triplice omicidio riesce a compensare la freddezza e la follia del mondo che lo circonda, un universo che, in maniera ancor più esagerata rispetto all’anno scorso, agisce secondo regole del tutto irrazionali. Ed è su questa impronta quasi fatalista che si sceglie di porre fine alla vita di Rye, attraverso una modalità che, nella sua assurdità voluta e sottolineata, non può che sconvolgere la prospettiva dello spettatore. L’UFO che causa l’incidente fatale, in questo senso, si inserisce nella decisione di coprire, con questa stagione, uno spettro più ampio, che va da Ronald Reagan (presente solo off-screen per ora) alla lotta tra le grandi imprese e quelle locali.
Morton’s Fork” si chiudeva con l’immagine idilliaca del nucleo familiare, luogo per eccellenza in cui ritrovare se stessi; in questo caso tale condizione viene minacciata seriamente, ponendo le basi per un conflitto sicuramente non banale, perlomeno nelle modalità in cui si sceglie di affrontarlo.

Ma c’è un tema che, ancor più di quello già citato, ricorre in questa premiere, e si tratta di nientemeno che la rielaborazione ed evoluzione di un conflitto già presentato nella scorsa annata: quello tra la normalità e la violenza, tra l’innocenza e la morte, tra – in termini più classici – il bene e il male. Il motivo per cui il Minnesota funziona così bene per gli intenti degli autori sta nel fatto che il sangue risalta perfettamente sulla neve, nello stesso modo in cui il caos si abbatte sulle più comuni delle situazioni. Ed è su questo che si basa principalmente Fargo, ricordandolo spesso allo spettatore con delle scelte registiche ben definite, tra cui il sangue che contamina il bianco del milkshake versato, o l’uniforme del cuoco ucciso, o, ancora, il ghiaccio su cui giace la cameriera che tenta di fuggire. Basta poco per gettare la più comune delle situazioni nel disastro più totale, e la scansione dei tre omicidi attraverso lo sbattere della porta aiuta a capire come in pochi attimi tutto possa essere sconvolto da una forza superiore. Il compito di Solverson starà, appunto, nel contenere questa fuoriuscita, nel ridare un senso alla parola “normalità”, destinata a rimanere incrinata per un lungo periodo di tempo – e la prima stagione non può che sottolinearlo.

Si parte, quindi, da un’impostazione chiaramente più pessimista, visti gli avvenimenti già mostrati nel futuro, e la situazione iniziale dello sceriffo Solverson non può che confermare tale sensazione: la sopracitata purezza del nucleo familiare è subito incrinata dalla malattia della moglie, una punizione senza senso, un fardello non meritato. L’evoluzione della stagione si preannuncia sicuramente più oscura ed ambigua dell’anno scorso, e, se la sopravvivenza di Lou è data per certa, il prezzo a cui questa verrà ottenuta potrebbe essere immensamente doloroso, e non ci si riferisce solo al futuro decesso di Betsy: la spiegazione che lo sceriffo ha per ora dato al triplo omicidio rientra nella razionalità e nella normalità, ma cosa succederà quando la follia degli eventi accaduti sarà impossibile da ignorare? E cosa accadrà quando, inevitabilmente, il suo percorso si intreccerà con quello della famiglia Gerhardt, destinata ad attrarre il caos su di sé?
Rientra in questo discorso anche la questione dei coniugi Blomquist, il cui coinvolgimento non può che provocare una totale rottura dell’equilibrio quotidiano e familiare. In questo caso, tuttavia, la situazione nasconde dei risvolti più ambigui, e al carattere volutamente esagerato del personaggio di Jesse Plemons (“Okay then”) si contrappone quello più perverso della moglie, incarnazione perfetta sempre di quella follia che si nasconde all’interno di ogni individuo e che ha causato (o, se vogliamo, causerà) la rovina di Lester Nygaard.

Ah, geez.

È davvero difficile riassumere questa premiere di Fargo: tralasciando l’indubbia efficacia e potenza espressiva del nuovo racconto, infatti, ci si trova davanti ad un prodotto più ambizioso, più esteso e, per questo, più stratificato di quello messo in scena l’anno scorso. Si tratta di una situazione di partenza che su carta era difficile da immaginare, ma la grandezza di questo “Waiting for Dutch” sta nella capacità di regia e scrittura di gestire perfettamente tutte le pedine del gioco, costruendo un quadro generale dalle potenzialità immense. Il finale dell’episodio, poi, lascia intendere che ci sia ancora moltissimo da dire: fatto sta che, al momento, i rischi insiti nelle scelte di quest’annata sono stati evitati con successo, confermando come la fiducia a Noah Hawley sia qualcosa di facile da concedere. Soprattutto ora, dato che il paragone col film non ha più il minimo senso di esistere.

Voto: 8/9
Fargo – 2×02 Before the Law
In un baleno, dopo solo due puntate, siamo già totalmente circondati dal racconto, siamo già avvolti dal mondo di Fargo a trecentosessanta gradi. Tornano le famiglie, le rivalità, gli alberi genealogici di piccoli gangster e di poliziotti, ai quali si aggiunge un’umanità come sempre in balia di una natura mai benevola.

Fargo, come True Detective e American Horror Story, è una serie antologica, con stagioni quindi simili a miniserie. A differenza delle prime due però non si tratta esattamente di archi narrativi indipendenti, ma i rimandi tra i diversi racconti sono di varia natura, sicuramente di tipo narrativo ma anche di tipo iconico, concettuale, estetico. Uno dei principali punti di interesse di questa seconda stagione è la nuova condizione all’interno nell’universo narrativo: a differenza della scorsa annata, in questo caso ci sono ben due referenti, la prima stagione e il film. Questa nuova storia, sebbene solo all’inizio, sta dimostrando di voler legarsi neanche troppo sottilmente a entrambe le opere, in particolare costruendo ponti con il film: da quest’ultimo trattiene il discorso sulla verosimiglianza del racconto, il rapporto conflittuale tra ciò che viene mostrato e le scelte registiche e musicali che vengono operate, ma soprattutto una serie di figure decisamente caratterizzanti come il tritacarne, oppure il gangster scavezzacollo e esuberante che nel film era incarnato da Steve Buscemi, non a caso molto somigliante (nei capelli, nella postura, nella parlantina, nell’irruenza) a Rye Gerhardt.

Is this why our once-great nation is going down the crapper?

Dopo questo episodio la serie trova una dimensione decisamente più chiara, assestandosi su tre storyline principali, tutte intrecciate e destinate a esserlo sempre più. Partiamo da quella che vede coinvolti Ed e Peggy, due persone comuni a dirla tutta, esattamente come Lester nella prima stagione o come Jerry nel film. Due soggetti che di fronte all’occasione di passare dall’altra parte della legge dimostrano quanto può essere facile farlo, senza alcuna resistenza, ma solo grazie a movimenti inerziali. La coppia è assortita alla perfezione, con Jesse Plemmons e Kirsten Dunst ingrassati per l’occasione – il primo soprattutto ha subito una trasformazione impressionante come ci dimostra la scena del camino –, perfettamente in parte e in grado di comunicare quella banalità del Male che da sempre ha caratterizzato il concept nato dal film dei Coen. Nonostante le loro intenzioni di ripulire scena del crimine e coscienza, il sangue in Fargo non va via (e le macchie sui vestiti e sugli oggetti lo ricordano in modo incontrovertibile), bensì schizza in ogni dove, concretamente e metaforicamente, portandosi dietro a volte anche pezzi di carne. A questo proposito, sarà difficile da dimenticare la scena nel finale che mostra l’incontro tra Ed e Lou – anche questo frutto del caso – tutta giocata sulla suspense incendiata dalle dita mozzate dal cadavere di Rye. A un certo punto arriva la svolta: Ed trova la forza, trova la fiducia per prendere in mano il proprio destino e abbracciare il lato oscuro, tanto da portare a casa il risultato e non farsi scoprire dal poliziotto grazie a una nuova sicurezza in se stesso.

Isn’t that a minor miracle, the state of the world today, the level of conflict and understanding, that two men could stand on a lonely road in winter and talk calmly and rationally, while all around them, people are losing their mind?

Passiamo a un’altra figura ormai tipica del mondo costruito da Fargo, i criminali. Mai gangster di alto profilo, ma personaggi spesso autoironici, a volte mediocri, pieni di problemi e spinti da un’ostinazione senza precedenti. Da una parte abbiamo la più classica delle famiglie criminali, non però legata a grandi traffici ma a piccoli giri locali; un gruppo il cui equilibrio si è rotto con l’ictus del patriarca tanto da far emergere la rivalità tra la moglie Floyd e il primogenito Dodd, espediente perfetto per lavorare su due caratteri sin da subito di grande interesse. Se quest’ultimo rappresenta il tipico figlio privilegiato, erede di un regno costruito da altri, ma non privo di una spiccata componente umana, la donna è una figura originalissima e potenzialmente di grande impatto per il racconto. Floyd è infatti una persona fortissima, capace di trattare i figli come se stesse facendo affari e annichilirli con la sua straordinaria intelligenza – che però non la rende priva di sensibilità, come dimostrano gli abbracci teneri e sinceri al marito in difficoltà. Dall’altra parte c’è il gruppo di Kansas City, di cui in quest’episodio conosciamo Mike Milligan e i gemelli che lo accompagnano. Questi ultimi rappresentano la componente più ironica della puntata, in continuità con altri personaggi della scorsa stagione, mentre il primo è senza dubbio il mattatore dell’episodio. Grazie anche alla straordinaria interpretazione di Bokeem Woobine, Mike è il diretto erede di Lorne Malvo, una sorta di personificazione del Male in un corpo estremamente affascinante, capace di coniugare la freddezza e la calma del Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi e l’abilità retorica dei villain tarantiniani.

As soon as this crisis is over, I’ll hand you your legacy, and I’ll turn my thoughts to the grave.

L’ultima storyline, nonché quella più strettamente legata alla prima stagione, è quella che vede al centro le vicende della famiglia Solverson. In quest’episodio abbiamo praticamente un gruppo di quattro detective: Lou, ovviamente; l’anziano Hank, uomo d’altri tempi alle prese con un mondo e un’idea di violenza lontanissima da quella con cui è cresciuto; e infine le due donne, Betsy e la piccola Molly, le quali in un modo o nell’altro aiutano Lou a fare un decisivo passo avanti nella detection, rimandando per quanto riguarda la figlia in maniera simpatica e autoriflessiva al suo futuro lavorativo in cui, come sappiamo, dimostrerà di non aver certo perso l’intuito. Salvo clamorosi cambi nella struttura portante del racconto, sappiamo che Lou e Molly sopravviveranno a una stagione che si preannuncia particolarmente sanguinosa, ma per quanto riguarda Hank siamo fin da subito terribilmente preoccupati. Diciamolo chiaramente: si tratta del più classico dei martiri, degli agnelli sacrificali simbolo di un mondo che non c’è più e della difficoltà di adattarsi a un altro quasi totalmente incomprensibile, fatto di logiche senza senso, paradossi continui e terrore diffuso anche nelle piccole cose.

I think history’s proven people of the dramatic persuasion don’t surrender easy, but you can kill ‘em.

“Before the Law” è la prima regia di Noah Hawley, creatore e showrunner della serie, colui a cui è affidata la pesantissima responsabilità di resuscitare il film dei Coen e moltiplicarlo attraverso il mezzo televisivo. Il doppio ruolo di regista e sceneggiatore rende quest’episodio, della durata di quasi un’ora, più compatto e forse più potente del precedente, ricco di scelte originali, come ad esempio un uso sistematico dello split screen. Questa tecnica di montaggio, sebbene fosse già presente nella premiere, è usata in quest’occasione in modo più diffuso, cercando di dare un senso alle associazioni di sequenze che si dividono le due parti dello schermo dipartito. A questo si aggiunge la costruzione di due montaggi musicali, di cui il primo ha, esattamente come lo split screen, il compito di raccordare le maglie del racconto e comprimere la coralità all’interno di un contenitore semantico comune; il secondo invece, dedicato alla “pulizia” di Ed, rappresenta quel connubio perfetto tra sarcasmo e dramma che dalla filmografia dei Coen è arrivato in televisione, presentando il personaggio come l’ennesimo uomo ridicolo alle prese con le disavventure di una vita che lo sovrasta ogni giorno di più. Ciò che Hawley trascina dal film e in generale dall’intera opera dei fratelli Coen è l’amore incondizionato per la parabola, per il racconto dal passato, che ancora una volta in quest’episodio viene reiterato numerose volte, fino quasi a porsi come una sorta di commento alla trama. Infine Hawley ci immerge in un testo impregnato di tanto cinema, facendo incontrare il gangster di provincia a stelle e strisce, il cinema indipendente degli anni Settanta e la Blaxploitation.

Well, you know, how a lobster’s got a pincher claw and a crusher claw? Which one’s which?

Arriviamo infine al cuore di Fargo, al concetto che dal film ha attraversato la prima stagione e approda a questa: l’etica. Crocevia della morte dei Coen iniziava proprio con un discorso sull’etica e Fargo contiene al proprio interno una riflessione sulla legittimità delle azioni umane dove, attraverso un racconto mai banale, emergono alcuni personaggi come la McDormand del film e la Tolman della prima stagione che, incarnando un’idea di etica cara ai due autori, riescono a sopravvivere e in certi casi a dominare il caos in cui sono immersi. Per certi versi, seppur con dei personaggi che si avvicinano come Mike Milligan, Fargo è la risposta al cinema di Tarantino, ovvero una storia altrettanto contemporanea, altrettanto intrisa di postmoderno e violenza, ma governata da un’etica ferrea e da personaggi che, nonostante la loro natura lontanissima da concetto di eroismo, riescono a governare l’irrazionale fluire del mondo. Questo tipo di approccio trova origine in una profonda riflessione sull’America e in particolare sulla provincia statunitense, quel mondo lontano da lauree e cattedre, da titoli ed etichette, ma legatissimo a una forma di civiltà empirica, fatta di conoscenze che si tramandano di padre in figlio e racconti popolari, aneddoti che passano dal reale al fantastico senza soluzione di continuità, come quello delle aragoste o delle ostriche.

Arrivata al secondo episodio questa stagione di Fargo ha già costruito un mondo perfetto, stratificato in ogni sua componente, dai personaggi agli ambienti, grazie anche a una regia che non sbaglia una scelta e che dimostra di poter lavorare con grande consapevolezza anche su un crinale metaforicamente così potente ma anche così scivoloso come quello degli alieni. Questi ultimi non sono altro che l’incarnazione di quella paura dell’ignoto, quel senso di apocalisse che dominava anche A Serious Man; sono la rappresentazione di occhi esterni che riducono l’immensità del mondo a un piccolo recinto fatto di patetici e mediocri giochi di ruolo dove ogni essere umano è molto più banale di quel che in realtà potrebbe sembrare.

Voto: 9
Fargo – 2×03 The Myth of Sisyphus
Il mondo di Fargo è un piccolo concentrato di anti-eroi grotteschi, cioè di personaggi senza doti o particolari talenti, così normali e ordinari da essere, per questa stessa ragione, sostanzialmente eccezionali e fuori da ogni regola. Visto così, non potrebbe esserci mondo più difficile da dipingere, ma è questo che distingue uno show qualsiasi da una grande serie: non far trasparire nessuna difficoltà.

Il mito di Sisifo, che dà il titolo all’episodio, racconta di quest’uomo, re di Corinto, tanto saggio e intelligente quanto profondamente spavaldo: egli sfida apertamente gli dei fino a rendere prigioniera la morte stessa. La parte di mito popolarmente conosciuta riguarda soprattutto la punizione che il dio Hermes gli infligge una volta morto, cioè trascinare su di un monte un grande masso, che rotolerà tornando al punto di partenza durante la notte; per questo Sisifo dovrà compiere la stessa azione ogni giorno per il resto dell’eternità. La chiave di lettura che lega l’episodio di Fargo alle vicissitudini del sovrano punito è l’insito concetto di “sopportazione” della vita e il paradosso della realtà verso l’esistenza, riflessioni che il filosofo e scrittore francese Albert Camus ha compiuto nel saggio “Le mythe de Sisyphe. Essai sur l’absurde”. Al di là delle difficili implicazioni dell’esistenzialismo novecentesco, il punto focale sta nella conclusione che ne dà Camus, per il quale la vita è paradossalmente invivibile in quanto tale, senza cioè una ragione che le dia un senso, senza una direzione.

In questo terzo capitolo di stagione si consolida, non a caso, il legame tra Luverne, Minnesota, e Fargo, North Dakota, come a voler sottolineare che probabilmente quel percorso di senso o ragione si concretizzerà per molti proprio lungo – e a causa di – quella strada. E, a margine, è impossibile non notare come anche il nostro legame con i nuovi personaggi sia molto più diretto e spontaneo rispetto ai primi episodi della scorsa stagione.

Il crocevia di vite, inaugurato da pochissimo, ha infatti trovato già una sua struttura compiuta, dipingendo diversi tipi di quotidianità che stanno irrimediabilmente mutando aspetto; anche se per motivi diversi tra loro, ciascuno dei protagonisti sta provando a normalizzare le alterazioni subite, cioè i fardelli che vanno comunque trascinati. E il primo riguarda l’agente Lou che convive, ormai già da qualche tempo, con la malattia di Betsy, ovvero la sua personale rassegnazione, e che rende la loro pacata vita contemporaneamente triste e straordinaria, esattamente come è tout court l’atmosfera della serie: stranamente normale, ma silenziosamente fuori dall’ordinario. Questa volta Lou esce appunto dai confini del Minnesota e si mette in marcia lungo la strada che lo porta a Fargo per fare la conoscenza degli strani personaggi che la popolano e scontrandosi poi direttamente con il cuore pulsante della città: i Gerhardt. Il loro incontro rappresenta sicuramente lo snodo fondamentale della stagione, perché sarà anche una delle maggiori battaglie che segnerà la vita di Lou. In un certo senso, è come se Fargo rivisitasse il pensiero classico di sopportazione della vita: se finora ha messo in scena l’impossibilità della regolarità dell’esistenza, ora ne segue una sorta di rovesciamento.

Lou pensava magari che avrebbe vissuto una vita felice con Betsy e Molly; Doddy era convinto che avrebbe preso il posto di suo padre Otto e continuato a dettare legge a Fargo. Per i Gerhardt c’è forse la sorpresa maggiore, cioè l’invasione da parte di due nemici da due fronti diversi: un criminale ben più organizzato e implacabile da un lato, un poliziotto convinto di voler fare il suo vero mestiere, nonostante le minacce, dall’altra. Qualcosa ci dice che per la famiglia le ore siano contate, ma basta guardare la fine che fa il povero Skip in chiusura di episodio per rendersi conto che la resa non sarà così pacifica.

Chi più di tutti deve però cercare di tornare alla vita casalinga, piatta e senza scossoni, è la strampalata coppia formata da Ed e Peggy Blumquist. Loro sono anche quelli che meglio incarnano la cifra stilistica non solo di Fargo (serie o film nello specifico), ma dell’intera cinematografia dei fratelli Cohen – basti solo citare “A Serious Man”. In fondo, l’intento che sostiene l’intero progetto sia dei registi che dei creatori della serie è, come si accennava prima, una sorta di distruzione della pedissequa sopportazione della vita. Sia Lester Nygaard, che Lou o Ed possiedono il macigno di Sisifo che rotola sempre giù dalla montagna: per uno era la congenita inadeguatezza nel mondo, per il secondo la paura del futuro e per l’ultimo la mancanza di coraggio nel prendere ciò che desidera. Ma per tutti il fardello più grande che si trascinano davanti è la paura di agire, di fare, di affrontare gli altri e se stessi. In modi diversi, sono personaggi che raccontano un’immobilità ingenua sul loro presente, tanto da risultare agli occhi del mondo altrettanto ingenui, maldestri, ridicoli e di cui si potrebbe facilmente approfittare. Poi però quello che vivono, o che malauguratamente si ritrovano a vivere, è costituito invece da situazioni in cui devono armarsi di coraggio, ma che su di loro (e su di noi che li guardiamo agire) prende una strana forma, che produce quell’effetto di brillante grottesco difficile da trovare altrove.

Nei protagonisti principali di Fargo non esiste insomma la volontà, perché ciò che guida è invece la conseguenza: Lou affronta i cattivi in quanto poliziotto, Ed fa a pezzi un uomo e crea un secondo incidente solo a causa di Peggy, Doddy e i suoi combattono battaglie sia intestine che esterne alle famiglia perché sono altri ad attaccarli. La saggezza di Sisifo gli costava la punizione eterna, ma al principio di tutto c’era un’azione, un atto di volontà; qui, invece no. Chi ha voluto rompere l’immobilità o è scomparso, e quindi ha pagato con la morte l’uscita dall’immobilità (Rye), o l’ha fatto senza volerlo (Peggy), o semplicemente è un fattore esterno che decide di inserirsi.

Insomma, “The Myth of Sisyphus” conferma l’ottimo stato di salute della serie e di questa annata in particolare che, ad onor del vero, è ancora più facile da apprezzare grazie al lavoro fatto lo scorso anno, quando il film e la paternità dei fratelli Coen pesavano ancora moltissimo. Una volta vinta la sfida allo scetticismo della prima ora, ci ritroviamo davanti ad un prodotto già pienamente maturo e che lo è diventato in poche e (apparentemente) semplici mosse.

Voto: 8½
Fargo – 2×04 Fear and Trembling
Pessimismo, caos, humor nero, situazioni paradossali: Fargo continua a far discendere sempre di più i suoi personaggi in una spirale che li trascina verso il fondo, tenendo lo spettatore sempre sul filo del rasoio, aumentando e diminuendo la tensione con la maestria che aveva caratterizzato anche la prima stagione.

But at least I would’ve had fun, be free… like how you get to dream before you wake up.

Sognare prima di svegliarsi, solo questo sembra essere rimasto ai personaggi immersi in un inverno senza fine (facendo rimpiangere a qualcuno addirittura la calura e gli insetti del Vietnam): ognuno di loro insegue qualcosa, qualcosa al di là del freddo e della neve, e ognuno di loro ha un modo diverso di farlo, con la speranza, la determinazione o la violenza.
La fredda determinazione di Hanzee Dent nel cercare Rye lo porta a incastrare il primo tassello che farà crollare miseramente il castello di carta dei Blomquist, con il pezzettino di fanale che è il nodo mancante dell’investimento automobilistico e la scomparsa del più piccolo dei Gerhardt. In questo frangente torna anche il riferimento forse più pazzo che gli autori hanno inserito in questa stagione: gli alieni. Se nella prima puntata abbiamo visto chiaramente un UFO alzarsi dal bosco, qui Hanzee “sente” che c’è qualcosa di ultraterreno vicino a quella strada, ma rimane davvero un mistero come vorranno risolvere questa parte di racconto – a meno che alla fine qualcuno si convinca che Rye sia stato rapito dagli alieni, ma sarebbe troppo folle persino per Fargo.

Poi ci sono Mike Milligan, Joe Bulo e scagnozzi che inseguono il potere in quella parte di Stato, cercando di comprare con le “buone” la fetta detenuta dai Gerhardt.
Era logico che si sarebbe arrivati alla guerra, non fosse altro per il perfetto discorso che Bulo fa alla moglie di Otto: se nel lavoro c’è un rapporto troppo stretto con i propri sottoposti non si va da nessuna parte. La carezza materna che Floyd dà a suo figlio Dodd in macchina, dopo avere scoperto il suo colpo di testa del tutto ingiustificato, sta a dimostrare come il concetto di famiglia – seppur malato come nel contesto dei Gerhardt – stia al di sopra di tutto, specie in questa stagione.

Infatti, anche i coniugi Blomquist rispondono a questo requisito, facendo ovviamente quadrato intorno a una cosa più grande di loro, peggiorandola quando tentano di coprire tutto con un maldestro finto incidente che, ironia della sorte, li ha incastrati agli occhi di Solverson: l’amore incondizionato (più di Ed verso la moglie che viceversa, visto anche come si comporta il personaggio della perfetta Kirsten Dunst) non sembra essere la soluzione, dato che li sta portando proprio là dove non volevano arrivare.
Amore incondizionato che purtroppo non è neanche la soluzione al cancro di Betsy, protagonista insieme al marito di una delle sequenze più disturbanti dell’intera annata: lo humor nerissimo che pervade la scena dal medico che propone una cura sperimentale racchiude tutto il senso di Fargo in pochi minuti, sottolineando ancora una volta come sia il caso, la fortuna a determinare chi può avere una vita felice e chi no. Il freddo e incompetente distacco del medico fa a pugni con la stupita meraviglia dei coniugi, che non riescono a capire come possa capitare loro di ricevere solo un placebo al posto della vera medicina.
La straordinaria interpretazione di Patrick Wilson e Cristin Milioti fa il resto, con quell’aria un po’ svampita di chi si ritrova in una situazione tra la vita e la morte e non riesce a capirne la gravità, anche per colpa di un sistema che non ne chiarisce l’entità.

We’re just out of balance. Whole world. Used to know right from wrong, a moral center. Now…

Quindi, come detto, tutti sono alla ricerca di qualcosa, di una soluzione che non comporti dolore per nessuno ma che in realtà ne creerà molto, perché la vita è crudele e non ne abbiamo nessun controllo.
Il caos domina tutto, il netto divario tra bene e male non esiste più, e la bellissima scena finale tra Betsy e Lou rimarca ancora una volta come l’inspiegabile sia al centro della nostra vita e che lo possiamo combattere solo in un modo: con la speranza.

Fargo, come se ce ne fosse bisogno, conferma tutto il buono che ci aveva già fatto vedere, facendoci scoprire ad ogni puntata un nuovo modo di meravigliarci. Senza costituire un episodio memorabile, questi cinquanta minuti hanno comunque il pregio di tenerci sempre incollati allo schermo anche quando un poliziotto e una coppia stanno parlando al caldo del loro salotto.
E dopo il “it’s war” pronunciato a mezza voce da una risoluta Floyd Gerhardt, non possiamo che aspettarci il meglio. Come al solito.

Voto: 7/8
Fargo – 2×05 The Gift of The Magi
Una realtà completamente scardinata dal suo naturale corso di evoluzione, a cui si aggiunge quel velato filo di ironia di stampo coeniano che ne esalta le derive grottesche: la seconda stagione di Fargo ha già ben delineato le dinamiche del racconto con un’efficacia espositiva e drammaturgica che conferma la grande qualità dello show.

Quando la sequenzialità degli eventi perde quella linearità a cui si è da sempre abituati, spesso le cose s’incastrano secondo logiche sconosciute che, seguendo le stesse identiche dinamiche, possono portare al miglioramento o al peggioramento di una condizione iniziale. Fargo, con una costruzione narrativa che prende in prestito l’illogica evoluzione della vita, ci proietta in una dimensione sociale annientata dall’emergere di un caos che ha posto i vari protagonisti di fronte a derive insospettate di se stessi: Floyd che cerca di tenere saldo lo scettro dei Gerhardt; Ed che nel giro di pochi giorni si trova a dover uccidere due uomini; Lou che deve lottare contro due tipi diversi di “male”, quello che si è impossessato di sua moglie e quello che ha sconvolto la quieta calma della sua città. Dalla bravata criminale di Rye, si apre un vaso di Pandora che sconvolge completamente le vite dei protagonisti, innestando un effetto domino che trascina tutti con sé. La normalità – che sia quella criminale dei Gerhardt o il quieto vivere dei Blomquist – cessa di essere tale, creando un vortice che stringe i vari protagonisti come in una morsa asfissiante da cui pare impossibile liberarsi: ogni tentativo non solo si rivela inutile, ma riesce addirittura a complicare le cose.

You go to school, you get a job, you start a family: that’s the American dream.

Il titolo dell’episodio riprende quello di un classico racconto di natale, scritto nel 1905 da O. Henry (pseudonimo di William Sydney Porter), che narra dei sacrifici fatti da due giovani sposi – Della e Jim – per scambiarsi i regali di natale. L’uno rinuncia a qualcosa di prezioso per sé in modo da far felice l’altro: Della vende i suoi capelli per comprare al marito una catena per l’orologio e Jim vende l’orologio per comprare alla moglie dei pettini per legare i capelli. L’ironico epilogo con cui si chiude il racconto è un tenero inno al sacrificio in nome dell’amore, che crea un parallelismo con le impervie superate dai magi per portare i loro doni a Gesù. Il morale didascalismo di questo classico popolare viene completamente rovesciato dalle bizzarre vicende dei Blomquist, che si ritrovano in una sorta di macabra parodia delle vicende di Jim e Della.

In un getto improvviso di ottimistica fiducia nel futuro, Peggy vende la sua macchina per consentire a Ed di acquisire la macelleria. Per quanto celere e istintivo, il gesto di Peggy è il punto d’arrivo di una consapevolezza: sforzarsi di mettere da parte le proprie paure per il bene della coppia e di quella famiglia che Ed desidera così tanto costruire. Nel frame che ritrae la donna ferma in macchina, la potenza dell’espressione di Kirsten Dunst diventa la più esplicita rappresentazione di un processo di accettazione di sé, oltre che della speranza di potersi lasciare alle spalle quelle azioni sconsiderate che si è ritrovata a compiere. Ma il fuoco della macelleria spegne tutte le speranze.
Il parallelismo con la tenera novella di O. Henry rende il tutto ancora più sinistro e drammatico di quanto già sia: nonostante il sacrificio, la speranza e la volontà di andare oltre, le conseguenze delle loro azioni sono inarrestabili e – tragicamente – irreparabili.

Camus says knowing we’re all gonna die makes life a joke.

Il montaggio dell’episodio – sostenuto da un ottimo contrappunto musicale – ci mostra la sequenza della decisione di Peggy alternata alle vicende della macelleria, riuscendo ad amplificare l’amara ironia insita nell’articolarsi degli eventi. Nello specifico, il segmento narrativo che riguarda l’attacco di Charlie alla macelleria è uno dei migliori dell’episodio, grazie anche all’ingerenza di un personaggio secondario come Noreen, la cui innocua presenza diviene l’elemento di disturbo che fa precipitare la situazione. Inoltre, le parole di Camus che la ragazza riporta contengono un amaro sapore profetico, capace sia di aumentare il livello di pathos che di generare una sensazione straniante.
L’affabilità dolce e malinconica della ragazza apre una breccia nella ferrea volontà di Charlie, che rimette in discussione la fedeltà alla causa criminale della sua famiglia. Non è il coraggio che gli manca, ma è come se quel “credo” a cui si era sottoposto con veemenza si fosse improvvisamente frantumato nell’incontro con una realtà volutamente messa da parte. Per questo avviene la telefonata al padre, a causa di ciò sopraggiunge il panico una volta rientrato in macelleria. Ma l’ironia più disturbante è quella che investe Ed: quella frase di Camus citata da Noreen a inizio giornata si rivela profeticamente come un mantra da seguire per sfuggire alla morte predetta come inevitabile: se la morte è il termine ultimo a cui si tende, quanta forza può sviluppare un uomo per rendere questo termine più lontano possibile da se stesso, nonostante le prospettive della vita si rivelino sempre più nella loro assurdità? Ed si scontra con l’assurdità della sua vita e ciò nonostante combatte per salvarsi, per cercare di andare avanti anche quando vede frantumarsi nel fuoco e nel sangue tutti i sogni che gli davano forza.

There’s not a challenge on God’s Earth that can’t be overcome by an American.

La sensazione di vedere la speranza perire sotto le grinfie di un caso indomabile è la percezione dominante dell’intero episodio, esaltata anche attraverso il beffardo montaggio che lega il discorso di Reagan con la carneficina del bosco: la speranza del futuro presidente, quella forza ostentata a suon di retorica pregnante, si infrange già prima della sua attuazione in un cumulo di sangue che continua a colorare di rosso la bianca distesa che attraversa Fargo, Luverne e Kansas City. Lou controbatte l’ottimismo del governatore con il suo dolore personale, con il male che si è impadronito di sua moglie, mentre tutto intorno scorre imperterrito quel sangue che nasce dalla brama di potere rinvigorita da parole non dette, volutamente taciute o appositamente travisate. Floyd – madre e moglie in pena – non può lasciar correre, deve prendere decisioni drastiche in nome di una giustizia familiare che allo stesso tempo si lega a una personale – e legittima – volontà di emancipazione femminile.

In questo senso, difendere Simone è d’obbligo, ma ancora una volta Fargo ci mette di fronte a una situazione marcata da una amara ironia: Simone, proprio con l’intento di far valere il suo essere donna, ha creato una delicata situazione di sudditanza fisica e psicologica con il nemico che potrebbe avere effetti devastanti. In Fargo ogni azione – sia nobile che subdola – ci viene mostrata attraverso le sue più infime derive situazionali: anche se il fine è legittimo – come la richiesta di Floyd e Simone di non essere declassate per questioni di genere –, ogni azione contiene in sé una conseguenza ambigua che confonde e stempera l’intento iniziale.

“The Gift of The Magi” è un episodio destabilizzante, potente, dissacrante, in cui le dinamiche del racconto raggiungono la vetta di un climax ascendente che pare inarrestabile. La qualità della messa in scena – l’uso diegetico del montaggio alternato, del contrappunto musicale o dello split screen – fa da controparte a un assetto narrativo costruito magistralmente sull’illogicità del caso che domina l’esistenza quando la deriva dell’uomo squarcia il normale corso della vita e infrange quell’equilibrio che sembrava immobile e certo.

Voto: 8/9
Fargo – 2×06 Rhinoceros
Il male, in tutte le sue forme e il caos da cui si genera e che il male stesso alimenta. L’impossibilità di scegliere altro che di opporvisi in pieno, senza chiaroscuri, oppure di farsi trascinare da esso. Questa è la sostanza di cui è fatto il mondo ed è quello che racconta Fargo, con la sua fotografia livida e il fredda, in questo episodio forse ancora meglio che nei precedenti.

La qualità di una serie tv si giudica da molti aspetti diversi e la scrittura, che ne è anima fondamentale, raggiunge le sue vette quando riesce a prestarsi a tanti livelli di interpretazione da generare riflessioni e costruire una mitologia; se quella di Fargo è una mitologia dicotomica, che parla del bene contro il male, allora la lettura che se ne può fare passa attraverso non soltanto gli eventi, ma anche le diverse facce che questi poli opposti assumono nel dipanarsi della narrazione.

We all got a role to play. You need to take my example. Be a leader. This is our time. No such thing as men’s work, women’s work anymore. We got just as much right to.

Prima di tutto il male, che domina incontrastato la prima parte dell’episodio, a partire dagli scontri familiari tra i Gerhardt e dall’attacco che ne deriva. Il male dei Gerhardt è un male sottile, inevitabile, che si trasmette di padre in figlio e che prendendo le forme più disparate – la prevaricazione stupida di Dodd, l’altrettanto stupida sete di ribellione autodistruttiva di Simone – genera il caos e porta alla rovina.
Un male così radicato che intesse così profondamente i legami e gli affetti, senza dare possibilità di scelta o di fuga: lo si abbraccia totalmente e lo si interiorizza fino a illudersi di dominarlo (come Floyd) oppure lo si contrasta, rischiando di venirne schiacciati. Anche la dimensione casalinga della vita dei Gerhardt, così rassicurante a una prima impressione, diventa una debolezza imperdonabile che va in frantumi inevitabilmente, come il vaso di frutta durante la sparatoria, spezzando l’illusione di serenità e continuità tanto perseguita da Floyd.

Twas brillig, and the slithy toves/Did gyre and gimble in the wabe/All mimsy were the borogoves/And the mome raths outgrabe (Lewis Carroll, Jabberwocky)

Il male intelligente – impersonato alla perfezione da Mike Milligan – capisce tutto questo e l’importanza di abbracciare il caos per dominarlo davvero, interamente. Mike lo incoraggia, stimolando gli eventi e approfittando delle debolezze altrui; e ne diventa così alfiere e messaggero. La poesia nonsense di Lewis Carroll che recita all’interno dell’auto non è altro che la celebrazione di questo caos, oltre che una sorta di mantra propiziatorio per la vittoria che occhieggia in modo ironico e spudorato a quello famosissimo di Samuel Jackson in Pulp Fiction.
Ohanzee è l’altra personificazione di questa inesorabilità (come se in questa stagione il personaggio di Lorne Malvo di Billy Bob Thornton fosse stato diviso in due, sviluppando autonomamente due delle sue sfumature in caratteri diversi), un male che non si ferma mai davanti a nulla, ineluttabile e invincibile, vero e proprio “braccio armato” del caos più che suo ambasciatore. Un male che non chiede ragioni e riflessioni, come una macchina perfetta dalla carica di moto perpetuo. Il suo ruolo, ancora di più in questo episodio, è quello di una sorta di deus ex machina che chiude il corso degli eventi, risolutore, letale.

You ask me how come I buy all these magazines? It’s because I’m living in a museum of the past.

Poi c’è il male ottuso, l’opportunismo e la pigrizia mascherati da buone intenzioni come per Ed: così come l’affetto morboso dei suoi genitori hanno minato la sua vita matrimoniale senza che lui neanche se accorgesse, così il suo ostinato attaccarsi ai propri obiettivi di vita standard (comprare la macelleria, avere un figlio) gli impediscono non solo di vedere la crisi profonda che sta investendo la moglie, ma anche le proprie responsabilità e la propria identità, nei fatti, di assassino a sangue freddo.
Un tipo di male che è un po’ il male di una certa epoca, un male borghese e moderno soprattutto americano, difficile da contrastare perché così subdolo e inconsapevole di se stesso.

Life’s a journey, and the one thing you don’t do on a journey is stay in one place, right?

Per contrastare questo male “sociale” – che si percepisce chiaramente pervasivo e maligno quanto quello dei Gerhardt, nella mitologia di Fargo come nel cinema dei Coen – non c’è altra strada che la crisi esistenziale, che attraverso la ridefinizione di se stessi e del proprio ruolo nel mondo costruisce una volontà di cambiamento e una forza inaspettata. È questo il caso di Peggy, che in questa stagione ha vissuto ogni fase della propria crisi (dalla negazione alla confusione, alla marcia indietro e infine, all’autoanalisi e alla vera ribellione) creandosi gli strumenti per contrastare quel male pervasivo che la inchiodava a una vita insoddisfacente. E per salvarsi la vita.

But now, now I must bid you all adieu, admonish you to watch your proverbial butts, for I shall be back with the sledgehammer of justice, prepared to lay Joseph waste on these four walls!

L’inesorabile ricadere delle colpe delle generazioni precedenti, altra tematica forte di questa stagione di Fargo, non si esplicita solo attraverso la degenerazione dei Gerhardt, ma è uno spettro che infesta le vite anche di quelli che operano per il bene, senza compromessi.
Nel caso di Lou e Karl è la guerra, che si attacca alle vite di chi l’ha combattuta infestandone i sogni e la vita e proliferando, come il tumore di Betsy. Un ricordo incancellabile di puro male che alimenta malesseri e sensi di colpa, ma che può essere anche fonte di risorse inaspettate. L’assedio alla stazione di polizia – topic fondamentale del cinema d’azione e situazione di stallo potenzialmente senza altra via d’uscita che la violenza – si risolve qui in modo fluido e ragionevole grazie alla capacità di empatizzare, di tirare fuori le proprie risorse non solo di coraggio ma anche di ragionevolezza.

Perché operare per il bene spesso non vuol dire semplicemente opporsi al male senza quartiere (quando Lou dice “This kind of thing didn’t work in Westerns, and it’s not gonna work now” si palesa chiaramente il contrasto tra realtà e finzione, tra il momento di crisi in cui le vite di molte persone sono in ballo e i cliché da film di genere), vuol dire anche limitare i danni. E la capacità di capirlo è una cosa possibile solo se col caos del male si ha avuto a che fare, traendone conoscenza e stabilità interiore.

Fargo arriva al sesto episodio intrecciando alla perfezione tutte le storyline in un racconto corale che rende giustizia alla mitologia che ne pervade lo spirito. “Rhinoceros” segna un picco qualitativo all’interno di una serie che è già, senza ombra di dubbio, una delle cose migliori del panorama seriale di questo autunno.

Voto: 9
Fargo – 2×07 Did You Do This? No, You Did It!
Il vecchio Charlie ha rubato la manopola dei freni, è ormai impossibile scendere dal treno della violenza che avanza inesorabile portandosi dietro tutti i personaggi di Fargo, dal primo all’ultimo. Sulle note di Locomotive Breath dei Jethro Tull si apre uno degli episodi migliori della seconda stagione dello show.

Gli aggettivi per questa annata di Fargo ormai si sprecano, si inneggia al capolavoro anzitempo, elevandola al di sopra anche della splendida prima annata. Più che celebrare distrattamente la qualità altissima dello show di Noah Hawley, però, bisognerebbe concentrarsi sui messaggi che questi personaggi vogliono trasmettere allo spettatore, a come possiamo individuare una grande metafora del progresso e dello scontro tra civiltà nella guerra che imperversa nel Minnesota.
Gli schieramenti ormai sono chiari: da un lato vi sono i Gerhardt, famiglia conservatrice di uno stile di vita antico e tradizionalista che ha saputo farsi da sé, rappresentante di quel sogno americano che degenera nel male assoluto di un’attività mafiosa, dall’altro lato c’è la mafia di Kansas City rappresentata da Mike Milligan, una moderna espressione della criminalità, proiettata verso il futuro (ed è esemplare il colore della pelle di Mike, in tal senso) e organizzata con una solida struttura burocratica. A fare da arbitro in questa guerra c’è la polizia, un’istituzione statale che dovrebbe assicurare la giustizia nella sua forma più pura, ma che finisce per essere assorbita dagli eventi e perde la sua importanza ideologica.

Different roads, same destination.

Nello scontro tra queste due grandi visioni del mondo, che ha altresì dominato ogni conflitto della storia dell’umanità, la famiglia Gerhardt ne esce clamorosamente sconfitta. La disfatta proviene sia dall’ingerenza di agenti esterni che volevano farla crollare, sia dall’inadeguatezza nei confronti del mondo dei membri che la compongono. La stessa struttura familiare porta in sé contraddizoni e tendenze autodistruttive; infatti, a partire da Rye nella premiere, tutte le azioni dei Gerhardt hanno portato lentamente alla dissoluzione dei legami di parentela, di quelli di fiducia e di quelli gerarchici, provocando l’implosione della loro attività.

Esemplari in questo caso i personaggi di Floyd e Simone. La prima, da vera mater familias, si preoccupa della sopravvivenza della famiglia stessa e cede ad un accordo solo quando realizza di aver ormai perso la guerra; l’unica speranza di salvare quello che rimane è allearsi con un nemico per vendicarsi dell’altro. La figura femminile impersonata da Floyd ha ormai fatto il suo tempo, il suo unico obiettivo è quello di preservare l’assetto tradizionale dell’organizzazione del marito, senza innovare perché il progresso significa rinnegare i propri valori.
Simone, al contrario, rappresenta la donna in una fase pre-moderna. Essendo sempre stata sottomessa dal potere maschile del padre e degli altri uomini della famiglia, decide di esercitare il controllo e la rilevanza che le è sempre stata negata sul suo corpo, trasformandolo in un’arma con cui spera di poter manovrare Mike. La ribellione verso il padre e la presa di coscienza della sua femminilità portano il personaggio su un binario opposto al tradizionalismo dei Gerhardt, un carattere che non appartiene al passato ma al futuro. Per questo motivo, oltre alla vendetta sul fratello, Bear la uccide in una delle scene migliori dell’episodio.

Sometimes the answer is so obvious you can’t see it because you’re looking too hard.

Al contrario dei Gerhardt, Mike Milligan è l’esponente di un nuovo tipo di persona, in linea con il tempo in cui vive e inserito in una struttura sociale che riesce a padroneggiare egregiamente. Comprende come va il mondo, lo modella a proprio piacimento e, anche quando sembra che sia arrivato al capolinea, ribalta tutto in suo favore. Come è già stato accennato, il fatto che sia nero è rilevante e direttamente collegato all’essere un “uomo del futuro”, un futuro in cui il concetto di razza non esisterà più, le differenze sociali di genere saranno quasi scomparse, e la guerra sarà combattuta tra fazioni ancora diverse. L’aneddoto che racconta a Lou sottolinea come l’astuzia sarà il vero motore del cambiamento, il saper giocare sulla linea sottile delle ambiguità mantenendo sempre il controllo della situazione.
Con il colpo di scena che chiude l’episodio, Mike capisce che la guerra può ancora essere vinta e che lui è una pedina fondamentale perché questo avvenga. Il caso ha aiutato la sua volontà di non arrendersi, rimettendo tutto in gioco nella strada che porterà al finale di stagione.

You’re a shit cop. You know that, right?

Anche Lou ed Hank sono trascinati inevitabilmente nella spirale di violenza che è esplosa nel Minnesota. La polizia dovrebbe essere lo strumento che controlla e regolamenta la società, ma in Fargo questo non è possibile; anche le forze dell’ordine devono schierarsi, come afferma saggiamente Lou, perché non si può rimanere imparziali nello scontro tra due ideologie, in un modo o nell’altro si finisce per favorire l’una o l’altra. Ma l’agente Solverson non è un uomo capace di scendere a compromessi, ha vissuto la guerra in Vietnam e ha visto la morte in faccia più volte, non vuole arrendersi a un mondo in cui i rapporti sono dominati solo dalla violenza.
Un piccolo discorso a parte lo merita Hank, dipinto fin dall’inizio come un nonno e un padre modello, un poliziotto integro e inattaccabile. Nel finale di episodio, però, Betsy trova in casa sua le prove di una possibile deriva mentale, come se la guerra avesse cambiato anche lui, in modo silenzioso e non appariscente. E’ forse questo il messaggio che vuole trasmettere Noah Hawley: la guerra cambia tutti, in un modo o nell’altro, e non vi è modo di sfuggirle.

Fargo colleziona un altro episodio fantastico, ricco di simbolismi e iconico nel rappresentare l’avanzare della Storia come inesorabile e universale, uno scontro tra passato e futuro che non lascia nessuno immutato.

Voto: 9
Fargo – 2×08 Loplop
Cosa ne è stato degli immortali coniugi Blomquist dopo la notte più pirotecnica che Luverne abbia mai conosciuto? Ce lo dice un episodio al cardiopalma, che si affida tutto all’imprevedibilità di un racconto dagli esiti sempre più incerti.

La macchina da presa si fa lentamente largo negli stretti passaggi della cantina dei Blomquist, muovendosi nel labirinto costruito da giornali e copertine, emblema di sogni mai realizzati ormai chiusi in uno sgabuzzino a prendere polvere. Eppure è proprio in questi tortuosi passaggi che Peggy ha trovato la propria epifania e si è trasformata in ciò che ha sempre voluto essere.

Un pò Coen, un pò Tarantino, quest’ottavo episodio non solo costruisce forse il frammento più divertente dell’intera stagione, ma anche quello in cui la tensione fin qui vibrante del racconto trova la sua massima espressione. E lo fa raccontando una sorta di epopea di quelli che, a conti fatti, sono probabilmente i protagonisti assoluti di questa stagione: Ed e Peggy Blomquist, una coppia come tante che il fato ha voluto trascinare in una storia più grande di loro, una storia che, tra gangsters, fughe on the road, omicidi, rapimenti e rese dei conti, ha il sapore di uno di quei film hollywoodiani con cui Peggy ha sempre sognato ad occhi aperti.

Fargo ha già dimostrato di saper vivere di vita propria, nonostante sia nata su delle basi culturali e stilistiche radicate in una poetica già esistente e ben delineata. Coeniana fino al midollo, la serie ha saputo allargare però quegli stessi orizzonti a cui si è ispirata, trasformandosi in una satira sociale ancor più ad ampio spettro, che proprio nell’epica dei Blomquist, nata dal loro gesto di ribellione alla propria mediocrità, trova la sua rappresentazione più tagliente e tragicomica. Ed è in particolare Peggy, con la sua mente distorta e imprevedibile, a incarnare le contraddizioni di un mondo in sospeso tra ciò che vorrebbe essere e ciò che realmente è, e che solo nella perpetrazione della violenza come unica arma di rivalsa sembra saper trovare una propria identità.

L’episodio si districa del resto principalmente tra due storyline: la fuga di Peggy e Ed e l’inseguimento di Hanzee. Se nel primo caso, con i due coniugi che finalmente trovano la piena realizzazione di se stessi, abbiamo di fronte un’immagine distorta e comicamente assurda dell’american dream, la seconda va a toccare invece il valore del patriottismo a stelle strisce, che nasconde ancora il suo più bieco razzismo dietro le targhe di commemorazione alla strage degli indiani. Sono due mondi che si muovono parallalemente per incontrarsi solo alla fine e rivelarsi, uno di fronte all’altro, per ciò che realmente sono: il fallimento di una nazione costruita su valori finti, in cui patriottismo e razzismo convivono insieme e in cui l’american dream si traduce in una violenza quasi catartica.

È un’America, quella di Fargo, che sta iniziando a scendere lentamente nei meandri della propria follia; è un’America che ha fatto, del resto, di un attore il proprio Presidente, un Reagan metafora di un paese che fa della finzione la sua realtà, un pò come la serie stessa, che si ispira a fatti accaduti, ma che in realtà non lo sono fino in fondo. Cos’è dunque vero, cos’è falso? Il macellaio e la parrucchiera di Luverne sono reali, o sono solo l’immagine finta di una quotidianità semplice e apparentemente felice che, però, dentro di sé, nasconde il germe di una violenza che si fa unica risposta ad un mondo dissociato tra la propria ambizione e la propria frustrazione? Fargo, in realtà, non è altro che un gioco ipercinetico che si muove nell’incertezza più assoluta, tra l’apparente eroismo della storia e la poca eroicità dei suoi sviluppi e dei suoi personaggi.

E in un mondo che si fa pubblicità dei sogni purché rimangano tali, o si fa vanto della propria multiculturalità a patto che si accetti di essere sottilmente umiliati, ecco che chi decide di realizzare se stesso, di cambiare, di trasformarsi e prendere in mano le redini della propria vita diventa improvvisamente una pedina impazzita. Nessuno finora ha fermato i Blomquist: ci ha provato la polizia, ci hanno provato i Gerhardt, ci ha provato la mafia di Kansas City, eppure sono ancora liberi di fare danno. Allo stesso modo, Hanzee ha rifiutato di essere un galoppino, decidendo di rimanere fedele a se stesso. Il risultato? Morti, rapimenti, ostaggi, in una girandola grottesca di sangue che rivela l’assurdo e il tragicomico del caos in cui un intero mondo sta letteralmente crollando.

È forse questo l’episodio più allegorico di Fargo, ma anche quello che tira le somme di un discorso politico e sociale che la serie ha saputo costruire con un disegno perfettamente orchestrato, in un crescendo di tensione degno del miglior cinema. E sul finale, quando finalmente queste anime sconfitte dell’America, questi due mondi paralleli, queste due espressioni del fallimento di un paese si incontrano, una speranza sembra accendersi: un taglio di capelli sembra portare una conciliazione, un’allenza per far ripartire le cose sotto una luce migliore, una pace mossa da un’umana compassione che solo chi ha guardato in faccia la propria mediocrità può comprendere.

Eppure, alla fine, questo sogno si infrange. Arriva la polizia, arriva l’America a riportare la situazione sotto controllo, a rimettere ognuno nei ranghi, ad arrestare coloro che hanno messo in discussione i suoi valori o che hanno provato un gesto anarchico di ribellione. La libertà e i sogni rimangono aspetti consentiti ma da tenere a bada in una società solo apparentemente democratica, ma in realtà opprimente. Ed ecco così che la forbice finisce per tagliare l’aria, quel gesto che stava per concretizzarsi svanisce mentre i capelli di Hanzee lentamente scorrono sulle lame, ponendo fine ad un sogno che mai si realizzerà. Si potrebbe discutere di qualche forzatura sulla trama, ma avrebbe poco senso: Fargo è vicino alla conclusione, ma è anche vicino al proprio apice, in un cammino che si è sempre mosso ad altissimi livelli.

Voto: 9,5
Fargo – 2×09 The Castle
A un passo dal finale, Hawley e Arkin confezionano l’episodio forse più sconvolgente e ambizioso dell’intera stagione, confermando – se ancora ce ne fosse bisogno – lo stato di grazia dello show.

The bloodiest chapter in the long and violent history of the Mid West region.

Questa annata di Fargo si è distinta fin da subito per l’uso di soluzioni registiche e narrative di grande impatto ma mai gratuite – pensiamo all’ampio uso dello split screen, oppure al bellissimo “LopLop”, interamente dedicato ai Blumquist e a Hanzee. Giunto quasi al termine del suo percorso lo show continua a innovarsi e a stupirci, declinando la consueta sequenza d’apertura in modo inedito. La voce narrante, oltre a permettere il graditissimo ritorno di Martin Freeman, sottolinea in maniera quanto mai efficace il carattere particolarissimo di questo capitolo della “Storia del vero crimine nel Mid West”, confondendo ulteriormente i labili confini tra cronaca e leggenda e aumentando esponenzialmente il senso di straniamento che l’assurdità degli avvenimenti narrati – reali ma al tempo stesso incredibili – è in grado di suscitare.

From this point on we’re radio silent.

Lo spietato ritratto dell’America dipinto da Hawley – come ben sappiamo – non risparmia le forze dell’ordine, che fin dalla scorsa annata abbiamo imparato a conoscere, salvo rare eccezioni, come emblema di un’ottusità provinciale, dimostrandosi non solo incapaci di far fronte all’inarrestabile ondata di violenza che si abbatte sul Mid West, ma finendo anche col favorirla. Accecata da rivalità giurisdizionali e dalla sete di riconoscimenti, la polizia del South Dakota, incarnata dal capitano Cheney, si rivela in tutta la sua inettitudine, dando avvio alla catena di eventi che condurranno al massacro del Motor Motel.

Si tratta di una caraterizzazione dai tratti molto decisi, ai limiti della caricatura – pensiamo a quando Lou viene scortato fuori dallo stato pur avendo appena trovato un cadavere – ma proprio per questo perfettamente coerente con l’universo di Fargo. Proprio Lou, come accadrà alla figlia anni dopo, si ritrova quindi ad assistere impotente alla spirale di caos e assurdità che avvolge sempre più le maglie del reale; la sua è una voce che fa appello alla ragione e che quindi non può trovare spazio in un mondo in cui bisogna essere, non pensare. Non è un caso che l’unica a restare impassibile di fronte alla comparsa dell’UFO sia Peggy, la cui filosofia sembra essere davvero la più adatta per sopravvivere all’insensatezza degli eventi.

He was the Gerhardts’ man.

Il miraggio dell’arresto della mafia di Kansas City fa ignorare a Cheney la pericolosità di Hanzee, che qui si erge a protagonista assoluto del racconto, mina vagante e al tempo stesso burattinaio degli eventi. La voce narrante precisa come non siano noti il momento e il perchè della decisione di Dent di tradire e sterminare i Gerhardt; questo perchè non è possibile individuarli nella sfera del raziocinio: non si tratta della ricerca di un tornaconto personale – al contrario di Milligan –, né della reazione a uno specifico avvenimento. Come nel caso di Peggy, e a ben vedere anche in quello di Rye, la violenza assume un valore catartico, ponendosi come un atto di liberazione da uno stato di continua oppressione che affonda le sue radici lontano nel tempo, sia che si tratti di una decisione improvvisa che di una vendetta meditata. Ecco quindi che il processo di riappropriazione identitaria di Hanzee non potrà dirsi completo senza l’eliminazione dei Blumquist, involontari testimoni di una volontà di resa che ormai non è più contemplata.

Quella di Dent non è però una furia cieca, ma fredda e calcolatrice: l’indiano abbraccia il caos e lo alimenta consapevolmente, sfruttando le debolezze dei Gerhardt – di Floyd in particolare – a suo favore. Se Floyd paga a caro prezzo l’affetto che nutre, nonostante tutto, nei confronti della prole e la necessità di imporsi come leader del clan, in ultima analisi a segnare la fine dei Gerhardt sono però le profonde rivalità interne che hanno messo i fratelli l’uno contro l’altro: l’odio di Bear nei confronti di Dodd culmina nella frustrata ricerca nelle camere del motel – probabilmente con lo scopo di assassinarlo –, per poi sfogarsi nel feroce attacco a Lou che segnerà la sua fine.

It’s just a flyin’ saucer, Ed.

Dopo otto episodi in cui la violenza non è di certo mancata, non era semplice riuscire a evitare il rischio di assuefazione di fronte all’ennesima carneficina. La scelta di racchiudere l’intera sequenza del massacro – girata magistralmente – tra le chiacchiere ignare della polizia durante una partita a poker e l’apparizione dell’UFO si rivela in questo senso perfetta nel suo sottolineare l’imprevedibilità e l’insensatezza degli eventi, caricandoli di un’inedita forza ed efficacia. Come in una sorta di macabra commedia degli equivoci, assistiamo al reciproco sterminio dei Gerhardt e della polizia del South Dakota, entrambi ignari di chi hanno di fronte fino a che non è troppo tardi.

Su questo insensato scenario di morte si staglia nuovamente, com’era già accaduto nel primo episodio, un disco volante: si tratta di una scelta a dir poco audace che però, paradossalmente, riesce a inserirsi in maniera perfettamente coerente e funzionale all’interno del racconto. Da un punto di vista prettamente narrativo va sottolineato come la sua presenza, pur essendo stata ben preparata da una serie di indizi e segnali (qui la doppia inquadratura dell’adesivo nella stazione di servizio), abbia come unico scopo quello di distrarre Bear e permettere a Lou di salvarsi. È però sul versante simbolico che l’oggetto volante rivela tutta la sua potenza.

Lungi dall’essere un mero deus ex machina, l’apparizione dell’UFO va ad aggiungere un altro tassello all’immaginario dell’America degli anni Settanta, divenendo una concreta icona dell’intelligibilità del reale. L’apparente assurdità della sua apparizione viene in quest’ottica equiparata a quella della violenza e della malattia (il cancro di Betsy) che pervadono la narrazione, andando nel contempo a complicare il legame tra realtà e finzione che costituisce il perno del racconto fin dalle sue origini coeniane.

In attesa di vedere cosa ci riserverà “Palindrome”, possiamo tranquillamente affermare che questa seconda stagione di Fargo è riuscita a superare anche la più rosea delle previsioni: Hawley ha dato vita a un progetto ancora più ambizioso rispetto all’anno passato, sia in termini di narrazione che di messinscena, guadagnandosi di diritto un posto tra le serie migliori viste quest’anno.

Voto: 9
Fargo – 2×10 Palindrome
Ormai ne siamo certi: in dieci episodi di questa seconda stagione, Fargo non ha sbagliato un solo colpo. Non c’è stato un dettaglio, una sfumatura o minuzia fuori posto, e se qualcosa sembrava essere sfuggito (ad un mero livello “logico”) nello scorso episodio, “Palindrome” fuga ogni dubbio e certifica una volta per tutte che abbiamo visto una delle migliori serie di questa annata – se non addirittura la migliore.

Come per “The Castle”, anche questo episodio si apre con la voce di Martin Freeman che dà un nuovo tono, più silenzioso e in un certo senso solenne, alla consueta frase introduttiva, mentre sullo schermo si susseguono le immagini che ritraggono, uno ad uno, gli ormai defunti componenti della famiglia Gerhardt.

Rye per primo, poi Simone, Dodd, Otto, Bear e infine Floyd: ciascuno di loro è morto per mani, motivazioni e in circostanze diverse, per ritrovarsi adesso tutti accomunati (e paradossalmente uniti) da un tragico ma identico destino. Profeticamente, le ultime parole che si erano scambiati Floyd e Bear lungo il tragitto per il Motor Motel, dritti verso il grande tranello ordito da Hanzee, sono state esattamente We’ll be together again. On high, e nulla più di questo può descrivere chi sono, anzi, chi sono stati i Gerhardt di Fargo, North Dakota. Li abbiamo conosciuti quando il loro impero era ancora in vita, ma già mostrava le crepe dell’arrivismo e dell’avarizia dei suoi componenti, delle invidie e dell’odio che serpeggiavano tra di loro, sentimenti che aspettavano solo l’occasione giusta per emergere. La malattia e la conseguente invalidità di Otto hanno funzionato infatti come innesco per liberare così tanti mostri che la sola Floyd non è riuscita a gestirli, portando inconsapevolmente la propria famiglia al massacro finale. Ma Fargo-serie tv e Fargo-città del North Dakota hanno raccontato molto di più della caduta di una famiglia di criminali, puntando a rappresentare il destino, la fatalità, le aspettative dell’uomo verso la vita, che altro non è se non un grande mescolone di poche scelte ponderate e tanti, tantissimi imprevisti.

Lou Solverson ha una moglie ed una figlia che lo attendono a casa, a Luverne, in Minnesota, con cui non parla da un pò e quindi non sa che Betsy si è sentita male a causa di quelle pillole che ha scelto di prendere senza però sapere se fossero veri medicinali o solo caramelle. La donna scopre così che con quell’esperimento non sta uccidendo il suo cancro, ma se stessa. Ed è in questa crudele metafora che si racchiude ciò che Fargo ha provato a raccontare: per quanto ci sforziamo, non c’è forza di volontà che tenga davanti all’inevitabilità dell’esistenza; perciò quello che possiamo fare nel frattempo è cercare di non lasciarsi sopraffare dal fardello di tale consapevolezza. Betsy sa che presto o tardi morirà, come sa anche che non sarà mai protagonista di quel sogno in cui vede la sua famiglia tra molti anni, riunita intorno ad un tavolo a festeggiare, eppure non perde la sua ironia e la sua leggerezza. La vita non è assurda alla luce della morte, come vorrebbe Camus mentre parla di Sisifo, ma è la morte ad essere assurda nella sua inutilità se paragonata alla vita, come invece insegna Betsy mentre accarezza la sua piccola Molly e sa che anche se non la vedrà crescere, anche se mancherà in molti momenti futuri e non conoscerà le evoluzioni del mondo, non sarà il fardello della malattia a farle rinunciare al suo presente.

Infatti, quello che non riescono a fare tutti gli altri protagonisti di Fargo è avere questa semplicità di intenti, cosa che il nucleo Solverson incarna perfettamente. Si distinguono infatti non perché sono semplicemente buoni, ma perché rappresentano il solenne impegno di prendersi cura l’uno dell’altra e, con questo obiettivo chiaro e comune a ciascuno di loro, riescono sempre a sopravvivere. E allo stesso modo, i Gerhardt non sono semplicemente i cattivi, ma sono soprattutto gli individualisti, i prototipi dell’egoismo, e per questo sono deboli; non a caso, infatti, chi riesce a sopravvivere è o chi ha avuto il coraggio di amare la propria vita o chi non ha mai permesso a nessuno di avvicinarsi troppo. Peggy Blomquist ed Hanzee, in maniera diversa, sono entrambi il frutto di un egoistico rifiuto dell’accettazione passiva della propria identità; vogliono a tutti i costi farsi protagonisti assoluti della loro esistenza, cercando di uscire da ciò che sono semplicemente oggi. L’autoconsapevolezza che la donna cercava in strampalati seminari arriva invece quando l’istinto di sopravvivenza la spinge ad agire, e così le riviste, i giornali, gli articoli che teneva da parte con cura, si rivelano totalmente inutili. Ma la liberazione dall’immobilismo arriva troppo tardi ed incompleta: la sua mente è troppo assuefatta dai modelli che guarda con ammirazione, così da non riuscire più a distinguere la realtà da mere fantasie. Come non trova assurdo vedere un ufo davanti a sé, così è convinta che Hanzee stia incendiando il negozio per farli uscire dalla cella frigorifera, esattamente come accadeva nel film con Ronald Reagan visto in televisione.

Peggy ha rielaborato nella sua testa tutto il mondo, tanto che non è lei ad essere inadeguata alla realtà, ma la realtà troppo debole e sbiadita per lei; infatti non stupisce che chieda di andare in prigione in California e soprattutto che non cerchi di scappare quando Lou è fermo a telefonare: in maniera totalmente strampalata, sa che è tragicamente il destino più giusto per lei, una sorta di realizzazione. Ma la parabola più bella e significativa è quella di Hanzee. Se poteva esserci qualche sbavatura circa le reali motivazioni dell’indiano a tradire i suoi “benefattori”, “Palindrome” ci fa vedere come nel silenzio dell’uomo ci fosse nascosta non cieca ubbidienza, ma la voglia di una rivalsa personale che – anche lui come Peggy – ottiene a metà. Quello che lo ha sempre animato è stata la voglia di avere una sua personale identità, di non essere assimilato né alla sua etnia o né alla gratitudine verso una famiglia che in realtà l’ha sempre sfruttato. Hanzee sognava qualcosa di più grande e, in un certo senso, lo ottiene, ma anche lui da solo e senza la possibilità di condividere con nessuno la sua personale realizzazione. E paradossalmente è anche il destino di Milligan: dopo tanto sforzo, tanto sangue, tanta determinazione, il premio che gli viene dato non è affatto Fargo, ma una triste e grigia scrivania in cui imparare a fare il contabile della criminalità.

E allora diventa molto più chiaro il titolo dell’episodio che chiude magistralmente la stagione. Il palindromo è un “verso, frase, parola o cifra che letta in senso inverso mantiene immutato il significato”: l’inizio e la fine, così come vita e morte, si equivalgono, sono facce della stessa medaglia e in ultima battuta hanno lo stesso significato. Quindi non importa decidere quale sia il punto di vista giusto, ma è la frase che costruiamo al suo interno a fare davvero la differenza, sono i suoni e le parole comunicate nel modo giusto a dare senso all’esistenza – ed Hank, con i suoi strampalati simboli, cerca di dire questo ai suoi figli, a tutti noi.

Insomma, “Palindrome” è un episodio anti-climatico e descrittivo, densamente dialogato e molto più lieve nei toni, e che per queste caratteristiche porta a compimento la storia in maniera perfetta. Ma la cosa più importante è che, soprattutto con questa stagione, Noah Hawley ha davvero realizzato Fargo, il progetto Fargo serie tv, riuscendo a dare definitivamente un’identità propria e precisa al suo prodotto che – e non bisogna stancarsi di ripeterlo – è una delle cose più belle viste in tv quest’anno.
O decidiamo definitivamente che sia la migliore?

Voto: 9
Voto stagione: 10
Fargo – 3×01 The Law of Vacant Places
Chilometri e chilometri di neve, personaggi anonimi che per caso, per stupidità, per errore si ritrovano invischiati in un effetto domino dal potere devastante: Fargo è tornato. A quasi un anno e mezzo di distanza dalla conclusione della seconda annata, la serie firmata da Noah Hawley torna con una première che pare avere tutte le premesse per rilanciare la grande qualità delle due stagioni precedenti.

Data la natura antologica dello show, “The Law of Vacant Places”, come le precedenti première della serie, ha il compito – perfettamente riuscito – di introdurre la storia e i suoi personaggi, collocandoli nella loro posizione di partenza, o sarebbe meglio dire di ‘caduta’. Dopo una prima parte in cui ognuno ci viene presentato attraverso le proprie caratteristiche portanti, l’evolversi della narrazione si fa portavoce dell’assurdo irrompere del caso, creando una serie di circostanze che pongono i singoli personaggi sul ciglio di un burrone. Anche la scelta tipologica dei caratteri coinvolti richiama lo schema dei personaggi delle passate stagioni – poliziotto buono, uomo frustrato e stanco della propria esistenza, gruppo di criminali –, ma nonostante ciò non si ha neanche per un secondo la sensazione di ritrovarsi di fronte a qualcosa di già visto. Il rigore narrativo e stilistico con cui la serie viene costruita ha il potere di conferire al racconto una genuinità sempre diversa, e questo perché Fargo guarda a quella porzione di realtà che si è prefisso di raccontare cercando di ricrearla scrupolosamente.

This is a true story” si legge all’inizio di ogni episodio e, anche se tutti sappiamo che non è una storia vera, riconosciamo quelle logiche e quegli schemi che può prendere la realtà quando il caso, l’incuranza, la semplice stupidità o la disperazione creano la base per compiere errori irreparabili. La vita, per quanto varia e personale, spesso segue logiche riconoscibili e si snoda secondo schemi simili, legati alla grottesca similarità di alcune situazioni. Fargo ricrea queste situazioni, che, per quanto simili, per il semplice fatto di essere ‘vive’ saranno sempre diverse.
Tutte queste considerazioni trovano una simbolica rappresentazione nello spiazzante prologo che apre l’episodio (finora slegato dalla narrazione, eccetto che per il riferimento metaforico allo scambio di persona): 1988, in una Berlino Est ricoperta di neve, un sadico ufficiale interroga un uomo accusandolo di omicidio. Per quanto Jakob Ungerleider possa negare di essere Yuri Ganka, la costruzione della scena, la fredda e persuasiva scelta linguistica dell’ufficiale, il dettaglio sulla neve posata sugli stivali dell’uomo, che si scioglie creando un rivolo d’acqua, riescono a far sorgere il dubbio: colpevole o innocente?
“Non siamo qui per scambiarci racconti, siamo qui per dire la verità” dice l’ufficiale all’uomo terrorizzato, dimostrando come spesso alla verità possa essere sostituito un logico – e, come in questo caso, banale – ragionamento, senza riuscire a scalfire completamente la portata di quella verità che si cerca di dimostrare – in pratica la metafora dell’intero progetto Fargo.

«How’s the Corvette?»
«It’s a car.»


La storia ruota intorno a due fratelli, entrambi interpretati da uno straordinario Ewan Mc Gregor che snatura se stesso secondo due declinazioni completamente diverse: Emmit, il fratello maggiore, con sorriso compiaciuto e folta chioma riccia, e Ray, calvo, sovrappeso e in balia di una fidanzata, una meravigliosa Mary Elizabeth Winstead, che lo tiene completamente in pugno e lo manipola al punto da fargli credere che diventeranno ricchi giocando a bridge – l’ingresso al Wildcat Regional con in sottofondo “Prisencolinensinainciusol” di Adriano Celentano è una chiara rappresentazione di quanto questo piano possa essere assurdo.
Il rapporto tra i due fratelli è incrinato da eventi che risalgono alla morte del padre e alla spartizione – apparentemente non equa – della sua eredità. I dialoghi in merito sono volutamente criptici: non ci sono elementi che diano una prova a favore della versione dell’uno o dell’altro. Per l’economia del racconto non è importante sapere chi ha ragione e chi torto, ma il dubbio che s’insinua è un elemento fondamentale per comprendere la vera natura dei due personaggi, entrambi inaffidabili: se è facile credere che Emmit abbia fregato il fratello, è altrettanto facile pensare che la stoltezza di Ray lo abbia portato a confondere le cose, così come lo conduce a ordire un improbabile piano per impossessarsi dell’antico francobollo. La stupidità del gesto sta proprio nell’ingenua disperazione di Ray che, come un bambino capriccioso, vuole riavere indietro ciò che ritiene gli spetti solo per poter comprare un anello alla sua pretenziosa fidanzata. Non c’è cattiveria nei suoi intenti, Ray non ha intenzione di rubare altro al fratello o di ferirlo in alcun modo: rivuole solo il ‘suo’ francobollo. Ma è proprio questa sottigliezza d’intenti che lo porta a compiere un grossolano errore di valutazione: fidarsi di Maurice – interpretato da un ottimo Scoot McNairy (Halt and Cath Fire) – è una decisione così pessima da lasciar trasparire come Ray non abbia attivato nessun filtro con cui passare dal pensiero all’atto. E quando le azioni fluiscono senza un paravento razionale, il caos prende il sopravvento e si espande come una gigantesca e pericolosa macchia d’olio.

Eden Valley. Triple goddam bingo.

La diatriba familiare dei due fratelli Stussy incontra il corso di un altro Stussy, Ennis, un vecchio alcolizzato che si ritrova vittima della noncuranza di un Maurice depresso e strafatto. Ma Ennis ha una figliastra, Gloria Burgle, sceriffo della fittizia Eden Valley, interpretata da una Carrie Coon (The Leftovers) perfetta nella caratterizzazione del personaggio tipico dell’universo di Fargo, ovvero quel ramo della legge e della giustizia che non si piegherà di fronte all’assurdità degli eventi, e non mollerà l’osso finché le cose non prenderanno una piega che segua una consequenzialità coerente, sebbene insensata.
All’interno di una serie di azioni e reazioni, di cui è vittima lo stesso Maurice, s’inserisce un’altra variante, slegata dalla linearità della narrazione, ma pronta a inserirsi nell’evolversi degli eventi come tragico accelerante: V. M. Vargas – un inquietante David Thewlis – e la sua società, dall’apparenza tutt’altro che cristallina, rompono l’idillio che Emmit crede di vivere, creando i presupposti per una celere e drammatica evoluzione del personaggio.

“The Law of Vacant Places” dipinge un quadro più cupo e meno corale rispetto alle stagioni precedenti: le varie pedine sono disposte agli estremi di una scacchiera già pronta a trasformarsi in un grottesco teatro di guerra.
L’episodio, scritto e diretto dallo stesso Noah Hawley, si snoda con una perizia stilistica che alterna virtuosismo e precisione: la scena è composta secondo parametri ben precisi costruiti con il preciso intento di dare risalto alla caratterizzazione dei personaggi. La regia indugia su inquadrature pittoriche – come la maggior parte delle scene con Maurice –, ma allo stesso tempo si sofferma su quegli elementi che hanno bisogno di un rigore espositivo neutro e diretto, soprattutto nei momenti cardine per l’espletamento della trama. Questa particolare attenzione al dettaglio, sia in campo narrativo che espositivo, è stata capace di dare sostanza e stratificazione a ogni personaggio introdotto, a partire dal bravissimo Ewan Mc Gregor fino allo strepitoso Michael Stuhlbarg, l’indimenticabile Arnold Rothstein di Boardwalk Empire.

Un cast d’eccezione, una scrittura raffinata e funzionale, una regia dosata perfettamente tra stile e rigore rendono questa premiere un piccolo capolavoro, ed è solo l’inizio.

Voto: 8/9
Fargo – 3×02 The Principle of Restricted Choice
Aperta una nuova porta, bisogna iniziare a esplorare la stanza. “The Principle of Restricted Choice” fa suo questo imperativo con il mestiere e il glaciale rigore di Fargo. Dopo la fastosa première, caratterizzata dall’atmosfera di novità e sorpresa, ecco un secondo episodio pronto a inchiodare nella testa degli spettatori le nuove regole del gioco.

La puntata, pur rimanendo su un tracciato puramente narrativo, conferma le promesse del primo episodio: carte in regola e micidiali assi nella manica per triplare il successo passato, confermando o addirittura alzando l’asticella qualitativa. D’altro canto non è facile ignorare i brividi che si accavallano di fronte al doppio McGregor, alle coincidenze sinistre che recintano di tensione anche i più semplici gesti, alla malvagità che costella l’episodio. Tutti elementi già presenti nella memoria “antologica” della serie, che trovano centralità e conferma, importanza e slancio per gli episodi futuri, grazie a tematiche sempre meno sepolte dalla neve. La doppiezza (o su un piano più visuale la diplopia) lega e slega i macrotemi di storia e verità. Quanto sono vicini questi concetti? Quanta parte di verità c’è in una storia e viceversa? Sono forse, storia e verità, niente altro che due gemelli che si fraintendono? La stessa doppiezza si ripropone con cilindrata di diversa potenza nelle relazioni tra i personaggi ed è sicuramente l’asse portante di tutta la vicenda assieme alle fatalità casuali.

L’episodio rifugge da qualsiasi sbavatura e, affidandosi alla sanguinosa cascata di domino innescata dai primi infausti eventi, delinea il naturale prosieguo delle linee narrative. Gloria investiga, Emmit e Sy cercano di capire quale sia il male minore, Varga sposta camion e delega a tirapiedi, i tirapiedi lanciano un avvocato dal tetto, Ray e Nikki discutono riguardo al loro piano: una galleria di umanità mal funzionante, arroccata nella propria idiozia e in una cattiveria ancora tutta da scoprire, con l’unico bagliore che sembra essere rappresentato dalla topica figura del Capo di Polizia, tanto determinata quanto in conflitto con il contesto. La forza immane e necessaria per costruire codici caratteriali riconoscibili senza scivolare nella ripetizione punta il dito dritto a una delle intenzioni degli autori: arredare un mondo nuovo ma familiare per lo spettatore, che diventa capace di cogliere le sottigliezze, libero di interpretarle e deciso a investigarne i dettagli più nebulosi. La narrazione può procedere da sola, per sillogismi logici allo stesso tempo intelligenti e intuitivi, e lasciare aperta una finestra per aggiungere note di considerazioni, analisi, ipotesi.

La puntata funge da esempio lungo tutta la sua durata. In che altro modo intendere i magnifici parallelismi che increspano il dialogo tra i due gemelli, mentre si scambiano verità sotto spoglie di storie e storie sotto spoglie di verità? Lo spettatore legge tutti i doppi sensi dei passaggi dialogati ma comunque non perde appetito per la densa suspense, per i fraintendimenti, i raptus di violenza improvvisa. Nel caso della vicenda del francobollo la trama agisce su due piani: in uno mette a confronto Ray ed Emmit – con il primo che mentendo si scopre sincero e il secondo che ricredendosi si sgrida per il pregiudizio – e nell’altro costringe i due a odiarsi nuovamente alla luce di intrusioni che non dovevano avvenire, cassette dall’uso frainteso e francobolli spostati innocentemente. A questo punto il rancore è una scelta obbligata.

Allo stesso modo l’ambiguità del termine “contratto”, o forse dell’etica di collaboratori poco propensi a prestiti una tantum, intrappola in una strada senza uscita il gemello imprenditore e il suo braccio destro. Inutile dire che i due, tanto pronti a fare i gradassi nella loro giurisdizione (anche se con incompetenze esilaranti, come dimostra l’episodio dell’Hammer nel parcheggio), si vedono completamente assoggettati dal potere e dalle emanazioni “dispotiche” del misterioso V.M. Varga. Il personaggio non si scomoda neanche troppo per dimostrare di essere una minaccia, pronta a sbaragliare chiunque si metta in mezzo a quella che è una trattativa ormai pienamente avviata. La freddezza inquietantemente ben servita da David Thewlis si scontra così con l’ingenuità da imprenditore di provincia di Emmit e la propensione protettiva di Sy, in un triangolo da cui emerge la padronanza degli autori a maneggiare caratteri diversificati ma comunque affini alle ideologie di base della serie. La sottomissione a un potere maggiore diventa quindi scelta obbligata.

Che dire di Nikki e del suo rapporto con Ray? La ragazza è una criminale imprevedibile, che oscilla tra un innamoramento forse figlio della necessità (possibile che ad attrarla a Ray siano più gli “agganci” a soldi facili che la tenerezza e la buffoneria del personaggio) e momenti di emozione sincera o ritrosia estrema verso il fratello “nemico”; è anche lei vittima di una doppiezza che ben si sposa con il contesto e che aggiunge esplosività a un fascino femminile tanto sicuro di se stesso quanto conturbante. L’assassinio di Maurice ha stabilito i rapporti di forza della coppia (nella quale è ovviamente Nikki ad avere il controllo), ma, sebbene l’omicidio sia stato liquidato come incidente, sembra quasi una garanzia che Gloria (appena agli inizi di una indagine tutta tecnofobica) unisca i puntini a poco a poco, per poi usare il disegno come una rete che li catturi entrambi, sgonfi il goffo piano per il sogno di ricchezza e riveli, con l’aggravarsi della situazione, quanto sia solido l’amore provato da Nikki verso il suo agente di custodia.

Si profilano quindi, grazie a un montaggio narrativo oliato con precisione svizzera (o coeniana), situazioni al limite della legalità e della segretezza, frutto della costrizione della quasi totalità dei personaggi a una scelta obbligata. Scelta obbligata che è in primis il risultato dell’assemblaggio tra un restringimento nella lista di scelte disponibili e la doppiezza sopra citata. Si moltiplicano al quadrato verità e caratteri, coincidenze e sfortune: dove il contesto impone una gamma di decisioni difficili, ogni personaggio è in balia di profili e legami sdoppiati da nature deterioranti e scriteriate, che accecano e chiudono le alternative migliori; le vie d’uscita eticamente decenti sono nascoste dall’alta tensione che opprime i personaggi e dalla loro stupidità. Ray è ingenuo prima che assassino e poi assassino proprio perché ingenuo, Emmit è in buona fede prima che in trappola e poi in trappola proprio perché in buona fede. Togliere possibilità di scelta ai personaggi è alla fine un modo per studiare come si comportano in cattività e nella gabbia sempre più violenta della loro realtà assurda.

“The Principle of Restricted Choice” è un ottimo episodio, che conferma le potenzialità di questa stagione lavorando sulle linee narrative, presentando qualche nuovo personaggio e promettendo sanguinosi proseguimenti per tutti. Che ciò si evince dagli attriti dei gemelli, dall’intraprendenza di Nikki, dalla pericolosità di Varga o anche solo da quel “Yuri Garka” (nome dello scagnozzo e dell’uomo nel prologo del primo episodio) che piomba da lontano, dimostra la bravura degli autori nel partire dai personaggi e dalle minuzie per raccontare la natura umana ai suoi estremi.

Voto: 8
Fargo – 3×03 The Law of Non-Contradiction
“L’universo è immenso, e gli uomini non sono altro che piccoli granelli di polvere su un insignificante pianeta. Ma quanto più prendiamo coscienza della nostra piccolezza e della nostra impotenza dinanzi alle forze cosmiche, tanto più risulta sorprendente ciò che gli esseri umani hanno realizzato.” Noah Hawley comprende e rende sua la lezione di Bertrand Russell ed è da questa consapevolezza che ha origine “The Law of Non-Contradiction”, episodio che accantona la dimensione corale caratteristica dello show per concentrarsi tutto su Gloria Burgle, l’intensa protagonista femminile di questa stagione.

La perseveranza della poliziotta nell’indagine sull’omicidio del patrigno riporta alla luce l’identità passata della vittima, una giovinezza carica di ambizioni e speranze disattese la cui riscoperta segna per Gloria l’inizio di un viaggio interiore attraverso inconsuete coordinate temporali e geografiche. Dalle cupe lande innevate del Midwest si passa all’assolata e amorale California, luogo cardine del noir tout court dove i desideri smodati e gli impulsi violenti che, come ci ha insegnato Hawley, albergano in ogni uomo senza distinzione, si manifestano in forme differenti. Parafrasando con arguzia la favola del topo di città e del topo di campagna, Los Angeles ci viene mostrata come lo scenario dell’eterno conflitto tra la semplicità di vedute della provincia e lo spietato cinismo della metropoli; ma l’attenzione è rivolta in particolare alle peculiarità di un mondo, quello di Gloria, orgogliosamente anacronistico e allergico alla modernità.

Nell’episodio precedente la protagonista sottolineava la sua repulsione verso il progresso tecnologico, visto come forma di distanziamento dal contatto umano, e l’esperienza losangelina conferma ulteriormente i suoi timori. Gloria è una donna analogica in un contesto digitale alienato, dove gli uomini non riescono a staccare gli occhi dagli smartphone e trovano nei social media un palliativo alla loro apatia sociale.

Il rozzo tentativo di abbordaggio dell’agente Hunt è in questo frangente illuminante e dimostra una volta di più come la serie si diverta a mettere in luce le inadeguatezze del maschio americano contemporaneo, sempre contrapposte alla ferrea determinazione femminile che trova espressione nella genuina naïveté di Gloria come nell’astuzia maligna della Nikki di Mary Elizabeth Winstead.
Lasciata dal marito per un altro uomo ma non ancora ufficialmente divorziata, Gloria realizza, senza però rassegnarsi, come l’inettitudine maschile l’abbia trasformata in un principio di non contraddizione vivente, una presa di coscienza che avviene attraverso l’incontro apparentemente casuale con Paul Marrane, individuo enigmatico che ha il corpo e il volto di Ray Wise, l’iconico interprete di Leland Palmer in Twin Peaks.

La stessa problematica crisi d’identità sembra essere alla radice del malessere di Ennis Stussy, alter ego anaffettivo di Thaddeus Mobley, aspra figura paterna di Gloria che subisce grazie alle indagini della figliastra una dolorosa rivalutazione. La sfortunata parabola di Thaddeus, giovane talento della narrativa sci-fi inglobato e messo in ginocchio dall’industria hollywoodiana, riporta lo spettatore alle atmosfere frenetiche degli anni Settanta, un ritorno al passato che coincide, sul piano registico, con una ripresa dei canoni stilistici della seconda stagione. L’uso incalzante della musica di commento, il montaggio e lo split screen garantiscono ai flashback dell’episodio l’adesione ai paradigmi estetici dell’epoca, ma servono soprattutto a conferire ad essi una valenza onirica. Il dolore del fallimento è sopportabile se sublimato nella dimensione del sogno, o almeno questa è la lezione che Gloria impara di Vivian Lord e Howard Zimmerman, i responsabili della caduta in disgrazia di Thaddeus; senza indugiare sulle consuete critiche allo star system, l’attrice e il produttore vengono mostrati come gli ennesimi inetti destinati alla sconfitta e spinti ad esercitare il Male dalla loro banale meschinità.

Vittime e carnefici si ritrovano però alla fine accomunati dallo stesso scacco esistenziale, la condanna ad un’esistenza presente segnata da un’identità opposta a se stessa: l’avvenente attrice è ora una vecchia cameriera costretta a rivivere il passato in una fotografia sbiadita appesa a una parete, e quello che un tempo era un facoltoso produttore cinematografico è ormai ridotto a una larva con la voce robotica a cui non resta altro che pontificare sulle imperscrutabili forze del Caso. È proprio sul ruolo cruciale della casualità che si concentra tutta la seconda parte dell’episodio. Nell’universo narrativo di Fargo persone, luoghi ed eventi sono collegati da fili invisibili, coincidenze inspiegabili che sfuggono alle normali logiche di causa ed effetto e solo alla fine si manifestano in tutta la loro ineluttabilità e assenza di scopo. Noi spettatori siamo ormai ben consapevoli di queste dinamiche e non possiamo che rimanere colpiti nel vedere come anche la protagonista riesca ad ottenere questa visione d’insieme. Il viaggio alla ricerca dell’assassino di Ennis si tramuta per Gloria in una presa di coscienza dell’apparente mancanza di senso dell’agire umano e nella scoperta di quel legame padre-figlia che le è sempre mancato, il tutto orchestrato come sempre dalla mano invisibile del Caso.

This is a true story”, ma prima ancora “This is a story”, ed è proprio nelle pagine dei romanzi giovanili di Thaddeus che la protagonista acquisisce una rinnovata consapevolezza di sé. Gloria si identifica totalmente con il protagonista di “The Planet Wyh”, l’androide senza padrone che sopravvive a secoli di soprusi e intemperie senza mai venire meno alla propria volontà di aiutare il prossimo; questo perché Thaddeus conferisce al suo personaggio una stoica resilienza (rappresentata brillantemente nelle sequenze d’animazione che intervallano l’episodio) che trova il corrispettivo perfetto nella determinazione di Gloria come agente di polizia: due meccanismi al servizio della comunità e al contempo osteggiati da essa, destinati a riposarsi soltanto dopo aver portato a termine la missione. L’eredità di Ennis alla figliastra è tutta racchiusa in questa piccola storia e in quel misterioso interruttore, spento e al tempo stesso acceso, che la protagonista porta con sé in Minnesota nel finale dell’episodio a continuo memorandum del suo spirito non contraddittorio.

“The Law of Non-Contradiction” rappresenta uno degli episodi più atipici di Fargo sin dal suo esordio sul piccolo schermo, cinquanta minuti di televisione dalla complessità conturbante che ragionano sul potere rivelatore della narrazione e ci ricordano perché lo show di Noah Hawley rimane il prodotto seriale più interessante in circolazione.

Voto: 9
Fargo – 3×04 The Narrow Escape Problem
Il titolo di questo episodio riprende un problema che accomuna biologia, biofisica e biologia cellulare e consiste nel calcolare il tempo medio di fuga di una particella browniana, confinata all’interno di uno spazio prefissato e avente a disposizione un unico “passaggio” per liberarsi dai vincoli imposti. Non è necessario questo riferimento alla fisica (dopo che negli anni si sono susseguiti rimandi alla mitologia greca, al Nuovo Testamento, all’arte, alla logica, alla cultura ebraica, all‘enigmistica popolare) per sottolineare l’ecletticità di Fargo che, dopo le sperimentazioni visive di “The Law of Non Contradiction“, decide di giocare con la colonna sonora, rendendola parte integrante ed interveniente della narrazione.

Having taken the orchestra to pieces we must put it together again. (The Young Person’s Guide to Orchestra, Benjamin Britten, 1945)

Quando nel 2012 “Moonrise Kingdom” di Wes Anderson uscì nelle sale, gli spettatori si trovarono ad assistere a degli opening credits piuttosto originali. I personaggi principali erano presentati al pubblico sulle note e sulle parole di Benjamin Britten, conferendo un gusto particolare, quasi fiabesco, alla narrazione. Noah Hawley, utilizzando il medesimo espediente introduttivo – in questo caso il sottofondo è “Pierino e il Lupo” (“Peter and The Wolf”) di Sergej Prokof’ev -, ottiene un effetto totalmente opposto, sfruttando un noto espediente narrativo quale la traslazione di elementi infantili in un contesto thriller-horror, producendo così un accostamento ossimorico e destabilizzante. Il fitto sottobosco di significati racchiuso all’interno dell’immaginario bambinesco permette di trasformare l’introduzione di “Pierino e il Lupo”, un’innocua fiaba per fanciulli, nella profetica colonna sonora per le gelide ed ineluttabili distese nevose di Fargo.

V.M. Varga è l’incarnazione di quella forza caotica e brutale che è quasi uno stilema di Fargo; non è un caso che nell’episodio, in cui l‘inquietante forza ipnotica dell’interpretazione cattura lo spettatore, a far da narratore ci sia Billy Bob Thornton (non accreditato ma inconfondibile) che nella prima stagione impersonava la medesima furia distruttrice. Del Varga uomo d’affari conosciamo relativamente poco – eccezion fatta per l’assenza di scrupoli e gli atteggiamenti impositivi -, ma “The Narrow Escape Problem” ci permette di costruire la nostra rappresentazione del Varga uomo; l’aspetto dimesso è parte di una strategia precisa, volta a rimanere al di sotto dell’orizzonte, e la bulimia, lungi dall’essere un semplice disturbo alimentare, gli permette di godere dei piaceri della tavola mantenendo un profilo emaciato, anonimo.

Il personaggio interpretato da Thewlis è un lupo feroce ed inarrestabile, intento in una caccia che fa parte degli istinti naturali ed è estranea ad ogni dinamica edonistica, ma, nonostante l’indomito furore ferino, ci sono aspetti della contemporaneità su cui neppure Varga può esercitare il controllo. Attraverso il suo monologo sul “revanchismo delle masse” Fargo si dimostra maestra nel flirtare con la contemporaneità, accarezzando i temi scottanti del XXI secolo ed evocando le paure latenti dell’ingordo uomo occidentale.
Le gelide ambientazioni giocano un ruolo di primo piano, mostrandoci strade coperte di neve e cittadine congelate nello spazio e nel tempo: immobilizzati dal cielo, gli abitanti del Minnesota si riscoprono estranei al mondo che avanza, incapaci di reagire alla subitaneità di eventi che impongono loro una serie di mosse obbligate.

Mongol hordes descending.

Nell’universo degli scacchi si definisce Zugzwang (obbligato a muovere) una situazione in cui il giocatore di turno, qualsiasi decisione prenda, sarà costretto a subire scacco matto o un’importante perdita materiale. Si tratta di un tòpos caro agli autori di Fargo che amano porre i propri personaggi in contesti con un’unica via d’uscita – e si torna al titolo dell’episodio – e che, in questa stagione, interessa i due uomini interpretati da Ewan McGregor. I fratelli Stussy, a malapena consapevoli della precarietà della loro condizione, coltivano l’illusoria convinzione di essere ancora liberi quando, in realtà, si ritrovano coinvolti in una caccia cruenta, di cui sono attori ma non sceneggiatori, braccati dalle fiere e tratti in inganno da cattivi consiglieri.

Rispetto a ciò a cui lo show di FX ci aveva abituati con le stagioni precedenti, la prima parte della terza annata sta scorrendo più lenta ed espositiva, meno incentrata su una violenza irrazionale incombente che qui, per il momento, latita. In questo contesto riflessivo c’è spazio per un approfondimento dei personaggi che ricevono una caratterizzazione originale, quasi fuori dalle righe. Parliamo della corrosiva bulimia di Varga e, soprattutto, di Gloria Burgle. L’impossibilità, per la donna, di far funzionare le cellule fotoelettriche riecheggia quel gusto verso il sovrannaturale che avevamo già assaporato con gli UFO della scorsa stagione e, soprattutto, sembra indirizzare lo show verso un approccio narrativo in stile new weird.

La curiosa caratterizzazione delle due entità contrapposte – caotico e sovversivo Varga, razionale e normalizzante Gloria – fa da contraltare alla scarsa profondità dei due fratelli Stussy: è un problema abbastanza comprensibile vista la tendenza dello show a mettere in campo forze soverchianti in grado di imporre un cammino ai protagonisti. A risentirne è l’originalità della faida tra Emmet e Ray che intrattiene senza stupire, basandosi soprattutto sulla bravura di McGregor e degli attori che lo circondano.
Sembra questo l’unico difetto di una terza stagione che, dopo due annate coinvolgenti ed imprevedibili, provando a giocare con il mezzo televisivo, perde qualche punto in originalità narrativa, lasciando che il racconto fluisca placido (forse troppo), senza particolari sorprese.

Al netto di questa mancanza, e si tratta di andare a cercare il pelo nell’uovo all’interno di un prodotto tanto valido quanto sottovalutato dal pubblico (lo si fa solo perchè Fargo ci ha abituati a standard elevatissimi), lo show se la cava alla grande. “The Narrow Escape Problem” è un episodio ricco di riferimenti interni ed esterni che lavora con il materiale a disposizione avvicinandosi al punto di rottura definitiva. “Boys like Peter aren’t afraid of wolves” conclude Billy Bob Thornton, ma forse, visti i precedenti e le brutali forze in campo, dovrebbero averne.

Voto: 8

Nota: Un applauso per la scena ambientata dentro la banca con Ewan McGregor – che già di suo interpreta entrambi i fratelli – ad impersonare Ray che imita Emmit. Peccato che gli Awards siano piuttosto insofferenti verso chi interpreta gemelli o sosia perchè l’attore meriterebbe un premio.
Fargo – 3×05 The House of Special Purpose
Come in ogni stagione di Fargo, è arrivato il momento in cui lo show comincia a fare sul serio, quando il puro divertimento dell’assurdo inizia a lasciare spazio alla violenza e all’angoscia, mentre ci viene reso noto in modo piuttosto brutale che ognuno dei personaggi potrebbe essere la prossima vittima.

This is how it feels to be alone at the top of the hill, tryin’ to figure out why.

In questo caso, Fargo piazza proprio a metà stagione un episodio che dal titolo (che richiama la casa Ipatiev, in cui i Romanov vennero massacrati in seguito alla rivoluzione socialista in Russia, dopo averci vissuto per soli 78 giorni) fino ai credits finali (una figura di lupo che si sovrappone alla cover di “Ship of Fools” cantata dallo stesso Noah Hawley) si lega strettamente al precedente “The Narrow Escape Problem” sia continuando a disseminare il racconto di riferimenti alla cultura russa, sia riecheggiando abilmente accenni e indizi sui futuri sviluppi.
Come ricorderete, infatti, il quarto episodio si apriva sulle note di una celeberrima opera russa per bambini, Pierino e il Lupo, composta nel 1936 da Prokofiev sotto il regime staliniano: il lupo/Varga lì appariva all’inizio, mentre qui incombe sui credits in forma di silhouette e permea con la sua narrazione l’intero episodio.

You have made me the happiest woman ever. Now let’s make a sex tape.

L’apertura del sesto capitolo, invece, è con una canzone del cantautore country Mac Davis, “It’s Hard to Be Humble”, satira sulla difficoltà di essere ricchi e famosi che accompagna Emmit nel viaggio verso casa ma fa anche da ironico contraltare al momento di crisi più forte del personaggio finora, ovvero la telefonata della moglie che lo crede protagonista di un sex tape, in realtà (ovviamente) realizzato dal fratello Ray.
Un opening ad effetto che, innescato ancora una volta da una goffa mossa di Nikki, dà coerentemente il via a un episodio che ruota quasi interamente intorno al concetto di verità e alla sua manipolazione, perversione, interpretazione; anche qui è fortissimo il legame con “The Narrow Escape Problem” che ci aveva introdotto ai concetti di pravda e istina, ovvero i due termini russi per indicare la verità, cui si aggiunge nepravda, la non verità (“Untruth is the weapon the leader uses, because he knows what they don’t: that the truth is whatever he says it is.”).

“It never happened!” “That doesn’t make it any less of a fact.”

E questa intera stagione di Fargo sembra essere una satira, neppure troppo nascosta, di questa contemporaneità americana (la Russia, la “fake truth”), esattamente come Pierino e il Lupo, che sotto l’aspetto della favola per bambini cela una serie di indizi che la rendono potenzialmente una satira e un attacco al regime russo.
Il lupo era lo stalinismo, per Prokofiev, troppo ingordo e destinato a soccombere – nella versione Disney, l’anatra inghiottita intera si chiamava Sonya, variante russa di Sophia, nome greco che significa sapienza –, mentre in Fargo il lupo è Varga e la stessa bulimia del personaggio sicuramente è in qualche modo riferita all’ambiguo finale dell’opera.
Un simbolismo che non è mai casuale, quello di Fargo, ma difficilissimo da interpretare come la stessa verità: quella di Ray contro quella di Ennis sul casus belli del francobollo, quella di Varga che cerca di delegittimare Sy per dividere i due soci, quella dei libri contabili falsificati, quella di Nikki e quella di Stella. La verità non come dato di fatto ma come una questione di volontà, perché soltanto chi crede di più nella propria versione dei fatti ed è disposto a fare qualsiasi cosa per i propri scopi può essere in grado di prevalere.

A chicken is an egg’s way of making another egg.

Finora, è il lupo Varga a tenere le redini del racconto, ma nell’opera di Prokofiev a prevalere nel finale sono i personaggi che possiedono l’arte di scappare, come Nikki, e di metterlo in trappola come Peter, in questo caso rappresentato da Gloria. Ancora, non sembra casuale che Nikki sopravviva all’aggressione, dimostrando una forza di volontà e una capacità di togliersi dai guai che ne rafforza la caratterizzazione (e l’affezione da parte dello spettatore), né che Emmit e Ray siano identificati con due uccelli dall’opposto destino; entrambi hanno perso il controllo delle proprie vite e sembrano convergere sempre più nettamente, rendendo ancor più evidente tra l’altro la felicissima scelta di Ewan McGregor per interpretarli. Entrambi sono manovrati da qualcun altro e spinti a uno scontro sempre più feroce, ma anche sempre più slegato dalle ragioni dei loro contrasti iniziali. Tra tutti, sono proprio loro a ricordare maggiormente l’uomo innocente del cold open che apriva il pilot di questa stagione, ma così come la sua, la loro (presunta o relativa) innocenza non può nulla contro le maglie del sistema e le opposte forze che spingono alle loro spalle.

Se la verità, quindi, non è altro che un problema di interpretazione, anche questo episodio di Fargo può essere letto in modi diversi quanti sono i livelli di questa interpretazione: allegoria, satira del presente, racconto morale sulla banalità del male o grande divertissiment di un Noah Hawley in piena forma che sta costruendo una matrioska complessa ed estremamente godibile. Poco importa, in fondo, vista la ricchezza del materiale che la serie ci regala ogni settimana e la qualità incredibile della recitazione e della messa in scena; qualunque cosa sia quello che Fargo ha intenzione di dirci alla fine, ci stiamo senz’altro godendo parecchio il viaggio.

Voto: 8½
Fargo – 3×06 The Lord of No Mercy
Se alcuni episodi centrali di questa terza annata di Fargo sono sembrati sottotono rispetto soprattutto alla passata stagione, con “The Lord of No Mercy” Noah Hawley imprime una virata importante alla stagione e alla storia dei fratelli Stussy in particolare.

La scelta di un unico attore per interpretare due ruoli – e non di un attore qualsiasi, ma Ewan McGregor – è stata sicuramente una delle informazioni che ha destato maggiore curiosità in attesa dell’uscita della stagione, ma a ben vedere la relazione tra i due personaggi è forse uno degli aspetti più deboli finora. Il senso poteva essere una sorta di legame fisico, emotivo e visivo sia interno che esterno alla scena, un mezzo diegetico per sintetizzare la dualità dei personaggi e contemporaneamente sottolinearne la profonda differenza. Il problema però è che di tutto questo abbiamo avuto poca evidenza, perché in fondo la loro rivalità è stata più raccontata che vissuta faccia a faccia, con pochi momenti di raccordo e tanta azione compiuta separatamente.

In questo senso, giunti a metà stagione arriva finalmente il momento sia di inquadrare una volta per tutte il loro rapporto sia, paradossalmente, di chiuderlo. Lo scorso episodio si concludeva con Nikki a terra, devastata dai colpi che le hanno inflitto Yuria e Meemo, gli scagnozzi di Varga, e l’azione riprende ora con la sete di vendetta di Ray che proprio in questa occasione scopre l’esistenza del nuovo socio del fratello, pur non sapendo esattamente né il ruolo né l’esatta connessione tra i due. Le carte si stanno a mano a mano scoprendo e la sensazione è ancora più netta quando l’agente Burgle e l’agente Lopez arrivano finalmente negli uffici Stussy per incontrare Emmit, rivelandogli così altri retroscena della rivalità con il fratello. I tasselli costruiti nei cinque episodi precedenti arrivano a convergere totalmente in questa puntata e allo stesso tempo danno ragione di molte scelte narrative: i due Stussy condividono la profonda passività rispetto al mondo che li circonda, sono esseri che vivono delle spinte che ricevono dalle persone di cui si fidano ciecamente e alle quali si affidano in tutto e per tutto. Loro sono i tipici personaggi di Fargo, goffi, inetti e inadatti al mondo, ma in due maniere molto diverse seppur riassumibili nello stesso modo, perché Ray interpreta il fratello cattivo ma non troppo, un furbastro senza capo né coda, mentre Emmit vive e persiste nella convinzione di essere una persona perbene e che si libera delle sue magagne affidandole ad altri – a Sy per primo.

Nessuno dei due è mai il vero detonatore degli eventi, e infatti non smuovono davvero la realtà ma si lasciano trascinare da questa. Non a caso la voce di Varga nei primi minuti dell’episodio dice “perception becomes reality“: in un senso ancora più profondo, non sono le percezioni a guidare le azioni dell’uomo, ma soprattutto l’istinto, che nasce dalle coincidenze e dall’allineamento di determinate situazioni, che porta poi ad una reazione e quindi innesca l’effetto causa-conseguenza che spinge a vivere la fattualità, la realtà. L’intera stagione (e non solo questa) di Fargo descrive proprio questa ingerenza dell’istinto sugli eventi, che diventano troppo presto ingovernabili e che sorgono da mere reazioni, incomprensioni, errori o semplicemente distrazioni, dove la perdita di un semplice biglietto in mezzo alla neve o un prestito preso troppo alla leggera riescono a costruire un’architettura come questa. L’unico a sopravvivere in mezzo a tutto questo è Varga, che non a caso sarà la persona che Emmit chiamerà dopo aver (appunto) erroneamente ucciso suo fratello, azione non premeditata che segue al confronto più bello e significativo tra i due McGregor.

Pur arrivando relativamente tardi rispetto alla narrazione che nel frattempo è stata fin troppo frammentata, il dialogo ha comunque tutta la forza ed anche il tempismo perfetti per rimettere insieme i pezzi, inquadrando a tutto tondo il senso del “doppio protagonista”, ovvero due uomini molto simili mossi dallo stesso orgoglio e per questo incapaci di arrendersi fino in fondo. Il pezzo di vetro che si conficca nel collo di Ray – dando vita alla miglior scena gore degli ultimi tempi – è il capannone nel New Mexico dove il governo americano avrebbe inscenato l’arrivo dell’uomo sulla luna, è il crollo della borsa, ma anche il panino dell’omicida del re d’Austria: un dettaglio, un tassello insignificante che però costringe la storia ad andare avanti e la realtà a prendere una piega totalmente inaspettata.

Allo stesso modo funzionano le storie di Gloria e Nikki, protette fino a questo momento da una lunga serie di coincidenze. Per la criminale sembrava ormai giunto il momento della sua esecuzione, ma viene salvata – se così si può dire – dalla morte del compagno, e quindi dal tempismo della telefonata di Varga al suo uomo nel volerlo sulla scena del delitto. Tra tutti i personaggi femminili della serie, Nikki è sicuramente la donna villain (concetto ovviamente relativo nel Minnesota di Hawley) più evoluta, perché scaltra, intelligente e molto furba, capace di anticipare e cavalcare le situazioni senza mai perdere di lucidità e che ora dovrà fare i conti con la trappola di un nemico che non ha ancora avuto il piacere di conoscere di persona, una messinscena degna della migliore manipolazione della realtà. Gloria viene salvata invece dalla sua allergia alla tecnologia, quella avversità al computer che per il momento l’ha resa invisibile a Varga, o almeno difficile da rintracciare; ma è qui che entra nuovamente in scena la coincidenza o almeno qualcosa che appare come tale.

Things of consequence rarely happen by accident: è come se esistessero costantemente due livelli ben precisi nel mondo narrato da Hawley, cioè da un lato la non premeditazione che diventa atto pur riconoscendo razionalmente che non dovrebbe accadere, e dall’altro la volontà o comunque il tentativo di sovvertire il flusso indistinto degli eventi e non lasciarsi travolgere. In Fargo i personaggi si muovono sempre su questi due piani e alla fine il testa a testa risolutivo se lo giocano sempre le due persone tra loro più distanti, che si sono incontrate poco di persona, ma le cui azioni le hanno portate a scontrarsi. Ad oggi, per la prima volta, sembrano invece tre i personaggi principali che forse arriveranno in fondo alla stagione: Varga, il vero villain che sembra essere un passo avanti a tutti, Nikki, la scaltra e sexy criminale, e poi Gloria, “il buono” per antonomasia, che agisce secondo giustizia a dispetto della propria incolumità, un buono inedito, strambo, spontaneamente genuino.

“The Lord of No Mercy” è, in tutti i sensi, un episodio centrale e fondamentale per questa terza stagione di Fargo, in grado di mettere a fuoco tutte le potenzialità della storia vista finora, riuscendo sia a fare da raccordo sia a dare nuova linfa per attraversare perbene la seconda metà di stagione.

Voto: 8½
Fargo – 3×07 The Law of Inevitability
Le azioni umane adombrano sempre un certo fine, che può diventare inevitabile, se in quelle ci si ostina. Ma se vengono a mutare, muterà anche il fine.
Charles Dickens

Il celebre Canto di Natale di Dickens è il sottofondo e l’ispirazione dell’intero “The Law of Inevitability”, la cui narrazione approda a un’atmosfera sempre più cupa, figlia dei terribili ed incontrollabili eventi della precedente puntata.

And then the jackals, laughing in the dark, trying to pick the meat off your bones.

L’aria macabra che si respira in questo episodio si scontra volutamente con le tenere e confortevoli decorazioni natalizie presenti in St. Cloud, concorrendo alla messa in scena di un certo ossimoro visivo che aumenta la qualità della fotografia – qui ancora più simbolica – e che guida abilmente la narrazione verso gli aspetti più introspettivi delle personalità dei nostri personaggi.
La puntata segue gli eventi immediatamente successivi all’assurda morte di Ray che, seguendo la tipica scia di una crudele e sottile contingenza, prepara gli sviluppi di questa seconda metà della stagione. La maggior parte dei minuti è dedicata infatti alle ripercussioni – soprattutto psicologiche – della dipartita dell’uomo sui principali personaggi di Fargo.
L’episodio (e l’intera serie) continuano a ribadire quanto siano inutili le azioni e i desideri degli uomini di fronte alla grande forza del caso, la cui indifferenza colpisce duro chiunque cerchi di ergersi contro di esso, fino a rendere ben chiaro che nessuno stratagemma, per quanto ben architettato, può proteggere l’uomo dalla perenne caducità della propria vita e dalla confusione che ne consegue.
Un dettaglio minuscolo può cambiare repentinamente il corso degli eventi, e nulla di ciò che gli uomini cercano di fare ha il potere di cambiare gli effetti da esso provocati: ognuno è destinato a piegarsi davanti all’inevitabilità, appunto, di questa crudele condizione esistenziale.
E allora a nulla servono le calde decorazioni natalizie presenti nell’episodio, né le maschere sorridenti e amichevoli dei conoscenti: i protagonisti di Fargo non possono che essere schiacciati dal peso di eventi più grandi di loro, la cui repentina deriva trascina con sé ogni speranza di tornare indietro, costringendoli ad inserirsi in un sistema cupo e crudele – “It looks like my world, but everything is different.

I castelli di carte costruiti da Emmit e da Sy vengono quindi abbattuti dal semplice soffio di V.M. Varga, le cui macabre e sofisticate macchinazioni gli permettono di divorare tutto ciò che prima apparteneva ai due. La puntata è infatti costellata di immagini di lupi e di orsi feroci, elemento che sottolinea ulteriormente la gelida “voracità” di Varga e dei suoi uomini nei confronti dei due colleghi, ormai completamente privati della possibilità di scegliere per le proprie vite. Non stupisce, quindi, vederli cadere in una crisi nervosa che rischia ulteriormente di peggiorare la situazione – come dimostra la scena al ristorante in cui Emmit si è quasi messo sotto scacco da solo o lo scoppio incontrollabile del pianto di Sy.
Varga agisce e modifica gli eventi subdolamente, rivelandosi (insieme ai suoi scagnozzi) come una tetra e ironica parodia dei fantasmi del Canto di Natale, pronto a punire severamente l’avarizia e la cupidigia di Emmit e del suo collega, plasmando il loro passato, presente e futuro attraverso una continua manipolazione della verità, i cui contorni non sono mai stati così labili – “You think you see me, but your eyes are lying.
Il villain interpretato da un impeccabile David Thewlis sembra conoscere molto bene il celebre pensiero di Friedrich Nietzsche secondo cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni: la percezione della realtà si rivela più importante della realtà stessa; e Varga dimostra di saper ben orchestrare le fila di questa percezione collettiva, cancellando ciò che è stato e sostituendolo con una nuova “true story”, che rende esistente solo ciò che è percepito.

She likes to think she’s a smart one.

Se Emmit e Sy sono costretti a sottomettersi al gioco di V.M., l’unica a tentare il dissotterramento dei fatti è Gloria, uno dei pochi personaggi “buoni” costretti a subire le conseguenze di situazioni surreali innestate da sistemi e/o persone che nulla hanno a che fare con loro. La narrazione di personalità positive catapultate in un contesto ostile è un tema cardine di Fargo, che concorre a ribadire non solo la casualità del destino, ma anche la pungente e sadica ironia di quest’ultimo, continuando a tingere la serie di un sottile esistenzialismo che rende la narrazione più contemporanea e sofisticata.
I continui tentativi della donna di gettare luce sui collegamenti fra i tre omicidi sono continuamente bloccati dall’ottuso scetticismo dei colleghi, mettendo in scena una situazione dai toni ironici e grotteschi, che ricorda molto quella dedicata a Molly Solverson nella prima stagione, sottovalutata allo stesso modo. Tutto questo alimenta la narrazione di Gloria di un’insopportabile frustrazione, concorrendo ad avvicinarla agli spettatori, i quali troveranno difficile non simpatizzare con un personaggio che, nella sua sfortuna, riesce a rimanere così giusto e determinato.

Follow the money.

È in questo contesto che la storyline della donna incontra, per qualche momento, quella di Nikki, la vera vittima dell’episodio. Costretta a vedersela con l’improvvisa perdita del promesso sposo e, come se non bastasse, con l’accusa del suo omicidio, Nikki è ormai ben lontana da quel personaggio vivace ed esuberante che abbiamo conosciuto in principio. Abbattuta fisicamente ed emotivamente, la donna si trova ben presto in balia di eventi sempre più catastrofici, che velocizzano repentinamente la narrazione della parte finale della puntata in un crescendo di intensità.
L’intera scena del suo (mancato) trasferimento, oltre ad essere coinvolgente ed esteticamente splendida, permette l’aggiunta di ulteriori eventi tragici e inaspettati – volti ad introdurre la narrazione dei prossimi episodi – e il fugace ritorno di una faccia conosciuta, alimentando la conclusione di ulteriori enigmi e colpi di scena.

“The Law of Inevitability” è quindi un episodio di transizione che rafforza la qualità narrativa ed estetica della serie, permettendoci di indagare sottilmente i repentini cambiamenti interiori dei suoi protagonisti e contribuendo a preparare gli spettatori alla narrazione delle prossime puntate.
La creatività di Noah Howley rende ormai difficile prevedere ciò che avverrà in seguito, ma possiamo ormai affermare che, con questa terza stagione, il suo lavoro continua senza dubbi a meritare la nostra fiducia.

Voto: 8½
Fargo – 3×08 Who Rules the Land of Denial?
Per sette episodi, questa terza stagione di Fargo si è portata dietro un velo di critiche: il distacco con le altre due annate e l’impostazione più misurata hanno portato a degli sviluppi lenti, (con qualche eccezione) prevedibili, privi dei guizzi – narrativi e stilistici – che costellavano ogni ora della scorsa annata. Fermo restando che una tale scelta di struttura non può essere casuale, ecco che i guizzi sono arrivati: “Who Rules the Land of Denial?” è il coniglio nel cilindro di Noah Hawley, la scossa che ribalta la stagione, ne scopre un’altra faccia e la catapulta verso la sempre più vicina conclusione.

Fino ad ora, si diceva, la scelta di impostazione degli episodi aveva privilegiato uno sviluppo più misurato, posizionando le pedine prossime allo scontro fin dalla premiere e proseguendo, invece, in maniera inesorabile ma lenta verso la loro collisione. Non sono mancate le sorprese, certo (si pensi all’incidente con Ray del sesto episodio), ma le aspettative riposte sui ritmi della narrazione non potevano che essere diverse dopo un’annata col piede sull’acceleratore come la scorsa (e anche, in maniera lievemente minore, la prima). Ed è in questo che sta uno dei lavori più importanti di Hawley: nel (parziale) distacco dal passato in termini di contenuti e storie raccontate, creando un’antologia capace di mettere un pezzo vicino all’altro e di costruire un progetto più grande della somma delle sue parti.
È una scelta che si fa obbligatoria quando si tratta di serie antologiche, una scelta che crea anche lo spunto per il gioco sulle aspettative che lo showrunner mette in scena ogni anno: e così si passa dall’impostazione centrata sul rapporto protagonista-antagonista della prima stagione a quella corale della successiva, per poi mantenere la pluralità di personaggi costruendo, però, una narrazione che evita e rimanda di proposito le svolte per cui mette le basi. C’è da dire che, per quanto un impianto di questo tipo abbia del tutto senso, non sempre ha funzionato e ha portato, in qualche caso, a momenti di stanchezza narrativa a fronte di uno stile forse fine a se stesso; un problema, tuttavia, evitato da questa seconda parte di stagione e da questo episodio in particolare, in cui il gioco sulle aspettative nasconde molto, molto di più.

In quanto in linea con l’andamento e lo stile finora adattati, la seconda metà dell’episodio è la più utile a comprendere questo fatto. La scelta che salta subito all’occhio è di sicuro il salto temporale adottato, un’ellissi in cui, al contrario di quanto visto nella prima annata (in cui cambiava praticamente tutto), gli eventi che ci siamo persi sono soprattutto introspettivi, lasciando la situazione molto simile a prima. È una formula che, come si diceva, ribalta le aspettative dello spettatore in quanto diversa da un’altra identica già utilizzata, ma c’è di più: il sottotesto che ne nasce è anche e soprattutto tematico.
Uno dei concetti più ricorrenti di questa annata, infatti, sta nella resistenza al cambiamento che la nuova epoca sembra portare. In parte, ciò si traduce in un cambiamento di carattere: il Lester della prima stagione non era poi tanto diverso da Emmett, un uomo forzato dalle buone intenzioni di cui fuoriesce inevitabilmente l’anima violenta e perversa; la differenza è che Emmett rimane schiacciato dalla passività, non riuscendo a far emergere il suo lato negativo se non in goffe ed involontarie situazioni. La solidità di un personaggio all’inizio visto come bidimensionale sta proprio in questo fatto, emerso prepotentemente a partire dall’incidente con Ray: il fratello maggiore è sempre incapace di reagire in maniera appropriata, e il suo difetto principale sta proprio in questo. Un difetto che si è realizzato fin dall’inizio nel non opporsi all’arrivo di Varga e dei suoi soci, e che è proseguito in questo caso con la perdita (forse definitiva) di Sy.

L’altro risvolto del tema di questa stagione riguarda la rigidità di una cultura, se non delle istituzioni in generale: la storia di Gloria parla di un sistema bloccato dalla burocrazia e dal maschilismo, in cui i ruoli sono definiti in partenza e il raggio d’azione della donna finisce per essere interrotto in continuazione. Se si pensa all’evoluzione dei processi investigativi rappresentati nel tempo, ciò appare piuttosto chiaro: Lou Solverson, negli anni Settanta, ha dovuto affrontare un problema esterno, ma ciò non si è mai tradotto in difficoltà con i propri colleghi; un problema che è sorto con la figlia, in parte bloccata da un superiore ottuso che si è saputo infine fare da parte. La situazione di Gloria è ben più grave: il caso è forse il più semplice affrontato nella serie (la donna arriva vicina alla soluzione con una rapidità disarmante), eppure il più grande ostacolo incontrato è il sistema di ruoli che è diventato ormai invalicabile e che rende la cecità del superiore impossibile da contrastare. Se non fosse stato per i blocchi ricevuti dai superiori, Gloria sarebbe già arrivata alla risoluzione del caso: una gran parte delle cause di questo nuovo disastro viene proprio dall’interno.

That’s the nature of existence: life is suffering. I think you’re beginning to understand that.

Ma questo ottavo episodio non sarebbe la svolta di cui si parla se non fosse per la sua prima metà, una mezz’ora scura e cupa che conferma Noah Hawley come la persona più adatta a gestire un universo come quello di Fargo e della filmografia dei Coen in generale. A partire dalla conclusione della scorsa puntata, infatti, l’ampliamento di questa stagione è stato vertiginoso, passando da una storia finora indipendente ad un racconto che tocca i vertici più disparati: e si pensa all’introduzione di Mr. Wench, il killer sordomuto che abbiamo incontrato nella prima annata; alla coppia che passa casualmente sulla scena dell’incidente e finisce giustiziata al lato della strada, in un omaggio al film originale del 1996; e ovviamente alla sequenza nel bowling, con Ray Wise a sostituire Sam Elliott (il movimento di macchina che li presenta è identico) in un’incredibilmente riuscita ripresa di The Big Lebowski.

Ma non è nella semplice citazione la magia di Hawley: sta tutto nella rielaborazione. Gli elementi “presi in prestito” dai Coen o dalle altre stagioni non sono mai giochi di prestigio fini a se stessi, ma servono uno scopo narrativo e tematico ben preciso, ampliando allo stesso tempo un universo che si serve delle soluzioni più diverse per renderle ancora più significative di prima. E allora il racconto di Giobbe, il perno centrale di A Serious Man dei Coen, viene riportato in vita per potenziare una scena che già in sé è densa e profonda, che, anche senza scomodare il film del 2009, ha già come tema principale il divino (o il Fato, o il caso) e il suo intervento negli eventi terreni. Si tratta, fra l’altro, di una gestione delle atmosfere che non ha bisogno di commenti, a partire dall’intera sequenza dell’inseguimento (che tra violenza, ironia e cupezza pare direttamente girata dai fratelli in persona) per arrivare alla splendida enigmaticità del dialogo con Paul Marrane, una scena che nella sua ambivalenza racchiude lo spirito migliore della serie. Non è chiaro se si tratti di un limbo ultraterreno o di un’allucinazione per le ferite subite, ma la potenza della situazione è ciò che rende la risoluzione del dubbio superflua – così come la reincarnazione di Ray in un gattino prescinde dal senso logico che le si vorrebbe dare per agire esclusivamente tramite la sua valenza simbolica.

È in sequenze come questa, sicuramente tra le più belle dell’intera serie, che si riconosce la grandezza di Fargo: una serie che riesce ad essere forte ed indipendente pur citando in continuazione, che supera la concezione tradizionale di racconto televisivo per costruire nuovi standard qualitativi. Perché si potranno avere più o meno dubbi sugli episodi che lo precedono, ma “Who Rules the Land of Denial?” è un esperimento che dimostra la capacità della serie di creare qualcosa di straordinario.

Voto: 9
Fargo – 3×09 Aporia
La follia che permea l’universo di Fargo ci sta portando ormai vicinissimi al finale di stagione, preparandoci a rimanere sempre a bocca aperta sulle soluzioni trovate dagli autori, che portano i personaggi su strade per loro del tutto oscure e incomprensibili.

A lie isn’t a lie if you believe it’s true, do you think that?

L’impossibilità di dare una risposta a un quesito, di fronte a due soluzioni che apparentemente sono entrambe valide: è questa la definizione di “aporia”, letteralmente passaggio impraticabile, strada senza uscita.
Emmit Stussy è il primo a trovarsi in questo vicolo cieco, sopraffatto dal dolore, dal peso insostenibile del rimorso, costretto a fare i conti con la realtà. Ma quale realtà? Qual è davvero la soluzione del problema che ha? È lì davvero per confessare un omicidio o solo per cercare di farsi confortare, sperando che anche la polizia dica che è stato un incidente? Il discorso confuso che fa a Gloria sembra dimostrare questa sua doppia anima, quando sappiamo benissimo che sì, l’impatto col vetro è probabilmente fortuito, ma la sua immobilità durante l’agonia di Ray racconta tutt’altro.

Il diabolico piano di V.M. Varga teso a scagionarlo in modo che non racconti nulla dell’organizzazione che ha preso il controllo dell’azienda degli Stussy ci riporta a quella definizione assurda e nera della vita tanto cara ai fratelli Coen e agli autori di questo prodotto televisivo. La sequenza con cui si apre l’episodio è come sempre emblematica senza alcun bisogno di spendere nemmeno una riga di dialogo: l’azionamento degli irrigatori durante un giorno del rigido inverno del Nord Dakota non ha nessun senso, se non quello di riportarci alle dimensioni del no sense, com’è la concenzione del male di uno dei personaggi più ributtanti e mefistofelici dell’intera serie.

You think the world is something, then it turns out to be something else.

L’indiscussa protagonista della stagione, Gloria Burgle, si trova nella stessa situazione metaforica di Emmit: se da una parte ha trovato il bandolo della matassa, insistendo anche contro tutto il suo dipartimento, dall’altra si trova a combattere contro i mulini a vento che probabilmente si trovano nella calotta cranica del nuovo Sceriffo, che non vede quanto il piano di Varga sia talmente lineare, perfetto e facile da individuare da puzzare di falso da chilometri di distanza.
È quasi struggente l’abbandono contro forze troppo più grandi di lei della Burgle, che passano dal male senza freni dell’organizzazione di Varga alla stupidità infinita dei suoi colleghi: per questo è fondamentale la presenza della collega-amica Winnie Lopez, ancora di salvezza in un mondo che fa delle certezze un pezzo di carta in balia del vento.

Proprio Gloria è simbolo dell’assurdo, di quei momenti nella vita del tutto impronosticabili che cambiano la tua visione del mondo in un baleno: dalla storia ridicola del marito che di punto in bianco si scopre gay (“Disse che mi voleva bene, ma non mi amava davvero. E io che pensavo fosse un tutt’uno”), alla sua presunta invisibilità alla fotocellule. Tutta questa assurdità che la circonda e che la schiaccia, facendole dubitare addirittura di essere vera – “Questa è una storia vera”, recita l’ironico incipit di tutte le puntate – può essere risolta solo in un modo: con un abbraccio fraterno.

The problem is not that there is evil in the world, the problem is that there is good.

Infine c’è Varga, lupo cattivo della favola che in una bellissima sovrapposizione di immagini da espressionismo tedesco fa un sol boccone del malcapitato Emmit.
Varga è l’incarnazione del male sclerotico, quel caos guidato sì da un fine – sembrerebbe come al solito un motivo economico – ma che non ha nessun freno sulla strada per raggiungerlo. Il personaggio interpretato da un immenso David Thewlis si trova per la prima volta in difficoltà, messo all’angolo da una donna, per di più molto arrabbiata: la bella e velenosa Nikki Swango è protagonista del vis à vis del centro congressi, una sequenza che è come una partita da cui esce con uno scacco importante, che mette Varga in una situazione in cui non si era mai trovato, ovvero con le spalle al muro.

La frase che abbiamo scelto come titolo del paragrafo può essere presa come tagline dell’intero show, dove un male del tutto impazzito e senza argine viene spesso battuto dalla tenacia di chi crede ancora nelle cose giuste che possano in qualche modo aggiustare tutte le stranezze e le ingiustizie di questo mondo.
Varga è fisicamente infastidito da chi cerca di seguire le regole, dalla ricerca della verità che troppo spesso ha tentato di modificare a suo piacimento. Anche qui, quindi, si ritorna sul concetto di aporia: Nikki Swango sta facendo del bene o sta solo agendo per tornaconto personale, contro il personaggio più cattivo di tutti? Ci troviamo di fronte ad un altro quesito che non può avere una risposta certa, così come lo è il dubbio su cosa sia meglio fare nella vita: seguire le regole e perdere spesso o infrangerle per vincere più velocemente?

“Aporia” prepara perfettamente il terreno per il finale, in cui tutti i personaggi sono appesi un filo e dove la soluzione di tutti gli intrecci è ancora ben nascosta ai nostri occhi.
C’è anche tempo per una citazione cinematografica, che non è solo un tributo a I soliti sospetti, non è solo una riproposizione delle celebri sequenze dell’interrogatorio con Kevin Spacey, ma soprattutto la definizione di un qualcosa di non capibile e misterioso come tutto il male che ci circonda: “La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è stata convincere il mondo che lui non esiste”.

Voto: 7/8
Fargo – 3×10 Somebody To Love
Il progetto Fargo di Noah Hawley si è imposto sin dal suo esordio come una vera e propria scommessa, soprattutto perché si misura con un film da molti considerato uno dei capolavori dei fratelli Coen e perché, di conseguenza, gira intorno ad una tematica ben precisa e che non è così facile declinare.

Il nucleo della storia è il fato, un concetto che porta con sé tutte le assurdità della vita, della realtà, che diventano uno strano incrocio di situazioni che, se viste frammentate e separate tra loro, sembrano non avere senso; ma, a mano a mano, queste prendono una forma proprio grazie al loro essere strettamente collegate e subordinate tra loro, tanto da risultare alla fine (paradossalmente) logiche. Ma continuare a dipanare e sviluppare questo tema mantenendo sia i contenuti che lo stile diventa sempre più arduo di stagione in stagione, soprattutto ricordando il lavoro strepitoso – e attualmente insuperato – fatto con la seconda stagione. Per quanto questa terza annata sia stata significativa e alla fine dei conti riuscita, ha sicuramente avuto delle puntate centrali più deboli e lente rispetto al rush finale, che infatti ha messo in fila due episodi strepitosi e che hanno degnamente chiuso la stagione e forse persino la serie, non ancora rinnovata per una quarta annata.

Rispetto alla già citata seconda stagione, questa terza ha maggiori similitudini con la prima, di cui ha recuperato moltissime caratteristiche, a partire dalla poliziotta donna, per passare al villain singolo che, sebbene in questo caso dotato di un minimo di scagnozzi a suo seguito, agisce soprattutto in solitaria, fino al protagonista – qui sdoppiato – simbolo di quella debolezza umana tanto cara sia ai Coen che ad Hawley. Il vero elemento di distinzione è il personaggio di Nikki Swango, una donna capace di tenere testa al villain protagonista e che, in una maniera tanto affascinante quanto sottile, si impone come un essere ibrido tra un’eroina sui generis e una semi-villain. Nikki è una criminale, un’assassina, e su questo non c’è alcun dubbio, ma le sue azioni risultano per molti versi più pulite di quelle di Varga, perché mosse da un’avidità personale che si sostiene sul suo enorme istinto di sopravvivenza prima, e sulla voglia di vendetta poi. In questo “Somebody To Love”, la sua posizione diviene ancora più chiara e tutto il suo piano per sconfiggere Varga è in fondo un passaggio necessario per punire Emmit. Ed è l’incastro di queste situazioni a rendere interessante non solo la puntata finale, ma di riflesso il resto della stagione.

Emmit rappresenta invece il perdente per eccellenza, che non a caso gode solo delle conseguenze delle azioni altrui, incapace di compiere delle scelte e portarle al loro compimento; ed è emblematica, in questo senso, la scena in cui, costretto a firmare i documenti per la cessione della sua compagnia, cerca poi di svincolarsi impugnando la pistola di Meemo, ma è troppo debole per arrivare fino in fondo e, non a caso, finirà letteralmente a tappeto. Tutta la sequenza della trappola ordita da Nikki e il suo muto complice si consuma infatti mentre Emmit è steso a terra, ignaro dello spargimento di sangue che si sta compiendo in un’altra zona della città e che gli salva la vita per l’ennesima volta, perché porta via Varga e la sua squadra d’assalto lontano da lui, per poi ritrovarli semplicemente morti. Però a sopravvivere sarà ancora una volta l’antagonista grazie alle sue innumerevoli risorse, ovvero la complicità di Mrs. Goldfarb che ha tramato alle spalle di Emmit sin dal primo momento, uscendone ora come una delle pochissime vincitrici. E in fondo la definizione di “vincitore” in un contesto come quello di Fargo ha ovviamente delle connotazioni ambigue, una doppia faccia come più o meno qualsiasi elemento nella storia, perché nel caso stesso della vedova Goldfarb non sappiamo quanta sudditanza fiscale e psicologica abbia Varga su di lei, per esempio.

Al di là della questione meramente fattuale, l’ambiguità delle situazioni viene proprio dall’elemento già citato del fato, che si manifesta nella perfetta e assurda tempistica del messaggio della donna al villain, o ancora nell’apparizione del poliziotto sul ciglio della strada durante il faccia a faccia tra Nikki ed Emmit. Poco prima, sulla fronte dell’uomo era attaccato il famoso francobollo della discordia, il piccolo pezzo di carta che aveva innescato la faida tra i due fratelli, Caino ed Abele che lottano per invidia; svuotato ormai di ogni significato o valore, lo vediamo buttato a terra senza cura. E allora la vendetta di Nikki per noi ha ancora più senso, perché va a punire sì un omicidio, ma soprattutto il profondo egoismo di un uomo la cui debolezza appare come un vero e proprio difetto congenito, qualcosa di imperdonabile in un certo senso. Eppure, nonostante tutto, chi sopravvive alla sparatoria sarà ancora una volta Emmit a cui vengono donati altri cinque anni di vita, finché non sarà definitivamente punito dall’azione volontaria di una persona che porta a termine il lavoro per profonda gratitudine. E qui finalmente il cerchio si chiude, sigillando con quella morte la chiusura del fato e la vittoria della scelta, della premeditazione.

Ma il cerchio più grande che circonda le situazioni interne, cioè quelle dove i protagonisti sono uno contro l’altro ma su tanti fronti diversi, è una parte ancora più importante da chiudere e ci arriviamo con il confronto finale a carte scoperte tra Gloria e Varga. Una delle capacità più raffinate e importanti di Fargo è la costruzione di tanti tasselli intersecati tra loro ma che per molto tempo non si incontrano, che lo spettatore collega in quanto seduto in una posizione privilegiata di onniscienza, mentre internamente c’è questa continua difficoltà di mettere uno davanti all’altro le persone giuste.

Quindi, se da un lato abbiamo lo scontro finale tra Nikki ed Emmit, dall’altro l’episodio sceglie di chiudersi sul confronto tra Varga e Gloria, i due personaggi più lontani tra loro, che il destino ha messo sulla stessa strada partendo da punti molto lontani e lo ha fatto sulla pelle di tutti gli altri protagonisti. Rappresentano lo scontro tra bene e male, tra criminalità e giustizia; è l’argomento primigenio del mondo, qualcosa di antico ed ancestrale che nelle storie viene perennemente raccontato e declinato. Qui ha appunto la forma di una donna poliziotto schiaffeggiata dalla vita in troppe occasioni, ed un uomo senza passato né presente né futuro, che descrive se stesso come appartenente al cielo e non ad un posto specifico sulla terra: bene e male, ma anche concretezza contro astrazione. Ed il colpo di genio di Noah Hawley è proprio la scelta di non dichiarare un vincitore, di non dare una risposta definitiva, perché non è possibile definire se il bene sconfigge il male o viceversa; è molto più importante mettere in risalto come queste due cose possano combattere ad armi pari, nonostante tutto. Un’altra riflessione inevitabile che ne segue è che la porta che non si apre sia anche un modo per concludere la serie Fargo nella sua interezza, come a dire che la risposta è demandata allo spettatore che può costruirsi il suo finale, ora che ha in mano tutti gli elementi per decidere.

Con questo doppio dubbio circa il bene vs. il male e se questo sia un finale di stagione o di serie si chiude la terza annata di Fargo, uno dei prodotti più belli ed interessanti della televisione attuale, iniziato nello scetticismo generale e che è invece arrivato a convincere davvero tutti.

Voto episodio: 8,5
Voto stagione: 8–
Fargo – Stagione 4
Più di tre anni dopo la terza stagione, Fargo torna sui nostri schermi, anticipato da molti dubbi circa la necessità di proseguire una serie che già aveva mostrato chiari segni di mancanza di idee con la precedente annata.

Ci trasferiamo questa volta a Kansas City, nel Missouri degli anni Cinquanta, dove è in atto una lotta per il potere tra la famiglia criminale italo-americana dei Fadda e quella afro-americana dei Cannon. Sullo sfondo di un’America da far-west, si sviluppa una guerra tra le comunità marginalizzate dal razzismo, uno scontro che si trasforma in una lotta non solo per il dominio, ma per il riconoscimento di un ruolo e un’identità.

Cosa vuol dire essere americano? Ma soprattutto, come si diventa americani? Sembrano essere queste le domande centrali di questa nuova storia di malavita, intorno alle quali si sviluppano le vicende di un’enorme quantità di personaggi. La serie di casa FX cerca di evolversi, mettendo in scena questioni calde nel dibattito contemporaneo, ma lo fa in estremo ritardo e soprattutto rimanendo ancorata ad uno stile e un linguaggio che, invece, fanno estrema fatica ad aggiornarsi. Del resto, anche il cinema dei fratelli Coen a cui la serie si ispira, se da una parte ha segnato in maniera indelebile tutto il precedente decennio, dall’altra ha decisamente faticato ad affermarsi in quest’ultimo.
Come se non bastasse, in questa quarta stagione Noah Hawley omaggia i Coen che omaggiavano a loro volta Scorsese e Leone, in un continuo citazionismo che sa di stantio e perde di rilevanza con la contemporaneità. La sensazione è dunque che questa quarta stagione sia un (disperato) tentativo sbrigativo di rilanciare la serie dopo così tanti anni, senza però saperne rielaborare stile e linguaggio.

E Hawley questo probabilmente lo sa, e tenta di usare il suo genio creativo e visionario per nascondere le crepe di una storia, che se non fosse per la quantità enorme e ingiustificata di personaggi e storyline, potrebbe essere ridotta ai minimi termini. Hawley la trascina, invece, per undici episodi e, nel tentativo di elevarla costruendo scene di grande impatto e creatività una dietro l’altra, ottiene solo l’effetto di rallentare il ritmo e dilungare ogni passaggio narrativo in modo spesso estenuante.
Se del resto spendi una stagione intera a costruire singole bellissime scene una dopo l’altra, finisce che queste perdono alla lunga di valore e tendono ad assomigliarsi tutte. La lentezza era uno dei tratti distintivi della serie, ma l’ostinarsi a costruire intorno ad ogni singolo minimo plot-twist scene dalla lunghezza smisurata, caratterizzate da un manierismo eccessivo, e farcite da interminabili monologhi ricchi di frasi ad effetto sull’America e parabole di vita (che purtroppo solo un paio di attori del cast riescono a sostenere), finisce per far perdere di vista le motivazioni che ci dovrebbero spingere a seguire queste vicende.

La storia vorrebbe essere come una sorta di lunga partita a scacchi, in cui i due avversari passano un tempo infinito a muovere pedine per studiarsi e attuare strategie prima di sferrare un attacco. Il problema è che, con così tanti personaggi da gestire e muovere, si ha spesso la sensazione che la storia continui a girare su se stessa e si muova in maniera estramemente lenta, senza che si crei alcun crescendo di tensione. Si ha costantemente la sensazione che la messa in scena voglia far intendere che stia per succedere qualcosa che, però poi, a conti fatti, non accade mai, e non aiuta l’uso di alcuni personaggi la cui unica funzione è il loro essere mine vaganti, schegge impazzite che intervengono come deus ex-machina in modo conveniente a risolvere la tensione o a rimescolare le carte.

Dal manierismo della messa in scena alle forzature di ogni passaggio narrativo, si finisce per avvertire una sensazione di artificiosità in un racconto che avrebbe potuto essere risolto con meno della metà degli episodi e meno della metà dei protagonisti. Questo impedisce ogni sorta di connessione con i personaggi, i quali rimangono freddi e semplici divulgatori di lunghi monologhi pseudo-esistenzialisti. I malvagi duri e puri non hanno il fascino di Malvo o Varga delle precedenti stagioni, e anche i più innocenti e umani come Etherilda o Milligan rimangono troppo spesso ai margini della storia.
Non aiutano purtroppo scelte di casting stranamente sbagliate per una serie che invece ha sempre brillato proprio per le sue grandi interpretazioni. Chris Rock sembra in molte scene la caricatura involontaria dello stereotipo di un gangster, con troppi momenti di recitazione eccessiva, mentre anche Jessie Buckley, nei panni dell’infermiera omicida Oraetta Mayflower, non riesce a dare spessore ad un personaggio che è solo un mix di tic e movimenti scattosi.

In questo senso, dispiace dirlo, ma anche il nostro Salvatore Esposito non sfrutta l’occasione di un ruolo da primissimo piano in una serie americana: il suo Gaetano è una parodia mal riuscita di qualcosa a metà tra il Joker di Batman e Palla di Lardo di Full Metal Jacket, con una recitazione che sembra quella di un attore alle prime armi a cui viene chiesto di fare costantemente facce da cattivo e psicopatico. Non lo aiuta il fatto di interpretare il fratello dell’unico attore che effettivamente riesce a portare un risultato soddisfacente, un Jason Schwartzman in grande spolvero e forse alla prova migliore della sua carriera. Unico faro nel buio totale si dimostra Timothy Oliphant (ma anche lui poco utilizzato), uno dei pochi che può sostenere monologhi interminabili senza mai stancare, dopo anni di carriera passati a fare pratica su Justified (e non è un caso che, furbamente, il suo personaggio sia in tutto e per tutto la versione mormona del suo Raylan Givens).

Noah Hawley ha in sostanza usato la quarta stagione di Fargo per dare sfogo al suo estro creativo. C’è molta teatralità ma poca sostanza, c’è la voglia di essere esistenzialisti ma col risultato di essere inconsistenti. Tutto sembra costruito ai fini di un divertissement individuale, senza che ci sia vero interesse nel raccontare una storia o dire qualcosa. Il finale, proprio nella sua paradossale brevità rispetto alla lunghezza di altri episodi, è esemplare nel rivelare come, al di là di tutto questo fumo negli occhi, ci fosse davvero poco da raccontare.

Voto: 5
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